Rassegna della Cassazione
Licenziamento per giusta causa<br/>Ferie e pubblico impiego <br/>La liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive <br/>Usi aziendali e contrattazione collettiva <br/>
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Ferie e pubblico impiego
La liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive
Usi aziendali e contrattazione collettiva
Licenziamento per giusta causa
Corte di cassazione, sezione lavoro, 18 ottobre 2022, n. 30543
Pres. Doronzo; Rel. Esposito; Ric. S.R. S.p.A.; Controric. D.D.M.
Licenziamento per giusta causa – Illegittimità – Rifiuto di adempiere mansioni inferiori –
Legittimità se proporzionato all'inadempimento del datore di lavoro – Insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento – Tutela reintegratoria ex articolo 18 c. 4 Stat. Lav.La tutela reintegratoria ex articolo 18, comma 4, Statuto dei lavoratori novellato, applicabile ove sia ravvisata l'"insussistenza del fatto contestato", comprende l'ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità.
NOTA
La sentenza in commento riguarda il licenziamento per giusta causa di una dipendente assunta come cuoca e come tale tenuta all'approntamento dei pasti relativi all'utenza, nonché a tutte le attività preesistenti e successive indispensabili a consentire la preparazione e l'assunzione dei cibi, cui era stato addebitato di essersi rifiutata di portare le colazioni in classe, con comportamento reiterato e recidivo. In particolare, la lavoratrice impugnava il licenziamento secondo il c.d. Rito Fornero e domandava altresì l'annullamento delle sanzioni disciplinari irrogate dalla società datrice di lavoro. La Corte d'appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado in punto licenziamento, aveva ritenuto fondato il ricorso della lavoratrice, poiché il rifiuto oggetto di contestazione aveva riguardato mansioni inferiori e diverse da quelle proprie della sua qualifica. La Corte territoriale aveva altresì ritenuto ammissibile (e fondata) la domanda di annullamento delle sanzioni disciplinari.
A fronte di tale decisione, la datrice di lavoro ricorreva per Cassazione e la Corte Suprema rilevava che l'illegittimo comportamento del datore di lavoro poteva giustificare il rifiuto di svolgere mansioni non corrispondenti, perché inferiori a quelle della qualifica, purché tale reazione fosse connotata da proporzionalità e conformità a buona fede, in base a una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti, e che questa verifica non era stata compiuta dalla Corte territoriale.
Dunque, la Corte d'appello di Roma, in sede di rinvio, accertava che era acquisito in causa che la dipendente si fosse rifiutata di distribuire la colazione nelle classi, ma che non risultava fosse stato impartito un ordine specifico in tal senso, né che in quelle occasioni la lavoratrice avesse opposto un rifiuto alle sollecitazioni verbali dei referenti aziendali, sicché non poteva parlarsi di pervicace atteggiamento di insubordinazione, considerato, inoltre, che la dipendente aveva cercato un confronto con i responsabili aziendali per una soluzione di tipo organizzativo. La Corte territoriale, osservava, invece che da parte datoriale doveva considerarsi acquisito in causa che la società aveva preteso dalla lavoratrice una mansione inferiore alla qualifica di inquadramento, in base a una scelta imprenditoriale non improrogabile e imprevedibile e con oggettivi effetti di aggravamento dell'impegno lavorativo. La Corte d'appello di Roma, riteneva, quindi, conforme a buona fede il rifiuto di eseguire le prestazioni e reintegrava la dipendente nel posto di lavoro.
Avverso tale decisione la società proponeva nuovamente ricorso per Cassazione
Per quel che qui interessa, la società affermava (i) che fosse incontroverso che la lavoratrice si fosse rifiutata di consegnare le merende e, pertanto, che non si potesse ravvisare l'ipotesi di non sussistenza del fatto materiale, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria ex. articolo 18 comma 4 Statuto dei lavoratori; (ii) che le domande di annullamento delle sanzioni conservative fossero inammissibili poiché incompatibili con il rito Fornero.
