Rassegne di giurisprudenza

Rassegna di Cassazione

Licenziamento per giusta causa <br/>Licenziamento per superamento del periodo di comporto Licenziamento orale<br/> Licenziamento, forma scritta <br/>Trasferimento di ramo d'azienda illegittimo

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa

Cassazione sezione lavoro, 6 settembre 2022, n. 26199

Pres. Esposito; Rel. Cinque; Ric. G.A.L.; Controric R. S.p.A.

Lavoro subordinato – Sorveglianza sanitaria – Rifiuto della visita medica – Licenziamento – Giusta causa – Legittimità – Paura del demansionamento o licenziamento – Irrilevanza

È legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che si rifiuti (nella specie due volte) di sottoporsi alla visita medica disposta nell'ambito della sorveglianza sanitaria in occasione del cambio di mansioni, per paura di essere, all'esito della stessa, eventualmente demansionato o anche licenziato per inidoneità fisica. La condotta in questione, infatti, è del tutto ingiustificabile ai sensi dell'art. 1460 c.c. posto che l'impresa si è limitata ad applicare le norme di legge a tutela delle condizioni fisiche dei lavoratori nell'espletamento delle mansioni e che il dipendente avrebbe comunque potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso.

NOTA

Nel caso di specie la lavoratrice aveva impugnato dinnanzi al Tribunale di Bologna il licenziamento per giusta causa intimatole all'esito del procedimento disciplinare scaturito dal suo rifiuto di sottoporsi a due visite mediche propedeutiche a un cambio di mansioni.Il Tribunale di Bologna aveva dichiarato illegittimo il recesso, con decisione poi riformata in Corte d'Appello. Quest'ultima aveva infatti rilevato la legittimità di licenziamento sostenendo che tale comportamento integrasse gli estremi della grave insubordinazione, posto che il dovere di sottoporsi alle visite rientra tra quelli previsti dal Dlgs 81/2008 a carico del prestatore di lavoro. Per la Corte, infatti, non aveva alcuna rilevanza l'argomentazione della lavoratrice che sosteneva che il rifiuto fosse motivato dal timore di un illegittimo demansionamento in quanto il controllo era dovuto per legge e non avrebbe in alcun modo pregiudicato le possibilità di tutela contro un eventuale provvedimento (di recesso o demansionamento) illegittimo.Contro la decisione della Corte d'Appello ricorreva in Cassazione la lavoratrice lamentando, per quanto qui interessa, che la Corte avesse errato nel ritenere non giustificato il rifiuto di sottoporsi a visite che, secondo lei, erano propedeutiche a un incarico demansionante. La Suprema Corte ha dichiarato la doglianza infondata e rigettato il ricorso. La Cassazione ha confermato, in primis, che sussistevano obblighi di legge per la sottoposizione a visita della lavoratrice, sia perché la visita è prevista in caso di cambio mansione, sia perché la legge prevede un obbligo generale di visita a cadenza annuale di cui ricorrevano i presupposti (lavoratrice era da poco rientrata da un lungo periodo di cassa integrazione). In secundis la Cassazione ha rilevato che il rifiuto della lavoratrice non fosse legittimo, neppure ai sensi dell'art. 1460 c.c., in quanto il datore di lavoro si era appunto limitato a fare applicazione di un obbligo di legge (tale che se non lo avesse fatto sarebbe stato passibile di sanzione per omissione colposa o dolosa) e il lavoratore avrebbe sempre potuto impugnare tanto l'esito della visita quanto l'eventuale provvedimento datoriale seguente.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cassazione sezione lavoro, 16 settembre 2022, n. 27334

Pres. Raimondi; Rel. Ponterio; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.F.; Contr. G S.r.l.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Mancato superamento del comporto – Nullità ex art. 2110 comma 2 c.c. – Tutela applicabile – Art. 18 commi 4 e 7 (post legge Fornero) – Mancanza del requisito dimensionale – Irrilevanza

Nel sistema delineato dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, il licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2 c.c. è nullo e le sue conseguenze sono disciplinate, secondo un regime sanzionatorio speciale, dal comma 7, che a sua volta rinvia al comma 4, del medesimo articolo 18, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.

