Rassegna della Cassazione
Licenziamento per giusta causa<br/>Licenziamento per sopravvenuta parziale inidoneità fisica del lavoratore<br/>Licenziamento per giusta causa <br/>Whistleblowing e pubblico impiego<br/>Abusivo ricorso ad una successione di contratti a termine<br/>
ABUSIVO RICORSO AD UNA SUCCESSIONE DI CONTRATTI A TERMINE
Cass. Sez. Lav. 30 maggio 2023, n. 15226
Pres. Raimondi; Rel. Garri; P.M. Fresa; Ric. A.J.; Int. C.F. S.p.A.
Successione di contratti a termine – Impugnazione stragiudiziale dell'ultimo della serie – Estensione anche ai precedenti – Esclusione – Impugnazione di ogni contratto – Necessità – Violazione – Decadenza – Configurabilità
In tema di successione di contratti di lavoro a termine (anche in somministrazione), l'impugnazione stragiudiziale dell'ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l'altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l'impugnativa.
Successione di contratti a termine – Tempestiva impugnazione dell'ultimo della serie – Decadenza dall'impugnazione dei contratti precedenti – Utilizzo abusivo del termine – Verifica della complessiva vicenda contrattuale – Ammissibilità – Rilevanza
In tema di successione di contratti di lavoro a tempo determinato l'impugnazione stragiudiziale dell'ultimo contratto non si estende ai precedenti ma ciò non preclude
l'accertamento di un'abusiva reiterazione ove l'impugnazione stragiudiziale venga rivolta nei confronti dell'ultimo contratto di una serie, quando la parte sia decaduta dall'impugnativa dei contratti precedenti. La vicenda contrattuale, pur insuscettibile di poter costituire fonte di azione diretta per essere intervenuta la decadenza, può tuttavia rilevare come antecedente storico che entra a far parte di una sequenza di rapporti, valutabile, in via incidentale, dal giudice, al fine di verificare se la reiterazione dei contratti abbia oltrepassato il limite di durata legale.
NOTA
La Corte d'appello di Brescia confermava la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato decaduto il lavoratore dalla facoltà di impugnare gli otto contratti a tempo determinato intercorsi con la società datrice di lavoro dall'aprile del 2011 all'ottobre del 2014.
La Corte territoriale ha ritenuto, infatti, che nel caso di plurimi contratti a tempo determinato, anche succedutisi nel tempo in sostanziale continuità, l'obbligo di impugnazione in sede stragiudiziale nel termine di sessanta giorni decorre dalla scadenza dei singoli contratti e non, come ritenuto dal lavoratore, dalla scadenza dell'ultimo della sequenza. Inoltre, con riguardo all'ultimo dei contratti sottoscritti dal lavoratore (quello acausale), il giudice di appello ha ritenuto generica la censura con la quale era stata denunciato il mancato rispetto della clausola di contingentamento, osservando che il lavoratore non poteva limitarsi ad indicare le norme di legge che assumeva essere state violate ma doveva allegare i fatti in base ai quali riteneva sussistere la violazione
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolando due motivi. Con il primo motivo il ricorrente ha sostenuto che nel caso di plurimi rapporti a tempo determinato succedutisi con sostanziale continuità e comunque con intervalli inferiori al termine di impugnativa stragiudiziale, l'impugnazione dell'ultimo contratto si comunichi anche ai precedenti poiché la riassunzione del lavoratore entro il termine di decadenza ne impedirebbe il decorso. Con il secondo motivo, il ricorrente ha sostenuto che alla costituzione di un contratto di lavoro a tempo determinato, dopo una lunga serie di contratti a termine tra le stesse parti, devono comunque sottostare ragioni di carattere temporaneo. Ad avviso del ricorrente, infatti, la circostanza che non sia più necessario indicare nel contratto le ragioni dell'apposizione del termine non esclude che tali ragioni debbano esistere ontologicamente e debbano essere provate dal datore di lavoro. Diversamente opinando, ha sostenuto il ricorrente, si determinerebbe una sostanziale liberalizzazione in contrasto con la disciplina europea che prevede il contratto a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro.
La Corte di Cassazione ritiene il primo motivo infondato ed accoglie invece il secondo.
