Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Conflitto tra organizzazioni sindacali e atteggiamento del datore<br/>Infortunio sul lavoro e appalto<br/>Licenziamento del dirigente e obbligo di repêchage<br/>Licenziamento per giusta causa<br/>Licenziamento per superamento del periodo di comporto <br/>

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

CONFLITTO TRA ORGANIZZAZIONI SINDACALI E ATTEGGIAMENTO DEL DATORE

Cass. Sez. Lav., 27 gennaio 2023, n. 2520

Pres. Doronzo; Rel. Michelini; Ric. S. S.p.A.; Contr. D.M.G.

Rappresentante sindacale – Email ai colleghi sindacalisti contenente critiche – Procedimento disciplinare – Sanzione disciplinare – Sospensione dal servizio e dalla retribuzione – Illegittimità – Conflitto tra organizzazioni sindacali – Atteggiamento del datore – Neutralità – Necessità – Libertà sindacale – Tutela

In materia di repressione della condotta antisindacale, il conflitto collettivo non è solo quello tra datore e lavoratore, ma anche quello fra organizzazioni rappresentative degli interessi dei lavoratori, in relazione al quale il datore è tenuto a conservare un atteggiamento di neutralità (non limitato al mero rispetto dell'art. 17 Stat. lav.), salvi solo gli eventuali interventi necessari per proteggere l'incolumità delle persone o l'integrità dell'azienda e non può esercitare i suoi poteri disciplinari e gerarchico-direttivi, in quanto al medesimo attribuiti ai soli fini del governo delle esigenze produttive dell'azienda.

NOTA

La Corte d'appello di Milano, in riforma del dictum del Tribunale locale, annullava la sospensione disciplinare irrogata da una società ad un dipendente, membro della rappresentanza sindacale unitaria, a valle di un procedimento disciplinare nel quale gli era stato contestato l'aver inviato ad alcuni colleghi e rappresentanti sindacali aziendali una email avente ad oggetto il suicidio di un altro dipendente, ritenuta dalla società costituente grave strumentalizzazione di un tragico evento al fine di contestare l'azienda ed i suoi colleghi della RSU per avere raggiunto un accordo di chiusura della procedura di mobilità, che egli invece aveva rifiutato di sottoscrivere.

La Corte di merito, in particolare, ricostruita la vicenda del suicidio dell'altro dipendente (tra gli elementi della quale emergeva il ritrovamento di una bozza di e-mail del medesimo che collegava la tragica decisione a situazione di stress lavorativo), riteneva la sanzione irrogata al dipendente-rappresentante sindacale illegittima in quanto la sua iniziativa rientrava nell'alveo della dialettica sindacale e del diritto di critica, senza alcun intento lesivo per l'azienda in quanto diretta ai colleghi sindacalisti.

Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso in Cassazione affidato a quattro motivi.

La Cassazione, per quel che rileva, richiama il principio di cui alla massima in materia di repressione della condotta anti-sindacale ritenendolo valevole per identità di ratio anche nella fattispecie in esame di sanzione disciplinare collegata ad attività sindacale.

La Suprema Corte rigetta, quindi, il ricorso della società, confermando che la vicenda scrutinata rappresenta una pura dinamica sindacale e sottolineando che il datore di lavoro è tenuto ad un atteggiamento neutrale di fronte ad un conflitto collettivo fra organizzazioni rappresentative dei lavoratori.

Conclusivamente la Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale e rigetta il ricorso della società con condanna della stessa alle spese di lite.

INFORTUNIO SUL LAVORO E APPALTO

Cass. Sez. Lav. 1° febbraio 2023, n. 2991

Pres. Esposito; Rel. Garri; Ric. P.A.; Controric. M.I e D.Srl.

Infortunio sul lavoro – Appalto – Responsabilità del committente – Limiti

Non è configurabile una responsabilità in re ipsa del committente per l'infortunio occorso al dipendente dell'appaltatore. La responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente solo ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico-organizzativi dell'opera da eseguire.

NOTA

La fattispecie oggetto del giudizio riguarda un infortunio occorso ad un dipendente di un appaltatore.

La Corte di appello di Milano rigettava il reclamo avverso la sentenza di primo grado e confermava l'esclusiva responsabilità del direttore dei lavori ed escludeva ogni responsabilità del committente.

In particolare, la Corte territoriale condannava il direttore dei lavori a pagare al lavoratore infortunato una somma a titolo di danno differenziale, danno da invalidità temporanea, danno da riduzione della capacità lavorativa specifica e danno patrimoniale, oltre agli interessi ed alla rivalutazione monetaria.

Avverso tale decisione il direttore dei lavori ha proposto ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale e precisa che per lo specifico cantiere in cui si era verificato l'infortunio la committente non si era in alcun modo ingerita nelle scelte di sicurezza, che erano, di conseguenza, rimaste affidate all'appaltatore, che aveva subappaltato alcune attività a terzi senza che la committente ne fosse a conoscenza.

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ritiene che la decisione della Corte di merito sia conforme ai precedenti giurisprudenziali che hanno affermato che «la responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente solo ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico-organizzativi dell'opera da eseguire».

