Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Mobbing e responsabilità del datore di lavoro <br/>Convocazione dell'assemblea da parte di un componente della RSU <br/>Patto di non concorrenza senza minimo garantito<br/>Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore

di a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Mobbing e responsabilità del datore di lavoro
Convocazione dell'assemblea da parte di un componente della RSU
Patto di non concorrenza senza minimo garantito
Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore

Mobbing e responsabilità del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav., 15 novembre 2022, n. 33639

Pres. Tria; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. T.G; Controric. S. S.p.A.

Salute e sicurezza – Obblighi datoriali – Responsabilità dolosa o anche colposa – Mobbing/straining – Demansionamento – Inadempimento datoriale – Risarcimento del danno non patrimoniale – Accertamento – Necessità

In tema di obblighi datoriali di salute e sicurezza, al di là delle denominazioni delle varie fattispecie astrattamente configurabili (mobbing, straining, stress lavoro-correlato) lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c., è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento - imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.); si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili.

NOTA

La Corte d'Appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale che rigettava la domanda di un lavoratore volta ad ottenere la condanna della società al risarcimento del danno per mobbing, «in ragione della carenza di prova riguardo la dedotta strategia dolosa».

Il lavoratore ha adito la Corte di Cassazione denunciando «la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. criticando la sentenza impugnata per avere escluso la allegata macchinazione dolosa finalizzata all'emarginazione del lavoratore nel proprio ambiente di lavoro».

La Corte di Cassazione ha rilevato che, pur essendo stato escluso nel giudizio di fatto, in entrambi i gradi di merito della controversia, l'esistenza di «una macchinazione dolosa finalizzata all'emarginazione del lavoratore nel proprio ambiente di lavoro», nondimeno ciò non elide affatto la responsabilità del datore di lavoro per i danni alla persona subiti dal lavoratore a causa di un inadempimento degli obblighi datoriali, anche a titolo di mera colpa. I giudici di legittimità hanno poi ricordato che le nozioni di mobbing, così come quella di straining, hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici; nella sostanza servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro. Conseguentemente, «al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c., è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.); si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili». Pertanto, la Corte ha concluso accogliendo il ricorso con rinvio in quanto, anche ove si escluda l'esistenza di una "macchinazione dolosa" finalizzata all'emarginazione del lavoratore nel proprio ambiente di lavoro, l'aver acclarato che lo stesso sia stato posto in una condizione di sostanziale inoperosità con progressivo svuotamento delle sue mansioni, impone comunque di verificare se da tale condotta del datore di lavoro, anche se colposa, siano causalmente derivati danni alla persona del lavoratore a contenuto non patrimoniale e provvedere alla loro liquidazione.

Convocazione dell'assemblea da parte di un componente della RSU

Cass. Sez. Lav., 10 novembre 2022, n. 33240

Pres. Tria; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.R.V.; Controric. T.I. S.p.A.

Diritto di assemblea ex art. 20 S.L. – Convocazione dell'assemblea da parte di un componente della RSU – Legittimità – Condizioni

I singoli componenti della r.s.u. hanno il diritto di indire assemblee purché questi siano stati eletti nelle liste di un sindacato che, nella azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività ai sensi dell'art. 19 legge n. 300/1970, quale risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013.

NOTA

La Corte di Appello di Venezia confermava, sebbene con diversa motivazione, la pronuncia di primo grado che aveva respinto l'opposizione dell'organizzazione sindacale al decreto di rigetto del proprio ricorso ex. art. 28 S.L.

La Corte territoriale, premesso che «nelle more del giudizio era intervenuta la sentenza delle Sezioni unite civili n. 13978 del 2017 dalla quale era evincibile il principio per cui, pur riconoscendosi il diritto di indire assemblee a ciascun componente della RSU, occorreva accertare che questi fosse eletto nelle liste di un sindacato che, nell'azienda di riferimento, fosse, di fatto, dotato di rappresentatività, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 300 del 1970, quale risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013» riteneva che la sigla sindacale alla quale apparteneva il membro della RSU che aveva indetto l'assemblea «non solo non aveva prodotto alcun contratto collettivo nazionale o aziendale nel quale tale sindacato fosse stato soggetto stipulante, ma non aveva neppure dimostrato di avere in qualche modo partecipato alle trattative relative a un qualche contratto collettivo, se anche poi non sottoscritto».

Avverso tale decisione l'organizzazione sindacale ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte di Cassazione ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, in quanto «Il principio in base al quale il combinato disposto degli artt. 4 e 5 dell'Accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 deve essere interpretato nel senso che il diritto d'indire assemblee, di cui all'art. 20 della legge n. 300 del 1970, rientra tra le prerogative attribuite non solo alla r.s.u. considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della r.s.u. stessa (sempre che questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell'azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività, ai sensi dell'art. 19 della legge n. 300 del 1970, quale risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013) , è evincibile dalla motivazione della richiamata sentenza delle Sezioni unite n. 13978 del 2017, nella quale si è voluto dare seguito all'orientamento espresso da Cass. n. 15437 del 2014 che, nel principio di diritto ivi sancito in sede cassatoria, riconosce sì il diritto di indire assemblee a ciascun componente della r.s.u.».

In sostanza, non è antisindacale la condotta datoriale consistita nel non aver concesso ad una componente della RSU i locali aziendali per lo svolgimento di un'assemblea retribuita, poiché non era stato dimostrato che il membro della RSU che aveva indetto l'assemblea fosse stato eletto nelle liste di un sindacato dotato di rappresentatività ai sensi dell'art. 19 S.L.

