Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

- Sanzione disciplinare a RSU che rilascia intervista sui motivi dell'agitazione <br/>- Tempi e modi di utilizzo dei permessi ex L. 104/92<br/>- Licenziamento per giusta caus

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav., 13 marzo 2023, n. 7293

Pres. Doronzo; Rel. Cinque; Ric. C.A.; Controric. A. S.p.A.

Licenziamento per giusta causa – CCNL Autoferrotranvieri – Autista di mezzo pubblico – Utilizzo abusivo del display dell'autobus – Legittimità

È legittimo il licenziamento per giusta causa dell'autista di mezzi pubblici che abbia utilizzato il display della vettura aziendale affidata per il servizio di linea per diffondere messaggi no vax e contestualmente pubblicato su Facebook la relativa immagine, accompagnata da affermazioni volgari e denigratorie nei confronti della società.

NOTA

Nel caso di specie un autista di mezzi pubblici veniva licenziato per giusta causa per aver utilizzato il display dell'autobus aziendale, al medesimo affidato per il servizio di linea, per diffondere messaggi no vax, con linguaggio scurrile, nonché per aver contestualmente pubblicato su Facebook la relativa immagine, accompagnata da affermazioni volgari e denigratorie nei confronti della società datrice di lavoro.Sia il Tribunale che la Corte d'appello adìti dal lavoratore rigettavano l'impugnativa del licenziamento. Quest'ultima, in particolare, dopo aver accertato la condotta contestata, rilevava che la stessa rientrava tra quelle punibili ai sensi del R.D. n. 148/1931 con la destituzione, nonché tra le ipotesi sanzionabili con il licenziamento senza preavviso ai sensi del CCNL Autoferrotranvieri.

Avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore, articolando due motivi. Con il primo motivo, lamentava l'erroneità della sentenza impugnata per avere ritenuto la Corte d'appello che la fattispecie accertata rientrasse tra le ipotesi di destituzione, anziché di mera sospensione dal lavoro, ai sensi del R.D. n. 148/1931, sul presupposto che l'uso improprio temporaneo del display non aveva inciso sulla regolarità del servizio. Con il secondo motivo, il dipendente lamentava altresì la violazione e falsa applicazione del CCNL Autoferrotranvieri in relazione all'art. 1362 cod. civ., ritenendo che la condotta dal medesimo posta in essere configurasse una mancanza da cui era derivata, semmai, la mera momentanea irregolarità del servizio e non un'ipotesi di appropriazione di un bene aziendale per uso personale e alterazione di documenti di trasporto, punita con la più severa sanzione espulsiva.

A fronte dei suddetti motivi di censura, con l'ordinanza in commento la Corte di legittimità ha confermato le precedenti decisioni di merito, rigettando il ricorso. Ciò, tra il resto, sul rilevo che correttamente la Corte d'Appello ha ritenuto il comportamento del dipendente quale illecita appropriazione, sia pure temporanea, di un bene aziendale, nonché quale alterazione di un «documento di trasporto» ex CCNL, rappresentato, nella fattispecie, dal display dell'autobus. Tale strumento, infatti, serve a rendere pubbliche e visibili agli utenti le indicazioni del c.d. foglio di viaggio, contenente, appunto, il tipo di servizio svolto, l'itinerario e l'indicazione della società che eroga il servizio. Ad ogni modo, secondo la Suprema Corte, la Corte d'Appello ha altresì correttamente applicato la nozione legale di giusta causa di cui all'art. 2119 cod. civ., valorizzando in maniera appropriata il disvalore sociale del complessivo comportamento oggetto di incolpazione, che non poteva sussumersi nella diversa previsione contrattual-collettiva della mera «mancanza da cui è derivata una momentanea irregolarità del servizio».

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav., 15 marzo 2023, n. 7467

Pres. Doronzo; Rel. Ponterio; Ric. Omissis; Controric. Omissis S.p.A.

Licenziamento – Giusta causa – Fattispecie – Illeciti consumi di carburante con l'auto aziendale – Legittimità del recesso – Sussiste Contestazione disciplinare – Obbligo datoriale di controllo continuo dei dipendenti – Esclusione – Tempestività – Effettiva conoscenza del fatto da parte del datore di lavoro – Necessità

L'utilizzo fraudolento del denaro aziendale per scopi privati costituisce grave inadempimento atto a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, così da integrare una giusta causa di recesso.

NOTA

La Corte d'Appello di Milano accoglieva il reclamo proposto dalla società datrice di lavoro e, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda della lavoratrice volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole in data 2 marzo 2017 per avere «addebitato alla società spese di carburante per l'uso dell'auto aziendale negli anni 2015 e 2016 non riferibili allo svolgimento dell'attività lavorativa».