Di conseguenza, conclude la Suprema Corte «non è configurabile una responsabilità del committente in re ipsa e cioè per il solo fatto di aver affidato in appalto determinati lavori ovvero un servizio». Questo anche perché non si può richiedere al committente un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori, ma è necessario verificarne in concreto il comportamento, la capacità organizzativa della ditta scelta, la specificità dei lavori da eseguire e l'eventuale sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto dell'appalto.

LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE E OBBLIGO DI REPÊCHAGE

Cass. Sez. Lav., 31 gennaio 2023, n. 2895

Pres. Raimondi; Rel. Di Paola; Ric. A.A.; Controric. B.N.L.

Licenziamento dirigente – Giustificatezza per ragioni oggettive– – Obbligo di repêchage – Esclusione

In caso di licenziamento del dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendale è esclusa la possibilità del repêchage in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro.

NOTA

La fattispecie oggetto dell'ordinanza in commento riguarda il licenziamento di un dirigente per ragioni oggettive.

La Corte d'appello di Roma – in riforma alla sentenza del giudice di primo grado – ha ritenuto legittimo il licenziamento comminato «in ragione della profonda riorganizzazione e ristrutturazione che riguarda diversi settori e funzioni», compresa la struttura di appartenenza del dirigente.

Avverso tale decisione il dirigente proponeva ricorso in Cassazione lamentando, in primo luogo, che la Corte territoriale erroneamente non avesse considerato il mancato adempimento all'obbligo di repêchage, sussistente poiché derivante dalla stessa motivazione del licenziamento nella quale era stata rilevata «l'impossibilità di individuare ulteriori ambiti lavorativi adeguati all'inquadramento del dirigente». In secondo luogo, contestando la decisione della Corte d'appello per non aver ritenuto idonea a rendere ingiustificato il licenziamento l'assunzione di un altro dirigente nella stessa Direzione Risorse Umane in cui lavorava il ricorrente, dopo cinque mesi e diciotto giorni dal licenziamento.

Con riferimento all'obbligo di repêchage, la Corte di cassazione richiama il consolidato principio secondo cui «in caso di licenziamento del dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendale è esclusa la possibilità del repêchage in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro» e specifica che non può giungersi a diversa conclusione neppure allorquando nella motivazione dell'atto di licenziamento si sia dato atto dell'impossibilità di individuare ulteriori ambiti lavorativi adeguati.

Per quanto riguarda, poi, l'assunzione dell'ulteriore dirigente, la Suprema Corte afferma che la valutazione circa la congruità del termine intercorso tra licenziamento del dirigente e successiva assunzione di altro lavoratore, ai fini della legittimità dello stesso, spetti ai giudici di merito.

La Corte di cassazione, pertanto, rigetta il ricorso.

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

Cass. Sez. Lav., 27 gennaio 2023, n. 2518

Pres. Doronzo; Rel. Michelini; Ric. Omissis; Contror. Omissis

Licenziamento per giusta causa – Tipizzazioni del CCNL – Vincolatività – Esclusione – Valore di parametro – Sussistenza – Autoferrotranvieri – Fattispecie: colluttazione con passeggero senza biglietto – Previsione che punisce con sanzione conservativa i litigi e le risse lungo le linee o nei locali dell'azienda – Rilevanza

Sebbene in tema di licenziamento per giusta causa non sia vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, tuttavia la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 cc.. Ne consegue che deve essere cassata con rinvio la sentenza di merito che non abbia ricondotto il comportamento del lavoratore, operatore di pronto intervento della metropolitana, consistito nell'aver avuto una colluttazione con un soggetto che cerchi di far entrare due soggetti sprovvisti di biglietto, nella fattispecie di cui al n. 15 dell'art. 42 RD 148/1931 che punisce con sanzione conservativa "gli alterchi con vie di fatto, ingiurie verbali, disordini, risse o violenze sui treni, lungo le linee, nei locali dell'azienda o loro dipendenze".

NOTA

La Corte d'appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale, rigettava la domanda del lavoratore, operatore di pronto intervento addetto alle stazioni del servizio metropolitano, volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatogli dalla società datrice di lavoro.

La Corte territoriale, sulla base delle videoregistrazioni e della dichiarazione di un collega presente ai fatti, riteneva che l'episodio contestato al lavoratore – ossia la colluttazione con un passeggero che stava facendo ingresso dai varchi di imbarco, tentando di fare passare con un unico biglietto altre due passeggere – fosse da considerare una deliberata aggressione e non un alterco accompagnato o seguito da vie di fatto o rissa (come ritenuto, al contrario, dal Tribunale).

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo di essere stato coinvolto in un alterco, seguito da vie di fatto, a seguito di aggressione subita e di essersi legittimamente difeso; e che la condotta contestata era punita con sanzione conservativa dalla disciplina collettiva di riferimento.

La Corte di cassazione ritiene il motivo di ricorso fondato.