Con riferimento al primo dei motivi di ricorso che qui rilevano, la Suprema Corte ha enunciato il principio per cui «la tutela reintegratoria ex articolo 18, comma 4, Statuto dei lavoratorinovellato, applicabile ove sia ravvisata l'"insussistenza del fatto contestato", comprende l'ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità», osservando che «nella specie la Corte territoriale, con adeguata motivazione, ha accertato la proporzionalità e conformità a buona fede del rifiuto opposto dalla lavoratrice allo svolgimento di prestazioni inferiori e non pertinenti alla sua qualifica, talché la condotta contestata risulta deprivata del carattere di illiceità disciplinare che connota il licenziamento».
In punto di inammissibilità delle domande di annullamento delle sanzioni conservative, la Corte di Cassazione ha richiamato un orientamento ormai consolidato, ribadendo che «al fine di evitare la parcellizzazione dei giudizi, una interpretazione estensiva della disciplina di cui alla legge 92 del 2012, in modo che da un'unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro possa scaturire un unico processo», confermando che «tanto accade nel caso in disamina, in cui le sanzioni conservative traggono origine dai medesimi fatti costitutivi posti a fondamento del licenziamento, comportando anche la comminazione della recidiva».
Pertanto la Suprema Corte rigetta il ricorso della società.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Corte di cassazione, sezione lavoro, ord. 20 ottobre 2022, n. 30950
Pres. Doronzo; Rel. Garri; Ric. F.D.; Contr. A.S.A. C.A.p.A.
Licenziamento individuale – Giustificato motivo oggettivo – Elementi costitutivi – Soppressione della posizione – Effettività – Scelta aziendale – Insindacabilità – Effettività – Non pretestuosità – Obbligo di repêchage – Onere di collaborazione del lavoratore – Esclusione
Ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l'articolo 3 della legge 604 del 1966 richiede sia la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; sia la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati – diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; ma anche l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili.
NOTA
La Corte d'Appello di Cagliari riformava la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di Nuoro aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo subìto da un lavoratore per la soppressione delle mansioni affidategli.
In particolare, la Corte territoriale riteneva che il lavoratore appellato non aveva impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto sussistente la riorganizzazione aziendale e la soppressione della figura di impiegato amministrativo e, nel richiamare i principi dettati dalla Cassazione in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, riteneva che il datore di lavoro aveva dato la prova dell'impossibilità di repêchage con riguardo all'inquadramento rivestito all'atto del licenziamento, osservando che il diverso inquadramento risultava essere successivo allo stesso e coordinando l'onere di allegazione del lavoratore con quello di prova gravante sul datore e concludendo per l'insussistenza di posizioni utili cui riassegnare il lavoratore.
Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione lamentando, tra gli altri motivi di ricorso, che la Corte territoriale aveva errato in quanto, da un lato, aveva riconosciuto che le mansioni svolte erano superiori e, dall'altro lato, aveva verificato la prova del repêchage prendendo in esame il livello di inquadramento posseduto al momento del licenziamento e non le mansioni in concreto svolte che, come accertato, erano invece riconducibili al livello superiore.
La Cassazione, per quel che rileva, ritiene viziato l'iter logico-giuridico seguito dalla Corte d'Appello in quanto, contraddittoriamente, aveva dapprima accertato che il lavoratore aveva svolto mansioni riconducibili ad un determinato, e superiore, profilo professionale, salvo, poi, non tenerne conto nel verificare in concreto l'esistenza di possibilità di ricollocamento in azienda del lavoratore licenziato in relazione all'avvenuta soppressione di una posizione lavorativa di cui, pur formalmente assegnatovi, non aveva svolto di fatto le relative mansioni.
Infatti, dopo aver richiamato il principio espresso in massima – con opportuna ricognizione degli elementi che devono sussistere ai fini della legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – i giudici della Cassazione affermano che «nel verificare la legittimità del licenziamento per soppressione del posto di lavoro ed in relazione all'accertata impossibilità di ricollocare altrimenti il lavoratore, la Corte avrebbe dovuto verificare, sulla base delle allegazioni e delle prove offerte, che non vi erano in azienda posizioni lavorative che corrispondessero alle mansioni di fatto assegnate al lavoratore e da lui svolte».