NOTA

Una lavoratrice ha agito in giudizio, nei confronti della società datrice di lavoro, per far accertare la nullità o annullabilità del licenziamento intimatole ai sensi dell'art. 2110, comma 2, cod. civ., con declaratoria di continuazione del rapporto di lavoro nonché condanna di parte datoriale alla reintegra nelle mansioni precedentemente svolte e al risarcimento del danno nella misura fissata dall'art. 18, commi 4 e 7, legge n. 300 del 1970. Il Tribunale di Reggio Emilia ha accolto la domanda della lavoratrice. La società ha proposto reclamo e la Corte d'appello di Bologna, in parziale accoglimento dell'impugnazione e in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato la parte datoriale a riassumere la lavoratrice entro tre giorni o a corrisponderle, a titolo di risarcimento del danno, una indennità pari a sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La Corte di merito ha accertato che la lavoratrice si era infortunata nell'espletamento della mansione assegnatale. Dalla comprovata responsabilità datoriale nella causazione dell'infortunio, i giudici di appello hanno tratto la conseguenza della non computabilità, ai fini del comporto, dei periodi di assenza dal lavoro per infortunio ed hanno ritenuto non superato il periodo di comporto. Sulla tutela applicabile al licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto, la Corte d'Appello ha ritenuto che la lettura data dal primo giudice si ponesse in contrasto con l'art. 18, comma 8, St. Lav., che esplicitamente esclude l'applicazione dei commi dal quarto al settimo al datore di lavoro privo dei requisiti dimensionali individuati nel medesimo comma 8. Con la conseguenza che il combinato disposto dell'art. 18, commi 4 e 7, deve considerarsi operante nei limiti della tutela c.d. reale e non applicabile ai licenziamenti intimati da datori di lavoro privi del requisito occupazionale. La Corte di merito ha quindi ricondotto il caso in esame alla previsione dell'art. 8, della legge n. 604 del 1966, quantificando l'indennità risarcitoria nella misura di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione per «violazione e/o falsa applicazione dell'art. 18, commi 1, 4, 7 e 8 della legge n. 92 del 2012, in relazione agli artt. 1418 e 2110 cod. civ, nonché violazione dell'art. 8, legge n. 604 del 1966». La Corte di legittimità ha accolto il ricorso rilevando l'erroneità in diritto della tesi dei giudici di secondo grado, enunciando il principio di diritto riportato in massima. Il percorso logico seguito dalla Corte di Cassazione può essere così riassunto: a. la collocazione della disciplina del licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2 c.c. nel comma 7, anziché nel comma 1, dell'art. 18, costituisce espressione della scelta legislativa di sanzionare con minor rigore la fattispecie di licenziamento in esame, attraverso una norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel co. 1; b. il licenziamento in violazione dell'art. 2110 c.c., pur rientrando tra gli "altri casi di nullità previsti dalla legge" di cui al comma 1, è inserito nel comma 7 soltanto quoad poenam, al fine cioè della applicazione del rimedio meno rigoroso quale è la tutela reintegratoria attenuata; c. al di là dello speciale regime sanzionatorio applicabile, il licenziamento in violazione dell'art. 2110 c.c. resta quindi assoggettato alla disciplina generale del licenziamento nullo le cui conseguenze, per espressa previsione normativa (art. 18, comma 1 Fornero) sono indifferenti al numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.  

Licenziamento orale

Cassazione sezione lavoro, 7 settembre 2022, n. 26407

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. Omissis S.r.l.; Controric. R.S.

Licenziamento orale – Impugnativa stragiudiziale (art. 6 L. 604/1966) – Termini di decadenza – Applicabilità – Esclusione

L'azione per far valere l'inefficacia del licenziamento verbale non è subordinata all'impugnazione stragiudiziale, anche a seguito delle modifiche apportate dall'art. 32 della L. n. 183 del 2010 all'art. 6 della L. n. 604 del 1966, mancando l'atto scritto da cui la norma fa decorrere il termine di decadenza.