La Suprema Corte – citata la disposizione di cui al n. 15 dell'art. 42 R.D. 148/1931 che riporta tra le condotte disciplinarmente illecite punite da sanzione conservativa della sospensione dal servizio gli «alterchi con vie di fatto, ingiurie verbali, disordini, risse e o violenze lungo le linee, nei locali dell'azienda o loro dipendenze» – evidenzia come la Corte territoriale abbia ritenuto riduttiva tale previsione rispetto al caso concreto. Tale valutazione, secondo la Suprema Corte, non è congruente con la scelta valoriale operata –in questo caso dal legislatore – nel sanzionare condotte come quella accertata.

La Corte di cassazione, ribadito il principio indicato nella massima, ricorda «che il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento disciplinare quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal CCNL in relazione ad una determinata infrazione» (Cass. n. 6165/2016) e che «un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, qualora sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, non può formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, salvo che non si accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva» (Cass. n. 9223/2015; Cass. n. 2830/2016).

Ciò premesso, la Corte evidenzia che la motivazione della sentenza impugnata non ha considerato come la nozione contenuta nella speciale normativa per gli autoferrotranvieri risulti di «amplissima portata semantica e fenomenologica (alterchi con vie di fatto, ingiurie, disordini, risse, violenze) a copertura di una assai vasta gamma di condotte anche di significativa portata e di una certa violenza, prescindendo da elementi quali la provocazione o l'iniziale aggressione, e senza qualificazioni in termini di maggiore o minore gravità». Secondo la Corte di cassazione, quindi, «alla luce della previsione disciplinare, la qualificazione, operata nella sentenza impugnata, della condotta contestata al dipendente in termini esterni alla previsione stessa, la quale è assimilabile alla scelta valoriale che le parti sociali operano nelle parallele previsioni dei contratti collettivi di altri settori, finisce col sostituire a tale scelta valoriale, ed alla conseguente sussunzione dei fatti nella fattispecie disciplinare generale e astratta, una diversa scelta e sussunzione operata in via pretoria, sulla base di parametri non ancorati a dati oggettivi, ed in assenza di elementi, quali accertate conseguenze per il passeggero o per il servizio, che invece una maggiore gravità avrebbero potuto connotare obiettivamente e sotto il profilo della proporzionalità, ma che nel caso di specie pacificamente non risultano sussistenti».

Accogliendo quindi il motivo di ricorso, la Corte cassa la sentenza impugnata e rinvia alla

Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, per la rivalutazione della condotta contestata posta a base del licenziamento disciplinare, alla luce delle specifiche previsioni di legge (art. 42 R.D. n. 148/1931) e dei principi enunciati.

LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO

Cass. Sez. Lav., 20 febbraio 2023, n. 5244

Pres. Doronzo; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. W.T.O. S.r.l.; Contror. P.V.

Licenziamento individuale – Malattia – Periodo di comporto –– Superamento del limite predeterminato di assenze – Necessità – Licenziamento intimato prima del superamento – Nullità

Ai sensi dell'art. 2110 cod. civ., il rapporto di lavoro può essere risolto per superamento del periodo di comporto solo se e quando sia decorso il relativo periodo predeterminato, non essendo consentita la possibilità di irrogare un licenziamento assoggettato alla condizione del futuro superamento del periodo di comporto medesimo.

NOTA

La Corte d'appello di Cagliari, confermando la decisione del Tribunale di Tempio Pausania, dichiarava la nullità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, intimato con decorrenza posticipata rispetto all'invio della lettera di recesso, effettuato prima che la lavoratrice si fosse effettivamente assentata per malattia per un numero di giorni superiore a quello consentito dal contratto collettivo applicabile.

Il datore di lavoro propone ricorso per Cassazione eccependo la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1347 e 2110 cod. civ., avendo la Corte d'appello errato nel ritenere la nullità del licenziamento intimato quando il periodo di comporto non era stato superato, ma con decorrenza successiva al compiersi dello stesso. Ciò in quanto l'art. 1347 cod. civ., secondo la prospettazione del ricorrente, autorizza la valutazione di validità del contratto, ovvero dell'atto unilaterale, avente un dies a quo di efficacia non al momento della sua formazione, ma in quello in cui deve esplicare i suoi effetti.

La Corte di Cassazione ritiene il motivo infondato.

Sulla questione si sono infatti pronunciate le Sezioni Unite che, con la sentenza 12568/2018, hanno affermato la contrarietà alla giurisprudenza di legittimità del principio per cui il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato prima del compimento dello stesso sarebbe valido, ma avrebbe efficacia differita. Ciò in quanto i requisiti di validità di un negozio giuridico vanno valutati al momento in cui esso viene posto in essere, non quando produrrebbe i suoi effetti, salvo nel caso dei contratti o atti sottoposti a condizione o a termine, per i quali l'art. 1347 cod. civ. disciplina l'ipotesi del sopravvenire della possibilità della prestazione inizialmente impossibile.

Nella fattispecie in oggetto, invece, la legge prevede espressamente che il rapporto di lavoro possa essere risolto solo se e quando siano decorsi i periodi predeterminati, non essendo consentita la possibilità di irrogare un licenziamento assoggettato alla condizione del futuro superamento del periodo di comporto.

Alla luce delle ragioni che precedono, il ricorso viene rigettato.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©