Conclusivamente, in accoglimento del ricorso del lavoratore, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Cagliari, in diversa composizione, anche ai fini della liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Ferie e pubblico impiego
Corte di cassazione, sezione lavoro, 18 ottobre 2022, n. 30558
Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Fresa; Ric. A.R.; Contr. C. S.p.A.
Fatto di rilevanza penale – Abuso di ufficio e falso in atto pubblico – Licenziamento disciplinare – Contestazione – Tempestività – Attesa esito accertamenti penali/rinvio a giudizio – Ammissibilità – Fattispecie: contestazione dopo tre anni dalla conclusione dell'indagine interna – Legittimità
Ove il fatto di valenza disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio dell'immediatezza della contestazione non è violato qualora il datore abbia scelto di attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale per giungere a contestare l'addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiano ragionevolmente sussistenti.
Ferie – Cessazione del rapporto – Normativa per i pubblici dipendenti che vieta la monetizzazione (DL 95/12) – Ratio – Contrastare abusi – Licenziamento – Diritto all'indennità sostitutiva – Sussistenza
In presenza di una disposizione che sancisca in linea di principio che "le ferie … non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età", deve riconoscersi –in linea con quanto previsto dalla giurisprudenza a livello costituzionale e comunitario – il diritto del dipendente a ricevere l'indennità sostitutiva nelle fattispecie in cui la cessazione del rapporto sia riconducibile a cause sopravvenute e repentine – come il licenziamento in tronco – che non consentono la previa pianificazione delle ferie.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore il quale, nella sua qualità di Amministratore Delegato della società datrice di lavoro, era stato rinviato a giudizio per concorso nel reato di abuso di ufficio, in ordine ad una serie di irregolarità nella procedura di selezione del personale, nonché per concorso nel reato di falso in atto pubblico in riferimento ai verbali della commissione di esame e di formazione della graduatoria finale.
La Corte territoriale, in particolare, aveva ritenuto infondata l'eccezione del lavoratore relativa alla tardività della contestazione disciplinare del giugno 2015 – per essere decorsi tre anni dalla conclusione dell'indagine svolta da una Commissione d'inchiesta interna alla Società e relativa alla irregolarità nelle assunzioni – facendo essa seguito al rinvio a giudizio del lavoratore del febbraio 2015.
Il giudice di merito aveva, infine, rigettato la domanda del dipendente volta al pagamento dell'indennità delle ferie non godute nell'anno 2015.
Avverso la sentenza della Corte territoriale il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, con un motivo, che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere infondata l'eccezione di tardività della contestazione disciplinare. Con altro motivo, il lavoratore ricorrente ha sostenuto che la Corte territoriale avrebbe errato nel respingere la domanda diretta al pagamento dell'indennità per le ferie non godute nell'anno 2015.
La Suprema Corte rigetta il primo motivo ed accoglie il secondo.
Quanto all'immediatezza della contestazione disciplinare, la Corte di Cassazione ricorda, innanzitutto, che trattasi di un «criterio relativo» e che «il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini della valutazione dell'immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall'avvenuta compiuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall'astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore di lavoro deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore, non potendosi ragionevolmente imputargli la possibilità di conoscere i fatti in precedenza e di contestarli immediatamente al lavoratore» (Cassazione 28974 del 2017).
La Suprema Corte precisa quindi, come da massima, che non è violato il principio dell'immediatezza della contestazione quando il comportamento del lavoratore abbia rilievo penale ed il datore di lavoro abbia deciso di attendere l'esito degli accertamenti penali per contestare l'addebito (Cassazione 27069 del 2018).
Ribaditi tali principî, la Corte di Cassazione ritiene che il giudice d'appello ne abbia fatto corretta applicazione tenuto conto della complessità della vicenda, del coinvolgimento di una pluralità di persone astrattamente implicate e della considerevole pluralità delle contestazioni, nonchè dell'impossibilità per il datore di lavoro di poter prendere visione del fascicolo processuale penale presso la Procura della Repubblica, prima del rinvio a giudizio del lavoratore.