NOTA

La Corte di Appello di Genova, nel confermare la sentenza resa all'esito del primo grado di giudizio, giudicava nullo il provvedimento risolutivo irrogato dalla società datrice di lavoro, in quanto privo di forma scritta, disponendo la relativa reintegrazione ai sensi dell'art. 18, co. 1, St. Lav.Secondo la Corte distrettuale, l'atto di recesso, essendo stato intimato oralmente, non poteva ritenersi assoggettato al doppio termine di impugnazione decadenziale (stragiudiziale e giudiziale) previsto dal novellato art. 6 L. 604/1966, in quanto la disposizione normativa richiede, espressamente, la ricorrenza di una forma scritta al fine di attivarne il decorso.Contro la pronuncia di merito ha promosso ricorso in Cassazione la società lamentando l'erronea esclusione del licenziamento irrogato in forma orale dall'ambito di applicazione del regime di decadenza previsto dal c.d. Collegato Lavoro.Nel rigettare le doglianze fatte valere dalla parte datoriale, la Corte di Cassazione ha ribadito che «l'azione per far valere l'inefficacia del licenziamento verbale non è subordinata all'impugnazione stragiudiziale, anche a seguito delle modifiche apportate dall'art. 32 della L. n. 183 del 2010 all'art. 6 della L. n. 604 del 1966, mancando l'atto scritto da cui la norma fa decorrere il termine di decadenza».

Licenziamento, forma scritta

Cassazione sezione lavoro, 8 settembre 2022, n. 26532

Pres. Doronzo; Rel. Michelini; Ric. T. S.p.A.; Controric. M.F.

Licenziamento – Fattispecie: licenziamento comunicato ad una dirigente durante una riunione alla presenza dell'AD e di due dipendenti – Forma scritta – Necessità – Prova per testimoni – Esclusione – Nullità del licenziamento – Configurabilità – Poteri officiosi del giudice – Incidenza – Esclusione

Ai sensi dell'art. 2725 cpv. c.c. non è consentita la prova testimoniale di un contratto né di un atto unilaterale, ex art. 1324 c.c., di cui la legge preveda la forma scritta a pena di nullità – quale è il licenziamento – se non nel caso indicato dal precedente art. 2724 n. 3 c.c., vale a dire quando il documento sia andato perduto senza colpa. Si tratta di divieto di testimonianza che ne importa inammissibilità rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio (attenendo a norma di ordine pubblico), a differenza di quanto avviene in ipotesi di violazione degli artt. 2721 e ss. c.c. o di testimonianza assunta in materia di atti unilaterali e contratti per i quali sia richiesta la forma scritta ad probationem tantum. Tale divieto, del resto, non è superabile ex art. 421 comma 2, prima parte, c.c., essendo noto che tale norma, nell'attribuire al giudice del lavoro il potere di ammettere d'ufficio ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, si riferisce non ai requisiti di forma previsti (ad substantiam o ad probationem) per alcuni tipi di contratti, ma ai limiti fissati alla prova testimoniale, in via generale, dagli artt. 2721, 2722 e 2723 stesso codice.

NOTA

Nel caso di specie, una lavoratrice adiva l'Autorità Giudiziaria chiedendo una pronuncia dichiarativa della nullità, per mancanza di forma scritta, del licenziamento alla stessa comunicato in occasione di una riunione tenutasi nei locali aziendali alla presenza dell'amministratore delegato e di due dipendenti della medesima società datrice.Il Tribunale – sia in fase sommaria, sia in esito all'opposizione –, così come la Corte d'Appello – a seguito del reclamo del datore di lavoro – accoglievano la domanda della dipendente, condannando la società alla reintegrazione nel posto di lavoro oltre che al pagamento dell'indennità risarcitoria ai sensi dell'art. 18, c. 1, St. lav. La Corte d'Appello, in particolare, motivava la propria decisione sull'assunto che la società non aveva provato, come era suo onere, di avere adempiuto alla comunicazione del licenziamento con la forma scritta richiesta ad substantiam dalla legge e che non era ammissibile, sul punto, la prova testimoniale, pur assunta in primo grado su istanza datoriale.Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte la datrice di lavoro lamentando, tra il resto, la violazione e falsa applicazione della disciplina di cui agli artt. 2 L. n. 604/1966 e 2725 cod. civ. per avere i testimoni affermato la ricezione da parte della lavoratrice della lettera di licenziamento consegnatale a mano, e, dunque, per avere dimostrato in giudizio l'esistenza della lettera e la sua consegna alla dipendente. La ricorrente lamentava, inoltre, il mancato esercizio, da parte del Giudice del Lavoro, dei «poteri istruttori d'ufficio diretti alla ricerca della verità sostanziale, senza formalità preclusive». A fronte di suddetta censura, la Cassazione giudicava inammissibile il ricorso a norma dell'art. 360- bis, n. 1, cod. proc. civ., e, facendo propria la motivazione di cui alla precedente pronuncia della Suprema Corte n. 11479/2015, statuiva come da massima, concludendo che «non potendosi provare in via testimoniale la controversa comunicazione per iscritto del licenziamento, lo stesso risulta nullo per difetto della forma prevista ex lege». 

Trasferimento di ramo d'azienda illegittimo

Cassazione sezione lavoro, 1° settembre 2022, n. 25853

Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric. M.A.; Controric. T. S.p.A.

Trasferimento d'azienda – Illegittimità – Offerta della prestazione al cedente – Mancato ripristino del rapporto da parte del cedente – Vicende del rapporto di lavoro con il cessionario – Irrilevanza – Conseguenze – Obbligazione retributiva del cedente – Sussiste – Compensatio lucri cum damno – Inapplicabilità

In caso di cessione di ramo d'azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'articolo 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell'alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.

NOTA

La Corte di appello di Napoli, in riforma della pronuncia di primo grado, revocava il decreto ingiuntivo e respingeva la domanda proposta dalla lavoratrice nei confronti della società cedente per ottenere il pagamento delle somme maturate tra il dicembre 2009 e il gennaio 2012, successivamente alla sentenza con la quale era stata dichiarata inefficace la cessione del suo contratto di lavoro in relazione al trasferimento di ramod'azienda avvenuta in favore della cessionaria.La Corte d'Appello riteneva che «anche nell'ipotesi di dichiarata nullità o illegittimità della cessione di ramo d'azienda, l'omesso ripristino della funzionalità del rapporto da parte del cedente, a fronte di una tempestiva messa a disposizione delle energie lavorative da parte del lavoratore, rilevi sul piano risarcitorio, con conseguente eccepibilità dell'aliunde perceptum che nella specie, in ragione della circostanza che l'istante aveva percepito le retribuzioni erogate dalla società cessionaria presso cui aveva continuato a prestare attività, era di entità tale da elidere il danno subito».La lavoratrice impugnava la sentenza di secondo grado.La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della lavoratrice, cassando la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l'opposizione proposta dalla società cedente avverso il decreto ingiuntivo n. 429 del 2012 emesso dal Tribunale di Napoli.La Suprema Corte stabilisce che «la questione della natura dei crediti vantati dalla lavoratrice per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro da parte di T. s.p.a., nonostante la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d'azienda (cui la stessa era addetta) a C. s.p.a., con decorrenza dalla messa in mora, trova soluzione nel senso della natura retributiva e non più risarcitoria (come invece secondo un indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n. 19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694) sulla scorta dell'insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte (sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990)».In sostanza, la Corte di Cassazione precisa che «una volta sancita la natura retributiva delle somme da erogarsi dal cedente inadempiente al comando giudiziale ed escluso che la richiesta di pagamento dei lavoratori abbia titolo risarcitorio, non trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità dell'aliunde perceptum dal risarcimento (v. Cass. n. 21158 del 2019; n. 21160 del 2019; n. 28500 del 2019)».

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