Sul primo motivo di ricorso, la Suprema Corte evidenzia che nell'ambito della specifica disciplina dettata dal d.lgs. n. 368 del 2001 per i contratti a termine vale il principio – riportato nella massima sopra indicata – già affermato in numerose sentenze della medesima Corte rese nell'ambito dei contratti di somministrazione a tempo determinato. In tali decisioni, sottolinea la Corte di Cassazione, si era già affrontato il tema della (in)capacità espansiva dell'impugnazione dell'ultimo contratto di lavoro a termine anche a quelli precedenti, e proprio con riferimento all'ipotesi in cui tra un contratto e l'altro sia intercorso un termine inferiore a quello utile per l'impugnazione stragiudiziale (Cass. nn. 30134, 30135, 30136, 32702 del 2018 e nn. 422, 2283 e 24356 del 2019). La Suprema Corte richiama in particolare la propria sentenza dell'8 febbraio 2020 n. 2420 con la quale era stato affermato che il termine di decadenza di cui all'art. 6 della legge n. 604 del 1966, come successivamente modificato, decorre, per i contratti di somministrazione, dalla data di scadenza originariamente pattuita. La Corte di Cassazione ritiene che tale ultima decisione vada confermata anche con riguardo ai contratti a termine, specificando, infatti, che – al di fuori dei casi specifici previsti dall'art. 5, commi 2, 3, e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, per cui la reiterazione del contratto a termine comporta per legge che il secondo contratto di consideri a tempo determinato ovvero che il rapporto sia tale sin dalla stipula del primo contratto – «la mera reiterazione dei contratti a termine non può ingenerare alcun affidamento del lavoratore». Al di fuori dei casi sopra richiamati, ribadisce quindi la Suprema Corte (come già affermato nell'ambito della somministrazione a termine) che «la singolarità dei contratti e l'inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro evidenzia la necessità che a ciascuno di essi si applichino le regole inerenti alla loro impugnabilità, venendo altrimenti anticipata in modo non giustificato una eventuale considerazione unitaria del rapporto lavorativo, estranea al fatto storico allegato, il cui rilievo giuridico è oggetto della domanda avanzata».
Sul secondo motivo, la Corte di Cassazione rileva innazitutto che alla fattispecie è applicabile ratione temporis l'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, disposizione – ricorda – che pone come unico vincolo per la stipula di contratti acausali la durata non superiore a 36 mesi, comprensiva di eventuali proroghe, e ne condiziona la legittimità al limite percentuale del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione.
Nel caso in esame, precisa quindi la Corte di Cassazione, occorre verificare se tale assetto violi la direttiva 1999/70/CE, alla luce del suo considerando n. 6, evidenziando che né la Corte di merito, né il Tribunale, si sono confrontati con la questione, seppur posta dal lavoratore, della compatibilità con il diritto dell'Unione di tale disciplina.
Ciò premesso, la Suprema Corte evidenzia come sia principio generale del nostro ordinamento, coerente con i principi dettati dalla direttiva dell'Unione in materia di contratti a termine, che il contratto di lavoro è «normalmente a tempo indeterminato ed in contratto a termine resta una ipotesi eccezionale». Ricorda poi la Suprema Corte che in base alla disciplina eurounitaria (richiamato quanto previsto dall'accordo quadro CES, UNICE e CEEP), gli strumenti per contrastare il ricorso abusivo al contratto a termine «possono essere tra loro alternativi con la conseguenza che anche la previsione di un limite temporale massimo soddisfa il presupposto di legittimità, dal momento che è stata lasciata agli Stati membri la discrezionalità di scegliere quale delle misure adottare».
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, nell'interpretare l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, come successivamente modificato, non si può prescindere da quanto stabilito dalla sentenza della Corte di giustizia dell'unione europea del 14 ottobre 2020 nella causa C–681/18 JH contro KG, in quanto tale decisione, seppur riferita all'istituto della somministrazione, presenta a suo giudizio «profili di forte contiguità» con la materia dei contratti a termini. Sottolinea infatti la Suprema Corte che è la medesima norma (ossia l'art. 1 del d.l. n. 34 del 2014, convertito dalla legge n. 78 del 2014) ad aver eliminato la necessità delle causali per entrambi gli istituti. Nella sentenza richiamata, evidenzia la Corte di Cassazione, la Corte di giustizia dell'unione europea ha individuato i seguenti temi con cui il giudice nazionale doveva confrontarsi in sede di rinvio: «a) se le ripetute missioni determinassero, valutate nel loro complesso, una durata del rapporto elusiva della sua natura temporanea; b) se sia ravvisabile un abuso di tale forma di rapporto nelle missioni successive assegnate al medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice; c) se dal ripetersi delle missioni risulti compromesso l'equilibrio realizzato da tale direttiva tra la flessibilità per i datori di lavoro e la sicurezza per i lavoratori, a discapito di quest'ultima e se tenendo conto delle circostanze del caso specifico risultino aggirate le prescrizioni della direttiva».