Conclusivamente la Suprema Corte respinge il ricorso dell'organizzazione sindacale.

Patto di non concorrenza senza minimo garantito

Cass. Sez. Lav., 11 novembre 2022, n. 33424

Pres. Tria; Rel. Michelini; Ric. I.S.P.B. S.p.A.; Controric. C.D.

Patto di non concorrenza – Fattispecie: pagamento del compenso in costanza di rapporto e senza minimo garantito – Validità – Valutazione – Duplice accertamento – Indeterminatezza ex art. 1346 c.c. – Congruità ex art. 2125 c.c. – Necessità

La variabilità dell'importo minimo garantito, in ragione degli anni effettivamente lavorati, non comporta di per sé la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del quantum, potendo al più essere giudicato invalido in ragione della natura manifestatamente sproporzionata o iniqua dell'importo, che costituisce a sua volta un accertamento distinto e autonomo rispetto al primo.

NOTA

La Corte d'Appello di Milano, confermando la sentenza resa all'esito del primo grado di giudizio, giudicava nullo il patto di non concorrenza sottoscritto con il lavoratore per indeterminatezza ed indeterminabilità del corrispettivo, in quanto correlato alla durata del rapporto, in mancanza di un minimo garantito. Detto importo era pari a euro 10.000 all'anno (da pagarsi in due rate semestrali posticipate) per tre anni, a fronte di un impegno di non concorrenza per mesi 20 mesi dalla cessazione del rapporto; la nullità derivava dal fatto che, in caso di cessazione del rapporto prima della scadenza del triennio, al dipendente non sarebbe spettato l'intero importo di euro 30.000 bensì un importo (appunto non determinabile né determinato) collegato alla durata del rapporto di lavoro.

Contro la pronuncia resa dal giudice di seconde cure ha promosso ricorso in Cassazione la società lamentando la sostanziale determinabilità dell'importo in caso di cessazione anticipata del rapporto lavorativo, seppur attraverso una sua rimodulazione in base all'anzianità di servizio effettivamente maturata.

Secondo la ricorrente, infatti, il Collegio di merito aveva erroneamente sovrapposto il concetto di indeterminatezza dell'importo con l'ipotetica natura simbolica o sproporzionata dello stesso.

Orbene, nell'accogliere (con rinvio alla Corte di merito) la censura sollevata dal datore di lavoro, la Suprema Corte di Cassazione ha anzitutto evidenziato come: «operano su piano diversi la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo che spetta al lavoratore – quale vizio del requisito prescritto in generale dall'art. 1346 c.c. per ogni contratto – e la nullità per violazione dell'art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo non è pattuito ovvero sia simbolico, iniquo o sproporzionato, operano su piani diversi».

Secondo i giudici di legittimità, infatti: «la variabilità dell'importo minimo garantito, in ragione degli anni effettivamente lavorati, non comporta di per sé la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del quantum, potendo al più essere giudicato invalido in ragione della natura manifestatamente sproporzionata o iniqua dell'importo, che costituisce a sua volta un accertamento distinto rispetto al primo».

Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 10 novembre 2022, n. 33133

Pres. Esposito; Rel. Cinque; Ric. I.E.; Controric. E.D. S.p.A.

Lavoro subordinato – Responsabilità ex art. 2087 c.c. – Danno biologico – Onere per il lavoratore di provare la nocività dell'ambiente, il danno e il nesso causale – Sussistenza – Onere per il datore di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie – Sussistenza – Misure di sicurezza innominate – Inclusione

L'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra. Solo se il lavoratore abbia fornito tale prova, sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (e dunque anche l'adozione delle misure infortunistiche innominate).

NOTA

Nel caso di specie il Tribunale di Sulmona accoglieva la domanda del lavoratore volta a riconoscere la responsabilità del datore di lavoro in relazione a danni causatigli dall'essere stato addetto a lavori usuranti (quali la defrascatura e taglio degli alberi, l'armamento dei sostegni e la installazione di trasformatori, lo scavo di trincee) senza che parte datoriale adottasse le idonee misure di sicurezza e impartisse la formazione idonea. La Corte d'Appello de L'Aquila riformava la sentenza e rigettava la richiesta di risarcimento del danno.

Secondo la Corte d'Appello infatti, il lavoratore non aveva fornito prove sufficienti tanto circa la sussistenza di specifiche omissioni a carica del datore di lavoro, quanto in relazione al nesso di causalità tra l'attività svolta e la malattia insorta.

Contro la decisione della Corte d'Appello ricorreva in Cassazione il lavoratore lamentando, per quanto qui interessa, che la Corte d'Appello avesse errato nella ripartizione dell'onere probatorio, avendo addossato al lavoratore l'onere – non di sua competenza – di provare la violazione da parte del datore di specifiche norma antinfortunistiche.

La Suprema Corte ha dichiarato la doglianza fondata e cassato la sentenza in accoglimento di tale motivo.

La Cassazione ha confermato un suo costante orientamento per cui l'art. 2087 c.c., non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, impone al lavoratore che assuma di aver subito un danno alla salute di dimostrare – oltre alla sussistenza di tale danno – la nocività dell'ambiente lavorativo o delle mansioni e il nesso eziologico tra queste e il danno.

Laddove (e solo se) il lavoratore adempia tale onere probatorio, spetta al datore provare di aver adottato tutte le cautele idonee ad evitare il danno.

Avendo, secondo la Cassazione, violato tale principio di diritto, la sentenza della Corte d'Appello è stata ritenuta errata.

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