I giudici di merito sottolineavano che «richiamati i precedenti di legittimità (Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 11583 del 2018) ed in sintonia con essi, l'immediatezza della contestazione dovesse valutarsi avendo riguardo non al verificarsi dei fatti contestati bensì al momento in cui il datore di lavoro ne ha avuto conoscenza; che, nel caso in esame, la società aveva preso in cognizione dei fatti imputabili alla dipendente solo nel gennaio 2017, in occasione delle verifiche dei conti per la chiusura del bilancio 2016; che era pertanto tempestiva la contestazione degli addebiti risalente al febbraio 2017; che la lavoratrice, nel fornire giustificazioni scritte, non aveva lamentato alcun pregiudizio al diritto di difesa connesso al tempo trascorso dai fatti addebitati».

La lavoratrice proponeva ricorso per cassazione avverso la pronuncia della Corte d'appello.

La Corte di cassazione rileva che «l'evidente sproporzione tra la spesa dichiarata dalla lavoratrice per i rifornimenti di carburante e i chilometri effettivamente percorsi dall'auto aziendale non avesse altra spiegazione né giustificazione se non quella dell'uso del denaro aziendale per scopi diversi da quelli inerenti all'esecuzione della prestazione», precisando che la Corte territoriale si atteneva «ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; n. 6901 del 2016; n. 21214 del 2009; n. 7838 del 2005) e di proporzionalità della misura espulsiva (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; n. 21965 del 2007; n. 25743 del 2007) ed ha motivatamente valutato la gravità della condotta e la specifica idoneità della stessa a far venir meno l'affidamento nel corretto futuro adempimento degli obblighi contrattuali».

In sostanza, è legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato alla lavoratrice che abbia addebitato alla datrice di lavoro spese di carburante per l'uso dell'auto aziendale eccessive rispetto al chilometraggio effettivamente dichiarato e percorso in esecuzione dell'attività lavorativa. Tale condotta è, infatti, grave e idonea far venir meno l'affidamento nel corretto futuro adempimento degli obblighi contrattuali.

Inoltre la Suprema Corte precisa che «il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse controllato assiduamente l'operato del dipendente, ma con riguardo all'epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza indipendentemente da quando si sia verificata».

Conclusivamente la Corte rigetta il ricorso della lavoratrice.

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav., 9 marzo 2023, n. 7029

Pres. Doronzo; Rel. Pagetta; Ric. M.M.; Controric. T. S.p.A.

Licenziamento – Lavoratore che pronuncia frasi sconvenienti e offensive nei confronti di una collega omosessuale – Giusta causa – Sussistenza – Lesione di principi costituzionali – Sussistenza

Il dipendente che pronunci frasi sconvenienti ed offensive – alla presenza di terzi – nei confronti di una collega, deridendola per la sua omosessualità, realizza un'indebita intrusione nella sfera intima e assolutamente riservata della persona, tale da essere sanzionabile con il licenziamento per giusta causa. Siffatta condotta non può essere considerata quale una mera violazione di regole formali di buona educazione ma integra la lesione dei principi costituzionali a tutela della dignità umana, del divieto di discriminazione in ambito lavorativo e della riservatezza di dati sensibili.

NOTA

La Corte di Appello di Bologna, riformando parzialmente la sentenza resa all'esito del primo grado di giudizio, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare irrogato a un lavoratore che aveva pubblicamente rivolto frasi offensive nei confronti di una collega lesbica («ma perché sei uscita incinta anche tu?», «ma perché non sei lesbica tu?» e altre frasi incalzanti di analogo tenore letterale).

Secondo la Corte distrettuale, invero, l'atto di recesso per giusta causa era da ritenersi sproporzionato, anche in considerazione del codice disciplinare applicato dall'azienda incline a sanzionare con la sola sospensione la verificazione di «condotte inurbane o scorrette verso il pubblico» e contrarie, in definitiva, alla buona educazione e al vivere civile.

Conseguentemente, il giudice di seconde cure aveva accordato la sola sanzione indennitaria contemplata dall'art. 18, comma 5, St. Lav., in considerazione della materiale ricorrenza degli addebiti contestati idonei a escludere l'applicazione del rimedio reintegratorio.Contro la statuizione resa dalla Corte bolognese ha promosso ricorso in Cassazione la Società lamentando l'erronea sovrapposizione della fattispecie concreta alla base del licenziamento a condotte meramente contrarie alla buona educazione, posto che la stessa ha ad oggetto un comportamento ben più grave del mero contegno inurbano, lesivo dei valori costituzionali e uni-europei in materia di orientamento sessuale.