Ciò evidenziato, la Corte di Cassazione rileva come anche nell'ipotesi di specie si ha riguardo ad una successione di contratti che assume rilievo ai fini della qualificazione del termine come legittimo o meno, con la conseguenza che «per ritenere temporanea l'esigenza la valutazione non può essere parcellizzata e deve estendersi necessariamente alle modalità complessive di svolgimento del rapporto».
In tale prospettiva, osserva quindi la Suprema Corte come «la circostanza che il ricorrente sia decaduto dalla possibilità di impugnare specificatamente i termini apposti ai contratti precedenti non esclude che il giudice debba tenere conto, nel valutare la legittimità del contratto tempestivamente impugnato anche alla luce del dato fattuale, dell'esistenza di pregressi contratti a termine con lo stesso datore di lavoro per accertare se complessivamente l'attività possa ragionevolmente qualificarsi "temporanea", alla luce di tutte le circostanze pertinenti, che comprendono in particolare le specificità del settore o non denoti piuttosto un ricorso abusivo a tale forma di lavoro e perciò illegittimo» (CGUE 17 marzo 2022, nella causa C– 232/20).
La «vicenda contrattuale» quindi, secondo la Corte di Cassazione, può «rilevare fattualmente», in particolare, «come antecedente storico che entra a far parte di una sequenza di rapporti e che può essere valutato, in via incidentale, dal giudice» (Cass. n. 22861 del 2022). E ciò – sottolinea la Corte di Cassazione – anche al fine di verificare se la reiterazione dei contratti del lavoratore con lo stesso datore di lavoro abbia oltrepassato il limite legale di durata, così da realizzare una elusione degli obiettivi della direttiva 1999/70/CE, atteso che «quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario» (CGUE, causa C–53/04, Marrosu Sardino).
Accogliendo quindi il secondo motivo di ricorso per le ragioni esposte, la Suprema Corte cassa la sentenza e rinvia alla medesima Corte d'appello di Brescia perché, in applicazione dei principi esposti, proceda ad un nuovo esame della legittimità del termine apposto all'ultimo contratto di lavoro tempestivamente impugnato.
LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA PARZIALE INIDONEITÀ FISICA DEL LAVORATORE
Cass. Sez. Lav., 29 maggio 2023, n. 15002
Pres. Leone; Rel. Boghetic; Ric. K. Coop. Soc.; Contr. M.F.
Parziale inidoneità fisica – Licenziamento – Presupposti – Obbligo di repêchage – Mansioni anche inferiori – Accomodamenti ragionevoli – Onere della prova a carico del datore
Nell'ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, il datore di lavoro ha l'onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi dell'articolo 5 della legge 604/66, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l'impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l'impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, con la possibilità di assolvere tale ultimo onere mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali all'avveramento dell'accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari presuntivi, idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto.
NOTA
La Corte d'appello di Genova, in sede di reclamo ex art. 1, comma 58, della Legge Fornero, riformando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale della medesima sede, accertava l'illegittimità del licenziamento intimato da una società cooperativa ad una dipendente per sopravvenuta parziale inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni di operatrice socio sanitaria (OSS), con applicazione della tutela reintegratoria e condanna al pagamento di un risarcimento del danno pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte territoriale, in particolare, accertava – tramite consulenza medica – l'esatta inabilità della lavoratrice e riteneva che la cooperativa avesse violato l'obbligo di verificare la possibilità di effettuare adattamenti organizzativi ragionevoli onde trovarle una sistemazione adeguata alle sue condizioni di salute, adattamento che la Corte riteneva possibile alla luce del tipo di organizzazione adottato dalla cooperativa.
Avverso tale sentenza la cooperativa ha proposto ricorso in Cassazione affidato ad un unico motivo.
In primo luogo, la Cassazione richiama il principio di cui in massima in tema di oneri probatori che devono essere assolti dal datore di lavoro nell'ipotesi di licenziamento del lavoratore per inidoneità fisica sopravvenuta, con particolare riferimento all'obbligo di verificare la possibilità di effettuare adattamenti organizzativi ragionevoli che concretizza quello sforzo di diligenza finalizzato a scongiurare il licenziamento della dipendente.
In secondo luogo, con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ritiene che la Corte territoriale in sede di accertamento del rispetto dell'obbligo di repêchage da adottarsi in sede di licenziamento a carico di una lavoratrice con limitata idoneità alla mansione specifica di OSS abbia, nell'ambito dei poteri istruttori d'ufficio, correttamente ritenuto funzionale a detto accertamento la esatta determinazione delle capacità residue (delineate in maniera approssimativa da un antecedente certificato della Commissione medica della A.S.L.) al fine di valutare la fondatezza della domanda proposta dalla dipendente.
