Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Accordo sindacale d'impegno alla ricollocazione del personale <br/>Licenziamento ritorsivo <br/>Licenziamento disciplinare <br/>Dispositivi di protezione individuale e obblighi del datore <br/>Malattia e verifica dell'idoneità prima della ripresa al lavoro<br/>

immagine non disponibile

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Accordo sindacale d'impegno alla ricollocazione del personale

Cass. Sez. Lav., 18 ottobre 2022, n. 30544

Pres. Doronzo; Rel. Esposito; Ric. C.A.; Controric. C.A.I. S.p.A.

Cessazione attività – Ricollocazione personale – Accordo sindacale – Impegno della subentrante ad assumere una parte dei dipendenti – Contratto a favore di terzo – Diritto all'assunzione – Condizione – Prova del possesso dei requisiti – Necessità – Onere del lavoratore

L'accordo intervenuto tra due società con l'intervento delle organizzazioni sindacali avente ad oggetto la ricollocazione del personale interessato dalla cessazione dell'attività di una delle due imprese e contenente l'impegno della subentrante ad assumere alle sue dipendenze una determinata percentuale dei dipendenti messi in mobilità, va qualificato contratto a favore di terzi, che fa sorgere in capo ai beneficiari, se individuati o individuabili, un diritto da opporre alla impresa promittente. Da detta qualificazione discende che, qualora l'accordo non indichi nominativamente i dipendenti da assumere ma si limiti a stabilire i criteri per la individuazione dei lavoratori che dovranno transitare alle dipendenze dell'imprenditore subentrante, il titolo della pretesa che il singolo lavoratore fa valere nei confronti di quest'ultimo non è costituito solo dall'accordo collettivo, ma anche dal possesso dei requisiti stabiliti dalle parti contraenti per la individuazione dei terzi beneficiari. È, quindi, onere del lavoratore che agisca in giudizio per rivendicare il diritto all'assunzione dimostrare che sulla base dei criteri indicati nell'accordo la scelta doveva ricadere sulla sua persona.

NOTA

Nel caso di specie, un lavoratore adiva l'Autorità Giudiziaria per ottenere, tra il resto, l'accertamento del proprio diritto all'assunzione presso la società convenuta in virtù dell'accordo sindacale per la ricollocazione del personale da quest'ultima stipulato con le organizzazioni sindacali nonché con altra società alla quale subentrava nelle attività. Secondo la prospettazione del ricorrente, tale diritto all'assunzione era stato violato dalla società subentrante per non avere la medesima rispettato le prescrizioni in punto di criteri di scelta dei lavoratori da assumere presso di sé contenute nel menzionato accordo sindacale, da qualificarsi come contratto a favore di terzo.

Sia il Tribunale di Civitavecchia, adito in primo grado, sia la Corte d'Appello di Roma, in secondo grado, rigettavano integralmente la domanda del lavoratore. La Corte d'Appello, in particolare, respingeva tale richiesta ritenendo non ravvisabile nel suddetto accordo un contratto a favore di terzo da cui derivassero specifici diritti dei lavoratori ma piuttosto un accordo non avente carattere aziendale in quanto estraneo all'azienda medesima, intercorrente tra soggetti diversi. Oltre a ciò, la Corte rilevava che, comunque, il ricorrente non aveva dato dimostrazione in giudizio della presunta erroneità dell'impiego da parte della convenuta dei criteri di scelta dei lavoratori da assumere, né, quindi, dell'illegittimità della di lui esclusione.

Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte il lavoratore, lamentando, tra il resto, la violazione e falsa applicazione del criterio interpretativo dei contratti di cui all'art. 1362 cod. civ. e contestando l'assunto del Giudice di merito secondo cui l'accordo sindacale su cui si fondava la pretesa avanzata in giudizio non aveva natura di contratto a favore di terzo.

A fronte di suddetta censura, la Cassazione confermava il rigetto della domanda in ragione della mancata prova, da parte del lavoratore, dell'esistenza dei requisiti previsti per la sua assunzione dall'accordo sindacale dal medesimo invocato. Ciò chiarito, la Corte, tuttavia, si pronunciava come da massima e precisava che di tal guisa dovesse essere corretta la sentenza di secondo grado, essendo, tra l'altro, fondato il rilievo del dipendente circa la violazione dei canoni ermeneutici, specie tenuto conto della partecipazione all'accordo delle organizzazioni sindacali e della volontà delle parti così come risultante dal testo del medesimo.