Orbene, nell'accogliere i motivi di censura sollevati, la Suprema Corte di Cassazione ha osservato come: «la valutazione operata dal giudice di merito nel ricondurre a mero comportamento "inurbano" la condotta del lavoratore non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell'ordinamento; essa rimanda, infatti, ad un comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, laddove il contenuto delle espressioni usate e le ulteriori circostanze di fatto nel quale il comportamento del dipendente deve essere contestualizzato si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell'ordinamento». E invero, secondo i giudici di legittimità: «costituisce innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni la acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona; l'intrusione in tale sfera, effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone, non può pertanto essere considerata secondo il "modesto" standard della violazione di regole formali di buona educazione utilizzato dal giudice del reclamo, ma deve essere valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell'uomo (art. 2), il riconoscimento della pari dignità sociale, "senza distinzione di sesso", il pieno sviluppo della persona umana (art. 3), il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell'individuo (art. 4), oggetto di particolare tutela "in tutte le sue forme ed applicazioni" (art. 35)», con conseguente sussumibilità della condotta realizzata dal lavoratore nella nozione legale di giusta causa di cui all'art. 2119 c.c., idonea a legittimare il licenziamento in tronco del prestatore. La Corte ha quindi accolto il ricorso e rimesso le parti alla Corte di appello di Bologna per il riesame della fattispecie, al fine della verifica della sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento, come ricostruita, e per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

TEMPI E MODI DI UTILIZZO DEI PERMESSI EX L. 104/92

Cass. Sez. Lav., 13 marzo 2023, n. 7306

Pres. Doronzo; Rel. Ponterio; Ric. Omissis; Contror. Omissis

Permessi ex L. 104/92 – Natura – Tempi e modi di utilizzo – Totale abdicazione delle esigenze personali – Esclusione – Intervalli di tempo ad uso personale dopo aver svolto incombenze per i disabili – Abuso del diritto – Esclusione – Licenziamento per giusta causa – Ilegittimità

Nei casi in cui il lavoratore in permesso ex art. 33, comma 3 L. 104/1992, svolga l'attività di assistenza in tempi e modi tali da soddisfare in via preminente le esigenze e i bisogni dei congiunti in condizione di handicap grave, pur senza abdicare del tutto alle esigenze personali e familiari altre rispetto a quelle proprie dei congiunti disabili e pure a prescindere dall'esatta collocazione temporale di detta assistenza nell'orario liberato dall'obbligo della prestazione lavorativa, non potrà ravvisarsi alcun abuso del diritto o lesione degli obblighi di correttezza e buona fede, quindi alcun inadempimento.

NOTA

La Corte d'appello di Genova ha respinto il reclamo principale di una Società confermando la sentenza del Tribunale che, al pari dell'ordinanza emessa all'esito della fase sommaria, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato per avere il dipendente (in cinque giorni dei sette controllati tramite investigatori privati) usufruito dei permessi di cui alla L. 104/1992, per finalità estranee all'assistenza dei genitori disabili. La Corte territoriale ha rilevato che il lavoratore aveva diritto ai permessi per assistere entrambi i genitori in condizioni di handicap grave; ha accertato, attraverso plurimi testimoni, che nel mese il predetto aveva trasferito il padre presso la propria abitazione, a causa dell'aggravarsi delle condizioni di salute della madre; che quindi per il tempo in cui il lavoratore è rimasto nella propria abitazione ha usufruito regolarmente dei permessi per assicurare l'assistenza al padre; che l'accesso presso un negozio di articoli sanitari, rilevato dagli investigatori, era finalizzato all'acquisito di una poltrona per la madre, come riferito dai testimoni, ed era anch'esso legato alle necessità di assistenza; che nei restanti giorni, oggetto di controllo investigativo, il lavoratore ha svolto altre incombenze rientranti nella finalità dei permessi; in tale contesto, secondo i giudici di appello, dovevano considerarsi non decisivi gli intervalli di tempo non dedicati alla cura dei genitori ma, ad esempio, alla lettura di libri presso i giardini pubblici, circostanza rilevata dagli investigatori in due distinte occasioni nel periodo di tempo considerato (corrispondente all'orario di lavoro) e ogni volta per la durata di circa due ore. Sulla base dei dati appena esposti, la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse sostanzialmente garantita dal lavoratore l'assistenza ai genitori. I giudici di appello hanno quindi escluso che la condotta del lavoratore costituisse un grave inadempimento degli obblighi sul medesimo gravanti ed hanno giudicato il licenziamento privo di giusta causa ed anche di giustificato motivo soggettivo.

Avverso tale sentenza la Società ha proposto ricorso per cassazione lamentando «la violazione e falsa applicazione dell'art. 33, L. 104 del 1992, richiamando precedenti di legittimità che affermano come l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso debba porsi in "relazione diretta" con l'assistenza del disabile e critica la decisione d'appello nella parte in cui, richiamando la pronuncia di primo grado, reputa legittimo verificare la proporzione tra tempo-assistenza e tempo-svago avendo riguardo non all'orario di lavoro ma all'intera giornata di 24 ore, così introducendo la possibilità di una compensazione tra tempo-assistenza fuori orario di lavoro e tempo-svago durante l'orario di lavoro».

La Corte ha respinto il ricorso ricordano che «il diritto ai permessi retribuiti è riconosciuto al "lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità"; il nesso che il testo normativo pone non è di tipo strettamente temporale, cioè tra la fruizione del permesso e la prestazione di assistenza in precisa coincidenza con l'orario di lavoro, bensì funzionale, tra il godimento del permesso e le necessità, gli oneri, gli incombenti che connotano l'attività di assistenza delle persone disabili in condizioni di gravità. Il contenuto dell'assistenza che legittima l'assenza dal lavoro (il permesso retribuito), quindi i tempi e i modi attraverso cui la stessa viene realizzata, devono individuarsi in ragione della finalità per cui i permessi sono riconosciuti, cioè la tutela delle persone disabili, il cui bisogno di ricevere assistenza giustifica il sacrificio organizzativo richiesto al datore di lavoro». Secondo la Corte «è quindi elemento essenziale della fattispecie, l'esistenza di un diretto e rigoroso nesso causale tra la fruizione del permesso e l'assistenza alla persona disabile, da intendere, come questa Corte ha già chiarito, non in senso così rigido da imporre al lavoratore il sacrificio, in correlazione col permesso, delle proprie esigenze personali o familiari in senso lato, ma piuttosto quale chiara ed inequivoca funzionalizzazione del tempo liberato dall'obbligo della prestazione di lavoro alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile».

I giudici di legittimità hanno quindi respinto il ricorso rilevando che la Corte di appello si è attenuta ai principi e criteri di giudizio appena richiamati e, sulla base di un puntuale accertamento e senza inversione alcuna degli oneri di prova, ha verificato come i giorni di permesso siano stati utilizzati dal lavoratore in misura prevalente per esigenze connesse all'assistenza dei genitori disabili, sia sotto forma di assistenza domiciliare e sia attraverso accessi in negozi sanitari e studi medici, contatti con altri familiari coinvolti nella cura dei genitori, escludendo di conseguenza che potesse configurarsi un inadempimento di rilievo disciplinare

SANZIONE DISCIPLINARE A RSU CHE RILASCIA INTERVISTA SUI MOTIVI DELL'AGITAZIONE

Cass. Sez. Lav., 16 marzo 2023, n. 7676

Pres. Tria; Rel. Di Paola; Ric. O.S.R.L.; Controric O.

Lavoro subordinato – Sanzione disciplinare a RSU che rilascia intervista sui motivi dell'agitazione – Veridicità dei fatti – Illegittimità – Condotta antisindacale ex art. 28 Stat. Lav. – Sussistenza

È antisindacale la condotta del datore che sospenda per un giorno da lavoro e stipendio il rappresentante sindacale che rilascia un'intervista avente ad oggetto fatti assistiti da veridicità e non meramente denigratori.

NOTA

Nel caso di specie la decisione del Tribunale di Ravenna, con la quale era stata considerata condotta antisindacale la sanzione di un giorno di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione irrogata al lavoratore membro della RSU per aver rilasciato un'intervista sui motivi alla base dell'agitazione sindacale in corso, veniva confermata anche in sede di reclamo. In particolare nel corso dell'intervista il lavoratore comunicava che l'agitazione era dovuta agli orari troppo pesanti cui venivano sottoposti i rimorchiatori, spesso anche superiori alle 14 ore, e mirava all'ottenimento di orari migliori.

Contro tale decisione ricorreva in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo che la stessa non aveva leso gli interessi collettivi dell'organizzazione sindacale cui aderiva il dipendente non avendo inteso censurare la dichiarazione rilasciata da quest'ultimo ma contestare il fatto che lo stesso avesse pubblicamente attribuito alla società un illecito in realtà inesistente o comunque mai provato (imporre ai dipendenti turni di oltre 14 ore al giorno).

La Cassazione ha respinto il ricorso. Infatti la Suprema Corte ha rilevato che il contenuto dell'intervista, lungi dall'assurgere a condotta meramente denigratoria, rivestiva i caratteri della veridicità da individuarsi nella «comprovata esistenza e risalenza di una controversia fra le parti sociali relativamente all'interpretazione del Contratto collettivo aziendale con riguardo alla computabilità o meno nel monte orario consentito delle "pause" di servizio, e non nella bontà o meno nel merito dell'interpretazione di parte». In sostanza, sostiene la Suprema corte, l'intervista aveva ad oggetto la diversa interpretazione – propria della RSU – del CCNL aziendale ed escludere la possibilità di rilasciarla o comunque sanzionarla, finisce con l'espungere dai diritti sindacali quello di reinterpretazione o di rinegoziazione dell'accordo sindacale sottoscritto. La condotta del lavoratore nel caso di specie è dunque da ritenersi legittima e non censurabile dal datore di lavoro.


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