Conclusivamente, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna la cooperativa alle spese di lite.
LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA
Cass. Sez. Lav., 23 maggio 2023, n. 14114
Pres. Doronzo; Rel. Garri; Rel. P.I. S.p.A.; Contror. C.R.
Licenziamento individuale – Giusta causa – Sentenza penale passata in giudicato – Fatti estranei all'attività lavorativa – Violenza sessuale su minore – Rilevanza – Verifica della persistenza del rapporto fiduciario – Distanza temporale – Irrilevanza
Una violenza sessuale ai danni di una minore di età, in qualsiasi contesto sia commessa, è secondo uno standard socialmente condiviso una condotta che per quanto estranea al rapporto di lavoro è idonea a ledere il vincolo fiduciario a prescindere dal contesto in cui la stessa è stata commessa e del tempo trascorso dal fatto, a maggior ragione ove l'attività lavorativa svolta ponga il lavoratore a diretto contatto col pubblico.
NOTA
La Corte d'Appello di Ancona, confermando la sentenza di primo grado, riteneva illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore, disponendone la reintegrazione nel posto di lavoro per insussistenza del fatto contestato. In particolare, i giudici evidenziavano che la condotta contestata (condanna penale per violenza sessuale a carico di una minorenne) non fosse connotata a particolare gravità, tenuto conto del tempo trascorso dal fatto e della mancanza di altre violazioni di legge, tali da far prevedere che il lavoratore non si sarebbe reso nuovamente responsabile di azioni analoghe, idonee a ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. Inoltre, i giudici ritenevano che tale condanna fosse relativa a fatti commessi al di fuori dell'attività lavorativa e che, di conseguenza, non avesse rilievo nello svolgimento delle mansioni a contatto con la clientela assegnate al lavoratore in oggetto.
La società datrice di lavoro ricorreva per Cassazione lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 cod. civ. e del contratto collettivo applicabile.
La Suprema Corte ritiene il motivo fondato, avendo la Corte d'Appello errato nell'affermare che il reato, accertato con sentenza passata in giudicato, non fosse di gravità tale da giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro. Considerato che in sede penale era stato accertato che il lavoratore avesse posto in essere una condotta «in modo insidioso e repentino nonché usando violenza, consistita nell'afferrare per un braccio (...), allora minorenne, e nel tirarla con forza verso di sé», constringendola «a subire atti sessuali consistiti nel metterle una mano sotto la gonna e nel toccarle gli organi genitali», secondo la Corte di Cassazione è irragionevole ritenere di non poter sussumere il fatto – pacificamente accertato nella sua materialità – nell'art. 2119 cod. civ., che costituisce norma generale (in tal senso, Cass. 13534/2019, Cass. 7305/ 2018).
E, ancora, aggiunge la Corte, sebbene il fatto fosse risalente, la gravità dello stesso non può ritenersi attenuata solo per effetto del tempo trascorso, né lo stesso può essere considerato meno grave per essere avvenuto al di fuori del luogo di lavoro. Una violenza sessuale ai danni di una minorenne, in qualsiasi contesto commessa, secondo gli standard socialmente condivisi è una condotta tale da ledere il vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro, a maggior ragione ove le mansioni assegnate al dipendente pongano quest'ultimo a contatto con il pubblico.
Peraltro, nel valutare il tempo intercorso tra la commissione del fatto ed il licenziamento, i giudici di merito avrebbero dovuto tener conto anche del momento in cui la società è venuta a conoscenza del fatto medesimo.
Infine, il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro prevede espressamente la sanzione del licenziamento in tronco in caso di «condanna passata in giudicato per condotta commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, quando i fatti costituenti reato possano comunque assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario» e, per l'effetto, il giudice è tenuto a valutare la gravità del fatto per come accertato e valutato in sede penale con efficacia di giudicato, senza che a tal fine rilevino elementi diversi quali il tempo trascorso ed il fatto che il lavoratore abbia o meno precedenti penali.
Per tutte le ragioni che precedono, la Corte di Cassazione accoglie il motivo di ricorso e cassa con rinvio la sentenza impugnata.
LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA
Cass. Sez. Lav. 30 maggio 2023, n. 15140
Pres. Raimondi; Rel. Michelini; P.M. Mucci; Ric. M.M.; Controric. A.C. Soc. COOP. Agr.
Licenziamento per giusta causa – Previsione dei contratti collettivi – Non vincolatività – Necessità della verifica in concreto della gravità della condotta – Verifica di eventuale recidiva e di impossibilità di prosecuzione del rapporto
In tema di licenziamento per giusta causa non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie; nondimeno la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.
NOTA
La fattispecie oggetto della sentenza in commento riguarda la legittimità del licenziamento per giusta causa di un lavoratore, con mansioni di addetto al reparto macello tacchini, licenziato per non avere svolto correttamente il lavoro, previa contestazione di recidiva specifica, essendo stato il medesimo addebito posto a fondamento di tre precedenti sanzioni disciplinari.
In particolare, la Corte d'appello di Bologna, a conferma della decisione di primo grado, ha ritenuto il licenziamento conforme alle previsioni del CCNL applicato al rapporto di lavoro e proporzionato considerata la recidiva nella medesima infrazione in altre tre precedenti occasioni nei sei mesi precedenti.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso in Cassazione il lavoratore.
La Corte di cassazione, in primo luogo, ribadisce che spettano al giudice di merito la selezione e valutazione delle prove a base della decisione, l'individuazione delle fonti del proprio motivato convincimento e la prevalenza di alcuni mezzi di prova acquisiti su altri. Sul punto la Corte territoriale ha ritenuto, con accertamenti insindacabili in sede di legittimità, che: (i) le violazioni poste alla base della contestazione fossero state dimostrate e fossero di rilievo disciplinare, (ii) il licenziamento fosse giustificato alla luce della recidiva, (iii) non fosse stata dimostrata la genericamente dedotta violazione dell'art. 2087 c.c. in materia di tutela della salute del lavoratore, (iv) la condotta contestata al dipendente nulla avesse a che fare con il c.d. scarso rendimento, in presenza di procedura disciplinare basata sulle previsioni del CCNL.
In secondo luogo, per quel che qui interessa, la Suprema Corte ha richiamato il principio per cui «in tema di licenziamento per giusta causa non sia vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, nondimeno la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.». Infatti, prosegue la Corte, il giudice di merito non deve limitarsi a verificare la riconducibilità dei fatti concreti a fondamento del licenziamento alla fattispecie prevista dalla contrattazione collettiva, ma deve altresì verificare se tali fatti siano idonei a rendere la prosecuzione del rapporto un pregiudizio per gli scopi aziendali.
In conclusione, la Corte ha confermato che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Bologna si è attenuta a tali principi ed ha pertanto ha rigettato il ricorso.
WHISTLEBLOWING E PUBBLICO IMPIEGO
Cass. Sez. Lav. 22 maggio 2023, n. 14093
Pres. Tria; Rel. De Marinis; Ric. M.Y.; Controric. C.B.
Whistleblowing – Pubblico impiego – Tutela ex art. 54 bis, D.Lgs. n. 165/2001 – Divieto di ritorsione – Sanzione disciplinare – Illegittimità
La tutela riconosciuta al pubblico dipendente che segnala illeciti di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro deve ritenersi applicabile anche alla segnalazione di condotte illecite apprese, non solo in ragione dell'ufficio rivestito ma anche casualmente, in occasione e/o a causa delle mansioni espletate.
NOTA
La Corte di appello di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda proposta dalla lavoratrice avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità della sanzione irrogatale per abuso delle tutele riconosciute al dipendente che intenda denunciare condotte illecite scoperte in ragione del rapporto di lavoro.
La Corte territoriale riteneva non riconducibile alla disciplina in materia di whistleblowing – e quindi non tutelato da conseguenze disciplinari – il comportamento della lavoratrice consistente nell'accesso ingiustificato ad una specifica documentazione per compiere attività di investigazione personale.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso, ritenendo viziato l'iter argomentativo della Corte territoriale.
In particolare, la Cassazione ritiene che la disciplina in materia di whistleblowing prevede che «l'esonero dalla responsabilità disciplinare legittima la segnalazione di condotte illecite di cui il dipendente sia comunque venuto a conoscenza diretta "in ragione del rapporto di lavoro", ovvero che siano state apprese, non solo in ragione dell'ufficio rivestito ma anche casualmente, in occasione e/o a causa delle mansioni espletate ed investe tutte quelle condotte […] che, per quanto rilevanti persino sotto il profilo penale […] siano funzionalmente correlate alla denunzia dell'illecito».
Per questo motivo la Suprema Corte annulla il procedimento e la sanzione irrogata alla lavoratrice.
Periodi di reperibilità con pernottamento presso la sede di lavoro
a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci