Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento del dirigente

Cass. Sez. Lav., 29 dicembre 2022, n. 38026

Pres. Doronzo; Rel. Cinque; Ric. B. Soc. Coop.; Contr. S.S.

Dirigente – Licenziamento per ragioni oggettive – Giustificatezza – Nozione ampia – Differenza con GMO – Limiti – Arbitrarietà – Non pretestuosità

Al rapporto di lavoro del dirigente non si applicano le norme limitative dei licenziamenti individuali (artt. 1 e 3 legge n. 604/1966), conseguentemente, la nozione di giustificatezza per ragioni economiche del licenziamento del dirigente non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplato dalle citate disposizioni. Tale nozione include, infatti, qualsiasi motivo di recesso che non sia arbitrario, pretestuoso, non corrispondente alla realtà, ovvero quando la ragione del recesso sia rinvenuta unicamente nell'intento di liberarsi del dirigente e non in quella di perseguire il legittimo esercizio del potere riservato all'imprenditore.

In tal senso, il licenziamento del dirigente non deve possedere i caratteri della extrema ratio, ma è sufficiente una valutazione globale che escluda, appunto, l'arbitrarietà del recesso.

NOTA

La Corte d'Appello di Bologna, in riforma della sentenza resa dal giudice di prime cure, dichiarava illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo – nella specie, soppressione della posizione di lavoro – intimato ad un dirigente da parte della società datrice di lavoro ritenendo che non era possibile ritenere soppressa la sua posizione atteso che, da un lato, la stessa risultava ancora in essere e che, dall'altro lato, era stata accertata la volontà datoriale di attribuire le mansioni afferenti tale posizione ad un dipendente con qualifica di quadro direttivo.

La Corte territoriale riteneva, pertanto, che il comportamento della società era risultato privo delle caratteristiche di buone fede e correttezza e palesemente finalizzato ad eliminare un dipendente non più gradito e la condannava al pagamento a favore del dirigente dell'indennità supplementare prevista dal CCNL di riferimento.

Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso in Cassazione affidato a due motivi.

La Cassazione osserva, in primo luogo, come la Corte territoriale abbia fatto buon governo dei principi espressi dal consolidato orientamento di legittimità in materia di licenziamento per motivi oggettivi del dirigente richiamati in massima.

In secondo luogo, aggiunge la Suprema Corte che: «Il sindacato del giudice deve insistere sulla reale esistenza degli elementi (coinvolgenti la posizione del dirigente) che, nel caso in esame, possono ritenersi idonei a privare di ogni giustificazione il recesso del datore di lavoro in relazione alla violazione del principio fondamentale di buona fede nella esecuzione del contratto, configurabile quando detto recesso rappresenti l'attivazione di un comportamento puramente pretestuoso, ossia irrispettoso delle regole e dei procedimenti che assicurano la correttezza nell'esercizio del diritto; naturalmente è escluso, per il giudice, l'accertamento sulla possibilità di repêchage in quanto incompatibile con la figura del dirigente, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro».

Con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte afferma che i giudici di seconde cure, senza applicare i presupposti di cui all'art. 3 della legge n. 604/1966 – come detto, applicabile ai non dirigenti – e senza sindacare l'operato imprenditoriale, bensì nell'ambito delle verifiche consentite, hanno accertato la violazione dei principi di buone fede e correttezza nel recesso, intimato al dirigente, ritenendolo finalizzato solo alla eliminazione di un dipendente non gradito.

Secondo la Cassazione, infatti, la Corte territoriale ha messo in luce l'incoerenza della scelta della datrice di lavoro perché in contrasto con quanto deliberato l'anno precedente, in sede di fusione, allorché la mansione da ultimo ricoperta dal dirigente era stata specificamente individuata proprio per tale lavoratore che aveva già qualifica e retribuzione da dirigente e che aveva accettato l'incarico ancorché questo implicasse una restrizione delle sue precedenti attribuzioni di direttore generale.

Rileva la Suprema Corte come la Corte d'Appello abbia correttamente ritenuta non effettivamente soppressa la posizione del dirigente laddove, da un lato, la stessa era ancora in essere, residuando tre posizioni di tale tipo a seguito della ristrutturazione e, dall'altro lato, che nessun elemento specifico consentiva in una complessiva riorganizzazione interna, di reputare soppressa proprio quella facente capo al dirigente.

In conclusione, la Cassazione ritiene che la Corte distrettuale abbia correttamente accertato l'obiettiva sussistenza di fatti (oggettivi e soggettivi) idonei a giustificare causalmente il provvedimento, verificandoli e calibrandoli in relazione ai principi di buona fede e correttezza contrattuale, al solo fine di riscontrare la sussistenza del carattere di arbitrarietà e pretestuosità che è stato, poi, ritenuto effettivamente presente.Conclusivamente, la Suprema Corte rigetta il ricorso della società con condanna alle spese di lite.

Licenziamento per mancato superamento della prova

Cass. Sez. Lav., 29 dicembre 2022, n. 38029

Pres. Doronzo; Rel. Caso; Ric. E.L. S.p.A.; Controric. M.V.

Patto di prova – Mancato superamento – Nullità del patto – Licenziamento – Tutela reale o obbligatoria

È necessario applicare il regime di tutela (reale od obbligatoria) correlato ai requisiti dimensionali dell'azienda quando un lavoratore viene licenziato sull'erroneo presupposto della validità di patto di prova poi giudicato nullo.

NOTA

La vicenda in esame riguarda una lavoratrice licenziata per mancato superamento della prova.

La Corte d'Appello di Roma respingeva l'appello della Società e confermava la sentenza del giudice di prime cure che aveva accolto il ricorso della lavoratrice, aveva accertato l'illegittimità del licenziamento per mancato superamento della prova, aveva ordinato alla società di reintegrare la lavoratrice nelle medesime mansioni o mansioni equivalenti ed aveva condannato la stessa al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegra.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte di Cassazione ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale.

In particolare, la Suprema Corte conferma la decisione della Corte di Appello che aveva condannato la società ritenendo che la presunzione dell'intervenuto esito positivo della prova si evinceva dal fatto che l'assunzione a tempo indeterminato riguardava le medesime mansioni svolte in precedenza dalla lavoratrice in virtù di un contratto di lavoro in somministrazione che vedeva la società quale utilizzatrice e la lavoratrice impegnata nelle medesime mansioni poi svolte.

In aggiunta, la Corte di Cassazione non ritiene viziata la decisione della Corte territoriale che dichiarando l'illegittimità del recesso durante il periodo di prova aveva fatto seguire l'applicabilità della legge n. 604/1966 o dell'art. 18 della legge n. 300/1970.

A riguardo, la Suprema Corte conferma che il licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova, sull'erroneo presupposto della validità della relativa clausola, non si configura come recesso ad nutum, ma consiste in un ordinario licenziamento che richiede la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo.

Il giudice di legittimità afferma, quindi, che «il licenziamento intimato ad nutum sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova è da considerarsi affetto da nullità, risultando di conseguenza applicabile il regime di tutela (reale od obbligatoria) correlato ai requisiti dimensionali dell'azienda cui era addetto il prestatore di lavoro.».Per questi motivi la Cassazione rigetta il ricorso.

Malattia professionale e lavori in appalto

Cass. Sez. Lav. ord. 21 dicembre 2022, n. 37453

Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric. A.G. + 2; Contr. G.I. S.p.A. + 3

Appalto – Infortunio sul lavoro/malattia professionale – Fattispecie: carcinoma del lavoratore dell'appaltatore poi deceduto – Presupposti di responsabilità del committente – Oneri probatori differenti per il datore di lavoro – Prova liberatoria – Misure di sicurezza "nominate" – Negazione fatti provati dal lavoratore – Sufficienza – Misure di sicurezza "innominate" – Adozione di specifiche cautele – Necessità

A seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale, il lavoratore che agisca nei confronti del datore (anche nel caso in cui la domanda sia rivolta al committente nell'appalto) per il risarcimento integrale del danno patito, ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno. In particolare, nel caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, cd. nominate, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore; viceversa, ove le misure di sicurezza debbano essere ricavate dall'art. 2087 c.c., cd. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l'assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione.

NOTA

La Corte d'appello di Messina, riformando la decisione del Tribunale, rigettava la domanda proposta dal lavoratore volta ad ottenere il risarcimento del danno differenziale da malattia professionale contratta nello svolgimento di lavori affidati in appalto alle società datrici di lavoro.

La Corte territoriale, in particolare, aveva escluso la responsabilità della committente nella contrazione del carcinoma del lavoratore (poi deceduto) considerato che la società aveva adempiuto gli obblighi di sicurezza tramite il ricorso ai cd. "permessi di lavoro" per l'esecuzione delle attività in massima sicurezza nelle aree e nei reparti a maggiore rischio espositivo. Rilevava inoltre la Corte territoriale che non vi era prova dell'esposizione del lavoratore a fibre di asbesto nello svolgimento delle mansioni di montatore pontista (attività preliminare alla manutenzione e alla riparazione degli impianti), e vi era invece prova dell'abitudine al fumo del lavoratore quale fattore di genesi del carcinoma diagnosticato.

Avverso tale decisione gli eredi del lavoratore hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo, con unico motivo di ricorso, che la Corte territoriale avrebbe errato nell'aver negato il nesso causale, non osservando il criterio civilistico di ragionevole e adeguata probabilità, tra l'attività prestata dal lavoratore deceduto e la patologia contratta. I ricorrenti hanno poi dedotto che sarebbero stati accertati la sussistenza di un ambiente polveroso, la mancata disponibilità di mascherine e di altre misure di prevenzione, la dispersione di fibre presenti nell'ambiente, la non consapevolezza dell'esistenza del rischio, tutti elementi a loro dire certi dell'esposizione del lavoratore, durante il periodo di lavoro, alle fibre di amianto.

La Corte di cassazione ritiene il motivo di ricorso inammissibile.

Nella sua decisione la Suprema Corte evidenzia, innanzitutto, come la Corte territoriale abbia individuato i presupposti di responsabilità della committente, in applicazione dei principî regolanti la materia dell'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, secondo cui «ai sensi degli artt. 2087 c.c. e 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 (…), vigente ratione temporis, il committente, nella cui disponibilità permanga l'ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice: consistenti nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l'appaltatrice nell'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata» (Cass. 13 gennaio 2017, n. 798; Cass. 25 febbraio 2019, n. 5419). In base a tali premesse, rileva la Suprema Corte che la Corte di merito, alla luce dell'approfondimento svolto sull'attività del lavoratore, abbia escluso in concreto una responsabilità della committente «avendo accertato l'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi al luogo di lavoro e all'attività lavorativa».

Quanto alla responsabilità del datore di lavoro, la Corte di cassazione ricorda, quindi, il principio indicato nella massima (già espresso da Cass. 19 luglio 2007, n. 16003; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319), aggiungendo, in particolare, che «al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute incombe l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra» (Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26495; Cass. 6 novembre 2019, n. 28516). Precisato quanto sopra, la Suprema Corte evidenzia che la Corte territoriale, nel caso di specie, abbia correttamente applicato i principî di diritto regolanti la materia e il criterio causale proprio del giudizio civile «ispirato alla regola di preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non"», criterio in base al quale, alla luce della valutazione delle risultanze istruttorie acquisite, ha escluso l'esistenza di alcun nesso, neppure concausale, tra il fattore lavorativo e la malattia contratta, avendo il lavoratore deceduto prestato la propria attività in ambienti non esposti ad amianto.

Rileva, del resto, la Suprema Corte che le censure mosse dai ricorrenti si risolvono, nella sostanza, in una diversa valutazione delle risultanze processuali, come tali «insindacabili in sede di legittimità, siccome esclusivamente spettanti al giudice del merito, autore di un accertamento in fatto, argomentato in modo pertinente e adeguato a giustificare il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione».

Cigs e criteri di scelta dei lavoratori da sospendere

Cass. Sez. Lav., 16 dicembre 2022, n. 37021

Pres. Tria; Rel. Amendola; Ric. N. S.p.A.; Controric. MG

C.I.G.S. – Criteri di scelta – Esigenze tecnico-produttive – Qualifica lavoratori – Genericità – Illegittima sospensione del lavoratore – Azione di risarcimento danni

In tema di criteri di scelta dei lavoratori da sospendere in CIGS deve ritenersi illecita la condotta del datore consistita nell'aver attribuito, richiamando genericamente il criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, diversi punteggi ai lavoratori coinvolti solo sulla base della loro appartenenza ad una determinata qualifica. Siffatto criterio appare totalmente discrezionale, arbitrario e discriminatorio nella misura in cui non si comprende, a monte, quali siano i criteri per attribuire una qualifica piuttosto che un'altra e per quale ragione debbano avere punteggi diversi.

NOTA

La Corte d'appello di Bari, confermando la decisione del giudice di prime cure, si pronunciava in merito all'illegittimità della sospensione a zero ore in CIGS del resistente, condannando la Società al pagamento di somme in misura pari alla differenza tra la retribuzione spettante nel periodo di Cassa e il trattamento di integrazione salariale.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro.

A fronte dei molteplici motivi di impugnazione, la Suprema Corte ha richiamato principi già affermati. In particolare, in tema di prescrizione ha ribadito che «la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l'illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall'atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all'ordinaria prescrizione decennale». Con riferimento poi alla mancata contestazione da parte del lavoratore dei provvedimenti datoriali di collocazione in CIGS per dieci anni, la Corte di Cassazione ha chiarito che «la mera inerzia non è sufficiente a determinare la perdita del diritto in capo al creditore, occorrendo un "quid pluris" che valga ad esprimere una chiara e certa volontà abdicativa dovendo ogni rinuncia essere espressa o ricavarsi da condotte univoche». Né – prosegue la Corte – vi era in capo al lavoratore un obbligo di costituire in mora il datore di lavoro, infatti «in caso di intervento straordinario di integrazione salariale per l'attuazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza di personale, ove il provvedimento di sospensione dall'attività lavorativa sia illegittimo, è questo stesso atto negoziale unilaterale, con il rifiuto di accettare la prestazione lavorativa, a determinare la "mora credendi" del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore non è tenuto ad offrire la propria prestazione ed il datore medesimo è tenuto a sopportare il rischio dell'estinzione dell'obbligo di esecuzione della prestazione.

La Suprema Corte, poi, osserva che la motivazione della decisione del precedente grado di giudizio è esente da censure, in quanto, con riferimento alla genericità dei criteri di scelta e conseguente illegittima sospensione, viene argomentato che la società datrice di lavoro «ha quindi provveduto ad assegnare un punteggio per ciascuno dei tre criteri di cui sopra (anzianità aziendale, carichi di famiglia, esigenze organizzative) a tutti i lavoratori aventi mansioni fungibili, sospendendo coloro i quali, nella ponderazione dei tre criteri di cui sopra (ciascuno con rilevanza di 1/3 ai fini della graduatoria) avessero un punteggio più basso [...]

Dunque il datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario», finendo per individuare autonomamente i lavoratori da sospendere.Alla luce di quanto sopra, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso della Società.

Infortuni sul lavoro e danno non patrimoniale

Cass. Sez. Lav., 15 dicembre 2022, n. 36866

Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric. M.A.; Contror. H.A. S.p.A. + F. S.r.l.

Infortunio sul lavoro – Infortunio occorso prima del 25 luglio 2000 – D.P.R. 1125/1965 – Applicabilità ratione temporis – Rendita INAIL – Indennizzo INAIL – Copertura del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa – Sussistenza – Copertura del danno non patrimoniale biologico – Insussistenza

In tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro risponde dei danni occorsi al lavoratore infortunato nei limiti del cd. danno differenziale, che non comprende le componenti del danno biologico coperte dall'assicurazione obbligatoria, sicché, per le fattispecie anteriori all'ambito temporale di applicazione dell'art. 13, D.Lgs. 38/2000, il datore risponde dell'intero danno non patrimoniale, non potendo essere decurtati gli importi percepiti a titolo di rendita INAIL, corrispondenti, nel regime allora vigente, solo al danno patrimoniale legato al pregiudizio alla capacità lavorativa generica.

NOTA

La Corte d'Appello di Bari, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di risarcimento dei danni subiti dal lavoratore ricorrente a seguito di un infortunio sul lavoro occorso il 19 gennaio 2000. In particolare, la Corte riteneva che quanto corrisposto al ricorrente dall'INAIL coprisse sia il danno biologico, sia il danno da inabilità temporanea, negando quindi il diritto del lavoratore al risarcimento del danno differenziale.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione eccependo, inter alia, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 cod. civ. e dell'art. 10, D.P.R. 1124/1965. In particolare, il ricorrente sosteneva che l'infortunio in oggetto, risalente al gennaio 2000, fosse soggetto alla previgente disciplina di cui al D.P.R. 1124/1965, secondo cui la rendita e l'indennizzo corrisposti dall'INAIL non coprono il danno biologico, ma soltanto il danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa.

La Corte di Cassazione ritiene il motivo di ricorso fondato, trovando il D.Lgs. 38/2000 applicazione soltanto ai danni conseguenti ad infortuni sul lavoro verificatisi a decorrere dal 25 luglio 2000, mentre per quelli verificatisi in data antecedente continua a trovare applicazione la previgente disciplina di cui al D.P.R. 1124/1965.

La Corte ribadisce altresì il proprio consolidato orientamento secondo cui in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro risponde dei danni subiti dal lavoratore nei limiti del danno differenziale, che non comprende il danno biologico già coperto dall'INAIL. Di conseguenza, per le fattispecie di danno anteriori al 25 luglio 2000, il datore non può che rispondere dell'intero danno non patrimoniale (biologico), non incluso negli importi liquidati dall'INAIL a titolo di rendita o di indennizzo e che coprono invece soltanto il danno patrimoniale subito dal lavoratore a causa del pregiudizio alla sua capacità lavorativa generica (in tal senso, Cass. 4025/2016).

Non essendosi la Corte d'Appello attenuta al suddetto principio di diritto, ritenendo la fattispecie oggetto di causa disciplinata da una normativa non applicabile, la Corte di Cassazione accoglie il motivo di ricorso.

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