Licenziamento ritorsivo

Cass. Sez. Lav., 14 ottobre 2022, n. 30271

Pres. Raimondi; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.F.; Contr. S.L. S.r.l.

Licenziamento ritorsivo – Motivo illecito unico e determinante – Necessità Licenziamento discriminatorio – Sussistenza – Motivo legittimo di licenziamento – Irrilevanza

Nel caso in cui il lavoratore alleghi il carattere ritorsivo del licenziamento, è suo onere dimostrare l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso quando il datore di lavoro abbia almeno apparentemente fornito la prova dell'esistenza della giusta causa di licenziamento. Laddove, invece, ne denunci il carattere discriminatorio, tale prova non rileva atteso che, in tal caso, ben può il licenziamento essere nullo pur accompagnandosi ad altro motivo legittimo.

La nullità del licenziamento discriminatorio discende infatti direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed è per questo che, diversamente dall'ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 cod. civ., e la natura discriminatoria non può essere esclusa dalla concorrenza di un'altra finalità, pur legittima, quale ad esempio l'esistenza di un motivo economico.

Licenziamento disciplinare – Contestazione disciplinare – Principio di immediatezza – Interpretazione relativa – Natura dell'illecito – Tempo necessario all'accertamento dei fatti – Complessità dell'organizzazione aziendale – Rilevanza – Onere della prova – Datore di lavoro

Il principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare, la cui ratio riflette l'esigenza dell'osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, non consente all'imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento per giusta causa l'immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro. Si tratta tuttavia di nozione che deve essere intesa in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell'illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l'espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l'organizzazione aziendale. È onere del datore di lavoro dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo (quali il tempo necessario per l'accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell'impresa), e la valutazione delle allegazioni e delle prove è riservata al giudice di merito e non è insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti in cui è ancora consentita la denuncia del vizio di motivazione.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, confermando le decisioni rese nelle precedenti fasi del giudizio, rigettava il ricorso proposto da un dipendente con mansioni di autista, licenziato dal datore di lavoro per aver causato un tamponamento per grave colpa anche conseguente all'utilizzo di una chat telefonica. In particolare, la Corte d'Appello confermava l'assenza di prova circa la natura discriminatoria del licenziamento nonché l'esistenza di una giusta causa di licenziamento nella negligenza e imperizia del lavoratore alla guida, che assumeva rilievo tenuto conto delle mansioni del dipendente e giustificava quindi la cessazione immediata del rapporto di lavoro.

Il lavoratore ricorreva per Cassazione eccependo, quale primo motivo di ricorso, la violazione dell'art. 4, L. 604/1966, dell'art. 15, L. 300/1970 e dell'art. 1419 cod. civ., sostenendo che il licenziamento fosse soltanto apparentemente fondato su ragioni disciplinari, ma in realtà nullo perché discriminatorio essendo fondato sulle condizioni di salute del lavoratore, risultato idoneo con limitazioni allo svolgimento delle mansioni.

La Corte di Cassazione ritiene il motivo infondato. Innanzitutto, premette che, nell'ipotesi in cui un lavoratore alleghi il carattere ritorsivo del licenziamento, è suo onere dimostrare l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso nell'ipotesi in cui il datore di lavoro abbia fornito la prova della giusta causa; laddove, invece, ne denunci il carattere discriminatorio, tale prova non rileva atteso che il licenziamento può essere nullo pur accompagnandosi ad altro motivo legittimo (in tal senso, Cass. 28453/2018; Cass. 20742/2018). In caso di licenziamento discriminatorio, infatti, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante e la natura discriminatoria non può essere esclusa dall'esistenza di un'altra finalità, seppure legittima, quale un motivo economico (in tal senso, Cass. 1377/2019; Cass. 6575/2016).

Nel caso in esame, il licenziamento era stato intimato all'esito di un procedimento disciplinare, nell'ambito del quale erano stati contestati fatti talmente gravi da comportare il licenziamento per giusta causa. Il lavoratore non aveva invece chiarito in che modo la circostanza che il licenziamento fosse stato intimato in prossimità al momento in cui il datore di lavoro aveva ricevuto l'esito della visita di idoneità avesse interferito nella decisione di risolvere il rapporto. Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, accertata la giusta causa, il carattere ritorsivo del licenziamento è smentito. Quanto al suo carattere discriminatorio, il lavoratore non aveva chiarito in cosa dovesse ravvisarsi il carattere discriminatorio della condotta del datore di lavoro, che aveva intimato il licenziamento all'esito di un complesso procedimento disciplinare.

Con un ulteriore motivo di ricorso, il lavoratore lamenta la violazione dell'art. 7, L. 300/1970, per avere la Corte d'Appello ritenuto il licenziamento tempestivo, nonostante il rilevante e – a suo dire – ingiustificato lasso di tempo intercorso tra i fatti e la contestazione.

La Corte di Cassazione ritiene il motivo di ricorso inammissibile. Come noto, infatti, il principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare non consente al datore di lavoro di procrastinare la contestazione in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto di lavoro, rappresentando l'immediatezza della contestazione un elemento costitutivo del diritto di recesso medesimo. Tale nozione deve però essere intesa in senso relativo, dovendosi tener conto della natura dell'illecito e del tempo necessario al datore di lavoro per espletare le indagini, anche in considerazione della complessità dell'organizzazione aziendale (in tal senso, Cass. 16842/2018; Cass. 281/2016; Cass. 13955/2014; Cass. 14115/2006).

La Corte d'appello si era attenuta ai suddetti principi, ritenendo legittimo il comportamento del datore di lavoro in assenza di alcun pregiudizio alla difesa del lavoratore.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav., 7 ottobre 2022, n. 29332

Pres. Raimondi; Rel. Gualtiero; Ric. B.P.M.; Controric. A.O.M. S.S. O.n.l.u.s.

Contestazione disciplinare – Specificità – Necessità – Schemi rigidi – Esclusione – Contestazione "per relationem" – Ammissibilità

Poiché la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem.

NOTA

La Corte di Appello di Caltanissetta, nel confermare la sentenza resa all'esito del primo grado di giudizio, giudicava legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dirigente medico in ragione dei plurimi atteggiamenti vessatori e denigratori assunti nei confronti di altri medici e biologi a lui sottoposti.

Secondo la Corte distrettuale, le plurime condotte contestate – seppur prive di alcuni riferimenti spazio-temporali – erano comunque idonee a circoscrivere, per relationem e in maniera intellegibile per il prestatore, i fatti materiali alla base dell'atto di recesso, non dovendo la contestazione disciplinare rivestire schemi formali o rigidi ma dovendo garantire, sotto un profilo sostanzialistico, il diritto di difesa della parte lavoratrice.

Contro la suindicata statuizione ha promosso ricorso in cassazione il lavoratore lamentando l'illegittimità del licenziamento e il diritto dello stesso alla reintegrazione nel luogo di lavoro, in ragione dell'insussistenza materiale dei fatti addebitati, in quanto non elencati in maniera sufficientemente specifica dall'atto di avvio del procedimento disciplinare.

Tuttavia, i giudici di legittimità, nel rigettare il ricorso, hanno ribadito come: «in tema di licenziamento disciplinare, nell'apprezzare la sussistenza del requisito della specificità della contestazione il giudice di merito deve verificare, al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti, se la contestazione offre le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, tenuto conto del loro contesto, e verificare altresì se la mancata precisazione di alcuni elementi di fatto abbia determinato un'insuperabile incertezza nell'individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa».

Dispositivi di protezione individuale e obblighi del datore

Cass. Sez. Lav. ord. 11 ottobre 2022, n. 29720

Pres. Esposito; Rel. Amendola; Ric. F.A.L.; Contr. M.E.

Indumenti da lavoro – Dispositivi di protezione individuale – Nozione ampia – Obbligo del datore di fornirli e lavarli – Sussistenza – Mancato lavaggio – Diritto al risarcimento del danno – Sussistenza

La nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 cod. civ. norma di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro.

NOTA

La Corte d'Appello di Bari ha confermato la decisione di primo grado che, in accoglimento del ricorso proposto da un lavoratore, con mansioni di operatore qualificato della manutenzione, aveva dichiarato il diritto del ricorrente al risarcimento dei danni per il mancato lavaggio dei seguenti indumenti: gilet e giubbotto frangente ad alta visibilità, giubbotto impermeabile contro le intemperie, pantalone invernale da lavoro e guanti di protezione, tutti da considerare dispositivi di protezione individuale.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Società per «violazione e falsa applicazione dell'art. 74 del d. lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 in quanto, in assenza di un rischio concreto e dimostrato per la salute e la sicurezza, gli indumenti in discussione non costituivano DPI in senso tecnico, ma meri indumenti di custodia, forniti al fine di preservare gli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'attività lavorativa, con conseguente esclusione dell'obbligo di relativo lavaggio a carico del datore di lavoro».

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ricordando la costante giurisprudenza che afferma che «la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 cod. civ., norma di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro; nella medesima ottica il datore di lavoro è tenuto a fornire i suddetti indumenti ai dipendenti e a garantirne l'idoneità a prevenire l'insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza e che, pertanto, rientra tra le misure necessarie "per la sicurezza e la salute dei lavoratori" che il datore di lavoro è tenuto ad adottare».

Malattia e verifica dell'idoneità prima della ripresa al lavoro

Cass. Sez. Lav. 12 ottobre 2022, n. 29756

Pres. Raimondi; Rel. Di Paola; Ric. C.E.; Controric. C.V. S.r.l.

Lavoro subordinato – Reiterata assenza per malattia per oltre 60 giorni – Art. 41 D.Lgs. 81/2008 – Sorveglianza sanitaria – Verifica idoneità prima della ripresa al lavoro – Omissione – Obbligo di presentarsi a lavoro – Sussistenza – Violazione –Assenza ingiustificata – Configurabilità –Licenziamento – Legittimità

È legittimo il licenziamento della dipendente assente per malattia da oltre 60 giorni che, cessata la malattia, continui a rimanere assente in attesa dell'iniziativa datoriale finalizzata all'effettuazione della visita di idoneità alle mansioni ai sensi dell'art. 41 d.lgs. 81/2008. Una volta cessato lo stato di malattia è, infatti, dovere del lavoratore presentarsi al lavoro, posto che l'omissione della visita in questione giustifica l'astensione dalle mansioni svolte prima dell'assenza, ma non anche la mancata presentazione sul posto di lavoro, ben potendo il datore disporre, nell'attesa della visita medica, l'eventuale e provvisoria diversa collocazione del lavoratore nell'impresa.

NOTA

Nel caso di specie la lavoratrice veniva licenziata per giusta causa a seguito di una prolungata assenza ingiustificata dal lavoro. Il periodo di assenza ingiustificata avveniva successivamente a un periodo di assenza per malattia di oltre 60 giorni, all'esito del quale la lavoratrice – non essendo stata convocata per la visita di idoneità – non si era più presentata al lavoro, senza inviare alcun certificato o giustificazione.

Il Tribunale di Napoli, prima, e la Corte d'Appello, poi, avevano rigettato la richiesta di declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice all'esito di procedura disciplinare fondata sull'assenza ingiustificata.

Contro la decisione della Corte d'Appello ricorreva in Cassazione la lavoratrice lamentando, per quanto qui interessa, che la Corte avesse errato poiché, essendo la visita di idoneità alla mansione successiva ad una assenza dal lavoro per malattia di oltre 60 giorni prevista per legge a «cura e spese» del datore, lo stesso avrebbe dovuto provvedere a convocarla per lo svolgimento della stessa e che, fino a tale momento, la lavoratrice fosse legittimata a non presentarsi a lavoro.

La Suprema Corte ha dichiarato la doglianza infondata e rigettato il ricorso.

La Cassazione ha confermato che la previsione legale per cui il lavoratore assente per malattia per oltre 60 giorni debba essere sottoposto –al rientro– a visita di idoneità, non permette a quest'ultimo di restare assente sino alla convocazione, essendo al contrario suo preciso onere quello di ripresentarsi al lavoro appena cessata la malattia. La stessa Corte ha rimarcato un suo indirizzo precedente secondo il quale il mancato svolgimento della visita per l'adibizione del lavoratore alle stesse mansioni svolte in precedenza potrebbe ammettere il rifiuto dal lavoratore – in autotutela ai sensi dell'art 1460 cod. civ. – a svolgere tali mansioni, ma non a ripresentarsi al lavoro, poiché in attesa della visita il datore di lavoro potrebbe legittimamente adibire il lavoratore ad altre e provvisorie mansioni.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©