Quanto alla domanda del lavoratore diretta al pagamento dell'indennità per le ferie non godute nell'anno 2015, la Suprema Corte evidenzia che la Corte d'Appello ne ha escluso il diritto alla corresponsione sulla base dell'articolo 5, comma 8, del Dl 95/2012 a mente del quale «Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione (…) sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.».
Sul punto, la Suprema Corte ricorda innanzitutto quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell'Unione europea secondo cui «l'estinzione del diritto maturato da un lavoratore alle ferie annuali retribuite o del suo correlato diritto al pagamento di un'indennità per le ferie non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro, senza che l'interessato abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare detto diritto alle ferie annuali retribuite, arrecherebbe pregiudizio alla sostanza stessa del diritto medesimo». Nella medesima pronuncia, ricorda la Suprema Corte, la Corte di Giustizia europea ha stabilito che «quando il rapporto di lavoro è cessato e la fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite non è più possibile, l'articolo 7, par. 2 dir. 2003/1988 riconosce il diritto ad una indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti: tale norma osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute al lavoratore, il quale non può più fruire delle ferie annuali cui ha diritto prima della cessazione del rapporto di lavoro» (in tal senso, Corte di giustizia, sentenza del 6 novembre 2018, in causa C 684/16, Max Plank).
La Corte di Cassazione menziona poi quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 5 del 6 maggio 2016 che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 5, comma 8, del Dl 95/2012, ha evidenziato «non essere senza significato che il legislatore correli il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie». Del resto, la Corte Costituzionale – ricorda la Suprema Corte – ha evidenziato che il dato testuale della norma «è coerente con le finalità della disciplina restrittiva, che si prefigge di reprimere il ricorso incontrollato alla "monetizzazione" delle ferie non godute», e al contempo di «riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro».
Tale interpretazione della Corte Costituzionale, ricorda la Suprema Corte, si pone del resto nel solco tracciato dalle pronunce della medesima Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, che riconoscono al lavoratore il diritto di beneficiare di un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando difetti una previsione negoziale esplicita che consacri tale diritto, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di "monetizzare" le ferie (Cass. n. 13860 del 2000; Consiglio di Stato n. 7360 del 2010).
La Corte rammenta poi che il diritto alle ferie «mira a reintegrare le energie psico-fisiche del lavoratore e a consentirgli lo svolgimento di attività ricreative e culturali, nell'ottica di un equilibrato contemperamento delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore» (Corte Costituzionale sentenza n. 66 del 1963) e che la Corte di giustizia dell'Unione europea ne ha rafforzato i connotati di diritto fondamentale del lavoratore ribadendone la natura inderogabile, in quanto finalizzato a «una tutela efficace della sua sicurezza e salute» (Corte di giustizia, sentenza 26 giugno 2001, in causa C-173/99, BECTU).
Tale diritto inderogabile, secondo la giurisprudenza costituzionale e comunitaria – ribadisce la Suprema Corte – risulterebbe violato se la cessazione dal servizio vanifichi, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie, in quanto impedito da malattia o morte o altra causa non imputabile al lavoratore che, per il loro repentino insorgere, non consentissero la previa pianificazione del periodo feriale.
Tali condizioni, secondo la Corte di Cassazione, ricorrono nel caso sottoposto alla sua attenzione posto che il rapporto di lavoro ha effettivamente subito una repentina interruzione a seguito del licenziamento in tronco del lavoratore che, proprio per il carattere del provvedimento espulsivo, non ha consentito una previa pianificazione del periodo feriale. Da tale impossibilità– secondo la Corte di Cassazione – discende quindi il diritto del lavoratore a godere comunque della corrispondente indennità economica.
La Corte di Cassazione ha quindi cassato la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinviato alla medesima Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione.
La liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive
Corte di cassazione, sezione 6 lavoro, 18 ottobre 2022, n. 30683
Pres. Doronzo; Rel. Patti; Ric. T. S.p.A.; Controric. C.R.
Differenze retributive – Liquidazione – Ritenute fiscali – Sostituto d'imposta – Necessità
La determinazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e devono essere pagate dal lavoratore soltanto dopo avere effettivamente percepito le differenze retributive dovutegli.
NOTA
La vicenda in esame riguarda la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive.La Corte d'Appello di Ancona rigettava l'impugnazione della società avverso la sentenza di primo grado.
In particolare, la Corte di Appello di Ancona rilevava che non era sufficiente produrre le buste paga per provare il tempestivo versamento all'erario delle ritenute fiscali operate e pertanto deduceva il loro tardivo pagamento implicante l'onere definitivo delle imposte a carico del datore di lavoro.
Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione.
La Corte di Cassazione ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale.Nello specifico la Cassazione ritiene che «l'accertamento e la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive debbono essere effettuati al lordo delle ritenute fiscali, atteso che la loro determinazione attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e devono essere pagate dal lavoratore soltanto dopo avere effettivamente percepito le differenze retributive dovutegli».
Pertanto, la Suprema Corte specifica che «l'importo retributivo deve essere decurtato delle trattenute fiscali e previdenziali dovute per legge, il cui versamento sia stato effettivamente adempiuto dal datore di lavoro, in qualità di sostituto di imposta». Ciò perché il datore di lavoro in veste di sostituto d'imposta adempie ad un preciso obbligo di legge all'adempimento di un'obbligazione altrui che è quella del lavoratore nei confronti dell'amministrazione finanziaria.
Ciò premesso la Suprema Corte conferma che assume decisiva rilevanza il difetto della prova della modalità di esazione dell'imposta e rigetta il ricorso
Usi aziendali e contrattazione collettiva
Corte di cassazione, sezione 6 lavoro, 20 ottobre 2022, n. 30928
Pres. Doronzo; Rel. Cinque; Ric. S.M. S.r.l.; Contr. D.G.
Rinuncia a un diritto – Ritardo nell'esercizio del diritto – Comportamenti concludenti – Necessità – Inerzia –– Insufficienza
Perché la volontà tacita di rinunziare ad un diritto risulti effettiva è necessario che il titolare ponga in essere dei comportamenti concludenti, i quali rivelino un'univoca volontà di non avvalersi del diritto stesso. In tal senso, dalla mera inerzia o dal ritardo nell'esercizio del diritto non se ne può dedurre la volontà di rinunciare del titolare, potendo essere frutto d'ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra causa, e spiegano rilevanza soltanto ai fini della prescrizione estintiva. Da ciò deriva che il semplice ritardo nell'esercizio del diritto, sebbene imputabile al titolare, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, nemmeno nel caso in cui la condotta possa indurre ragionevolmente il debitore a ritenere che il diritto non sarà più esercitato.
Rinuncia a un diritto – Ritardo nell'esercizio del diritto – Effetto estintivo del diritto – Inequivoca rinuncia tacita – Necessità
Le uniche fattispecie in cui il ritardo nell'esercizio del diritto produce effetti estintivi sono ravvisabili nei casi in cui esso sia la conseguenza fattuale di un'inequivoca rinunzia tacita o di una modifica della disciplina e ne costituisca, quindi comportamento attuativo, mentre, in assenza di una precedente rinunzia o modificazione del patto, il silenzio o l'inerzia non possono avere da soli alcuna valenza dimostrativa, restando inoltre esclusa la loro valorizzabilità secondo il criterio degli standards sociali di comportamento in vigore in determinati ambienti economici o sociali, trattandosi di condotte tipizzate dall'ordinamento, che alla mera inerzia del titolare del diritto ricollega non la rinunzia allo stesso, ma la prescrizione.
Contrattazione collettiva – Usi aziendali – Derogabilità in peius – Esclusione
L'uso aziendale è configurabile solo quando comporti l'attribuzione, in modo generalizzato, reiterato e spontaneo, di un trattamento più favorevole ai lavoratori rispetto a quello previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, sicché lo stesso non ricorre in caso di reiterata violazione dei diritti derivanti dalla disciplina legale dell'orario di lavoro, non suscettibili di rinuncia, fatto salvo il potere di deroga riconosciuto dal legislatore alle organizzazioni sindacali. Gli usi aziendali possono essere idonei a derogare soltanto in melius la disciplina collettiva, non avendo invece alcuna rilevanza nel caso in cui essi prevedano una disciplina peggiorativa della condizione del lavoratore.
NOTA
La Corte d'Appello di Catania confermava la decisione del medesimo Tribunale, che aveva accertato il diritto del lavoratore ricorrente al pagamento delle maggiorazioni spettanti sulla mezzora retribuita prevista per la refezione dal CCNL metalmeccanici industria applicato al rapporto di lavoro. A fondamento della decisione, la Corte d'Appello evidenziava che il diritto non poteva considerarsi estinto per suo mancato esercizio, non sussistendo gli elementi per considerare l'inerzia come rinuncia tacita, e che una prassi o uso aziendale non può giustificare il mancato riconoscimento di una maggiorazione retributiva prevista dalla contrattazione collettiva.
Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo, inter alia, che l'inerzia prolungata e l'affidamento in buona fede della controparte dalla stessa ingenerato fossero idonee a produrre la perdita della situazione soggettiva, a prescindere dal concorrere dell'elemento soggettivo integrante un'effettiva rinuncia tacita.
La Corte di Cassazione ritiene il motivo infondato, avendo i giudici di merito interpretato correttamente i principi di buona fede e di affidamento incolpevole, nella dinamica contrattuale, in relazione alla possibile rinuncia tacita dei lavoratori.
In particolare, la Corte ribadisce che, affinché la volontà tacita di rinunziare ad un diritto sia effettiva, è necessario che il titolare ponga in essere dei comportamenti concludenti che rivelino un'univoca volontà di non avvalersi del diritto stesso. Al contrario, dalla mera inerzia o dal ritardo nell'esercizio del diritto non se ne può dedurre la volontà di rinunciare allo stesso, giacché essa può essere frutto d'ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra causa. Il ritardo medesimo può produrre effetti estintivi solo laddove sia la conseguenza di un'inequivoca rinunzia tacita o di una modifica della disciplina e costituisca, quindi, un comportamento attuativo della rinuncia al diritto stesso (in tal senso, Cass. 9547/2009; Cass. 13322/2005).
La Corte precisa altresì che, in assenza di una disciplina migliorativa per il lavoratore derivante da un uso aziendale, quest'ultimo non potrà derogare alla disciplina collettiva. È pacifico, infatti, che gli usi aziendali possono derogare alla disciplina collettiva soltanto in melius, non avendo invece alcuna rilevanza nel caso in cui essi prevedano una disciplina peggiorativa della condizione del lavoratore (in tal senso, Cass. 31204/2021; Cass. 12156/2000). E, ancora, la Corte ribadisce come l'uso aziendale sia configurabile solo quando comporti l'attribuzione, in modo generalizzato, reiterato e spontaneo, di un trattamento più favorevole ai lavoratori rispetto a quello previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, sicché non ricorre in caso di reiterata violazione dei diritti derivanti dalla disciplina legale o contrattual-collettiva (in tal senso, Cass. 15995/2016). Infine, la Corte di Cassazione chiarisce che la mera tolleranza, da parte del lavoratore, di un comportamento illegittimo del datore di lavoro non può giustificare l'inadempimento di quest'ultimo, né può comportare una modifica alla disciplina contrattuale, non potendo essa integrare un'acquiescenza alla violazione di un obbligo del datore di lavoro, né un consenso alla modifica della disciplina prevista dalla contrattazione collettiva (in tal senso, Cass. 5240/2004; Cass. 466/1994; Cass. 6635/1981).
Periodi di reperibilità con pernottamento presso la sede di lavoro
a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci