Rassegne di giurisprudenza

Rassegna della Cassazione

Licenziamento per giusta causa<br/>Infortunio sul lavoro e infortunio in itinere<br/>Trasferimento d'azienda, transazione e incidenza sul rapporto con cedente<br/>Simulazione della malattia e licenziamento per giusta causa<br/>Danno da demansionamento<br/>

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Infortunio sul lavoro e infortunio in itinere
Trasferimento d'azienda, transazione e incidenza sul rapporto con cedente
Simulazione della malattia e licenziamento per giusta causa
Danno da demansionamento

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 11 ottobre 2022, n. 29526

Pres. Raimondi; Rel. Di Paola; Ric. K.A.; Controric. S. S.r.l.

Licenziamento per giusta causa – Dipendente che presenza una denuncia querela contro il datore falsa – Volontà di danneggiare il datore – Legittimità

È legittimo il licenziamento del dipendente che presenti una denuncia querela contro la società non per rimuovere una situazione di illegalità o per tutelare i suoi diritti ma con la volontà di danneggiare il datore di lavoro per vendicarsi del mancato riconoscimento delle proprie rivendicazioni. Infatti, l'esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall'art. 333 c.p.p., è fonte di responsabilità quando il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza della insussistenza dell'illecito o della estraneità allo stesso dell'incolpato.

NOTA

La fattispecie oggetto della sentenza in commento concerne il licenziamento per giusta causa di un dipendente per avere il lavoratore presentato una falsa denunzia-querela a carico del legale rappresentante della società, integrando così la fattispecie di cui all'art. 54 dal CCNL Gomma Plastica («condotta atta ad arrecare grave nocumento morale e materiale» al datore di lavoro). Nello specifico, la denuncia incolpava il datore di lavoro di aver assunto consapevolmente, ed in maniera illegale, delle persone extracomunitarie introdottesi clandestinamente nel territorio italiano e che utilizzavano generalità e permessi di soggiorno falsi.

La Corte d'appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado del Tribunale di Monza, rigettava il ricorso del dipendente, che proponeva ricorso per Cassazione avverso tale decisione.

La Suprema Corte ha ritenuto che la Corte d'appello di Milano si fosse uniformata ai propri già affermati principi.

In particolare, la Corte territoriale si è attenuta al principio per cui «l'esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall'art. 333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza della insussistenza dell'illecito o della estraneità allo stesso dell'incolpato», osservando che «dalla concatenazione logica e cronologica dei fatti emerge in maniera chiara che la denuncia querela sia stata presentata non per rimuovere una situazione di illegalità o per tutelare i diritti del querelante ma con la volontà di danneggiare il datore di lavoro per vendicarsi del mancato riconoscimento delle proprie rivendicazioni».

Infatti, da un lato la Corte d'appello di Milano, coerentemente «con gli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale», ha identificato il "grave nocumento morale" di cui all'art. 54 del CCNL Gomma Plastica Industria nell'apertura di un procedimento penale concernente un fatto di consistente gravità denunciato dal ricorrente, ossia che il legale rappresentante della società datrice di lavoro fosse a conoscenza delle descritte irregolarità afferenti alle posizioni di determinati lavoratori, poi smentito in sede istruttoria e risultato la conseguenza della volontà del ricorrente di danneggiare il datore di lavoro per vendicarsi del mancato riconoscimento delle proprie rivendicazioni.

Dall'altro, il medesimo art. 54 citato non può essere interpretato nel senso di richiedere ai fini dell'applicazione la quantificazione di un danno.Pertanto, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Infortunio sul lavoro e infortunio in itinere

Cass. Sez. Lav. ord. 7 ottobre 2022, n. 29300

Pres. Esposito; Rel. Ponterio; Ric. F.L.; Contr. INAIL

Infortunio sul lavoro – Infortunio in itinere – Presupposti – Distinzione

È requisito indispensabile per l'indennizzabilità dell'infortunio la sussistenza della causa o, almeno, dell'occasione di lavoro. In altre parole, fra la prestazione lavorativa e l'evento vi deve essere un nesso di derivazione eziologica quanto meno mediata ed indiretta, essendo l'evento dipendente dal rischio inerente all'attività lavorativa o connesso al compimento di tale attività. Nel caso dell'infortunio in itinere, il rischio tutelato è invece quello derivante dallo spostamento spaziale del lavoratore eseguito in connessione con lo svolgimento dell'attività lavorativa.

NOTA

La Corte d'Appello di Bologna, in riforma della sentenza del Tribunale, rigettava la domanda del lavoratore volta ad ottenere la rendita da infortunio sul lavoro revocatagli dall'INAIL.

Nella fattispecie, era accaduto che il lavoratore, direttore del punto vendita cui era addetto, aveva il compito di versare gli incassi della giornata sul conto corrente della società datrice di lavoro. Qualche giorno dopo l'avvenuto furto dell'incasso contenuto nella cassaforte all'interno del negozio, il lavoratore, terminate le ordinarie operazioni di chiusura del negozio, decideva di trattenere presso la propria persona il denaro degli incassi di fine giornata, nascondendolo nei sedili posteriori della propria autovettura, e si dirigeva verso casa. In prossimità della propria abitazione veniva raggiunto da un suo collega di lavoro, magazziniere assunto tre settimane prima, che gli chiedeva la disponibilità a trasportarlo in auto fino alla propria abitazione. Il lavoratore, a fronte di tale richiesta, decideva di concedere il passaggio al collega. Raggiunta la destinazione, ed arrestata la corsa del veicolo, il collega, distraendo il lavoratore con una banale scusa, lo accoltellava nella parte sinistra del collo. L'aggressore sottraeva quindi le chiavi del negozio al lavoratore, si appropriava della sua autovettura e si recava presso il punto vendita per sottrarre l'incasso che egli credeva all'interno della cassaforte.

La Corte, qualificato l'accaduto come infortunio in itinere, ne escludeva l'indennizzabilità per essersi verificata una deviazione dal tragitto ordinario lavoro-privata dimora.

Avverso la sentenza della Corte territoriale il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, con unico motivo di ricorso, che la Corte territoriale avrebbe errato nel ravvisare un rischio elettivo in infortunio in itinere, in quanto lo stesso era stato vittima di una rapina premeditata con tentato omicidio e l'accaduto andava qualificato come infortunio sul lavoro, essendo il maneggio di denaro un'ipotesi oggettiva di attività protetta ed essendo rilevante ogni esposizione a rischio ricollegabile, in modo diretto o indiretto, allo svolgimento dell'attività lavorativa.

La Suprema Corte ritiene il ricorso fondato.

La Corte di Cassazione, innanzitutto, ricorda i principî già affermati ai fini della distinzione tra infortunio sul lavoro e infortunio in itinere, come indicati nella massima. In particolare, con riguardo alla qualificazione dell'infortunio sul lavoro, ricorda la Suprema Corte che l'occasione di lavoro, quale elemento costitutivo dell'infortunio indennizzabile, ricorre allorchè vi sia «una correlazione che vada al di là della mera concomitanza di tempo e di luogo, per cui anche se l'infortunio non debba essere necessariamente riconducibile ad un rischio proprio insito nelle mansioni svolte dall'assicurato, deve pur sempre essere ricollegabile all'espletamento dell'attività lavorativa, nel senso che il rischio di cui è conseguenza l'infortunio sia astrattamente connesso all'esecuzione dell'attività lavorativa e al perseguimento delle relative finalità» (Cass. n. 774 del 1999). Precisa inoltre la Corte di Cassazione che «il rischio generico, gravante sul lavoratore come su di ogni altra persona, rientra nell'oggetto dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, quando sussiste tra il sinistro e la prestazione lavorativa un nesso causale tale da rendere l'infortunio attinente alle mansioni svolte, in relazione alle modalità concrete dell'evento ed alle maggiori probabilità che esso si verifichi nel corso dello svolgimento di una determinata attività» (Cass. n. 3744 del 1998, caso in cui – evidenzia la stessa Suprema Corte nella sua decisione – la connessione tra sinistro e attività lavorativa era stata ritenuta dal giudice di merito, con sentenza confermata dalla S.C., in relazione alle gravi ustioni causate ad un lavoratore, autista di autocarri, dal comportamento di una persona, che, disturbata dal continuo transito sotto la sua abitazione e nelle prime ore del mattino dei pesanti automezzi della ditta datrice di lavoro, aveva versato liquido infiammabile al passaggio del veicolo condotto da tale lavoratore).

Diverso – sottolinea la Corte di Cassazione – è invece il rischio tutelato nel caso dell'infortunio in itinere, posto che la relativa norma tutela quello «generico, inerente al percorso seguito dal lavoratore per recarsi al lavoro, cui soggiace qualsiasi persona che lavori» (Cass. n. 5814 del 2022).

Ciò esposto, e venendo al caso sottoposto al suo esame, la Suprema Corte ritiene che la Corte territoriale non si sia attenuta ai principî sopra riportati, in quanto ha sussunto nella previsione relativa all'infortunio in itinere una fattispecie in cui il rischio al quale era sottoposto il lavoratore non era ricollegabile al tragitto percorso, ossia allo spostamento spaziale lavoro-privata dimora, bensì «pacificamente» all'attività lavorativa e alle mansioni svolte dal lavoratore ricorrente.

In accoglimento del ricorso, la Corte di Cassazione ha quindi cassato la sentenza impugnata e rinviato alla medesima Corte d'Appello di Bologna, in diversa composizione.

Trasferimento d'azienda, transazione e incidenza sul rapporto con cedente

Cass. Sez. Lav. 4 ottobre 2022, n. 28824

Pres. Doronzo; Rel. Michelini; P.M. Sanlorenzo; Ric. V.N.L.; Controric. T. S.p.A.

Trasferimento d'azienda – Illegittimità – Vicende del rapporto di lavoro con il cessionario – Irrilevanza per il cedente – Dimissioni – Transazione con incentivo all'esodo – Incidenza sul rapporto con cedente – Esclusione

Soltanto un legittimo trasferimento d'azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi. L'unicità del rapporto viene meno qualora il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l'instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto cessionario alle cui dipendenze il lavoratore continui di fatto a lavorare.

NOTA

La vicenda in esame riguarda un lavoratore il cui contratto di lavoro è stato ceduto da una società (cedente) ad un nuovo datore di lavoro (cessionario).

La Corte d'Appello di Torino, accogliendo l'appello del datore di lavoro cedente, riformava le sentenze del giudice di prime cure che aveva condannato tale società al risarcimento del danno pari al trattamento economico che il lavoratore avrebbe dovuto percepire dedotto l'incentivo all'esodo percepito dalla società cessionaria in occasione di un accordo di risoluzione del rapporto di lavoro.

In particolare, la Corte di Appello di Torino motivava il rigetto della pretesa del lavoratore con il fatto che questi aveva stipulato con la cessionaria un accordo transattivo in base al quale aveva accettato l'erogazione di un incentivo all'esodo, avendo raggiunto i requisiti pensionistici.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione.

La Corte di Cassazione ritiene viziato l'iter argomentativo della Corte territoriale.

Nello specifico la Cassazione ritiene che «soltanto un legittimo trasferimento d'azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resti unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi; tale circostanza ricorre esclusivamente quando sussistono i presupposti di cui all'art. 2112 cod. civ. che, in deroga all'art. 1406 cod. civ., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto; da ciò consegue che l'unicità del rapporto viene meno qualora, come nel caso di specie, il trasferimento sia stato dichiarato invalido».

Di conseguenza, il giudice di legittimità afferma che qualora venisse accertata l'invalidità della cessione del contratto, il rapporto di lavoro con la società cessionaria non può che considerarsi instaurato in via di mero fatto implicando che le vicende risolutive del rapporto di lavoro con quest'ultimo sono inidonee ad incidere sul rapporto giuridico tuttora esistente con la società cedente.

Per questi motivi la Cassazione accoglie il ricorso.

Simulazione della malattia e licenziamento per giusta causa

Cass., Sez. Lav., ord. 7 ottobre 2022, n. 29229

Pres. Raimondi; Rel. Caso; Ric. B.S.; Contr. C. S.p.A.

Malattia – Svolgimento di attività extralavorative – Obbligo di buona fede e correttezza – Violazione – Licenziamento – Proporzionalità della sanzione – Sussiste

Deve essere confermata la sentenza di merito che abbia ritenuto legittimo e proporzionato il licenziamento per giusta causa del dipendente, con mansioni di operatore sanitario, che durante l'assenza per malattia abbia svolto attività lavorativa per proprio conto presso il bar di sua proprietà. Siffatta condotta, infatti, è assolutamente contraria agli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione della prestazione, lasciando presumere la simulazione della patologia dichiarata dallo stesso lavoratore che, in ogni caso, non era tale da impedire al dipendente lo svolgimento dell'attività di lavoro.

NOTA

La Corte d'Appello di Napoli confermava la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in entrambe le fasi del rito Fornero, aveva rigettato la domanda di un lavoratore volta ad accertare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa subìto per aver svolto attività lavorativa in alcune giornate durante le quali era in malattia.

In particolare i giudici di merito ritenevano che gli accertamenti investigativi svolti dal datore di lavoro avevano consentito di appurare che nei giorni di dichiarata malattia il lavoratore aveva lavorato presso un bar di sua proprietà, con ciò lasciando presumere la simulazione dello stato di malattia e, conseguentemente, una grave violazione dei canoni di buona fede e correttezza nell'esecuzione della prestazione lavorativa, tale da sorreggere validamente la giusta causa di licenziamento.

Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione affidato ad un unico motivo, lamentando che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che, l'aver svolto attività lavorativa durante il suo stato di malattia, non integrava né un caso di simulazione dello stato morboso né una violazione dei suddetti canoni di buona fede e correttezza.

La Cassazione, per quel che rileva, in primo luogo, ritiene il motivo di censura inammissibile rappresentando, di fatto, una rivisitazione delle risultanze probatorie non consentita in sede di legittimità.

In secondo luogo, ritiene che l'iter logico-giuridico seguito dalla Corte territoriale sia, in ogni caso, immune da vizi.

Infatti, richiamando il principio espresso in massima, ovvero la contrarietà ai canoni di buona fede e correttezza dello svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia, la Suprema Corte ritiene che la Corte d'Appello abbia correttamente concluso per l'irrilevanza, nel caso in esame, del fatto che non vi era stato un aggravamento della malattia o che la patologia fosse realmente esistente (laddove per la sua non particolare gravità, essa avrebbe comunque consentito al lavoratore di prestare la propria attività lavorativa).

Ed infatti, i giudici di merito – ritiene la Cassazione – hanno correttamente valorizzato il comportamento tenuto dal lavoratore, per desumerne che egli non era impossibilitato a svolgere la sua prestazione lavorativa e, quindi, presumendo la simulazione dello stato di malattia.

La Suprema Corte, conclusivamente, dichiara inammissibile il ricorso e condanna il lavoratore ricorrente alle spese di lite.

Danno da demansionamento

Cass. Sez. Lav., 7 ottobre 2022, n. 29234

Pres. Raimondi; Rel. Caso; P.M. Fresa; Ric. T.A.; Contror. C.T.L. S.p.A.

Diritto al superiore inquadramento – Diritto di credito – Prescrizione ordinaria decennale – Decorrenza

Il diritto del lavoratore all'inquadramento professionale, costituendo un diritto di credito derivante dalle mansioni concretamente svolte e in relazione al quale vi è per il datore di lavoro il corrispondente obbligo di assegnazione, soggiace alla prescrizione ordinaria decennale di cui all'art. 2946 c.c. Il decorso del decennio dal momento dell'insorgenza del diritto non preclude definitivamente l'accesso al superiore inquadramento allorché continui l'attività potenzialmente idonea a determinarlo, in quanto, permanendo la situazione cui la norma collega il diritto, la prescrizione decorre autonomamente da ogni giorno successivo a quello nel quale si è per la prima volta concretata tale situazione, fino alla cessazione della medesima.

Demansionamento – Condotta perdurante nel tempo – Acquiescenza del lavoratore – Non sussiste – Prescrizione – Decorrenza

Il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima come il demansionamento del lavoratore, non può essere intesa semplicemente come acquiescenza ad una situazione imposta dal datore di lavoro, trattandosi di una forma di illecito permanente. Ne consegue che la pretesa risarcitoria per il danno alla professionalità si rinnova in relazione al protrarsi dell'evento dannoso, impedendo il decorso della prescrizione fino al momento in cui il comportamento contra jus non sia cessato, né sussistono limiti alla proposizione della domanda ed al conseguente soddisfacimento del diritto ad essa sotteso per tutto il tempo durante il quale la condotta è stata perpetuata.

Danno da fatto illecito – Risarcimento – Prescrizione – Decorrenza – Illecito istantaneo – Prima manifestazione del danno – Illecito permanente – Cessazione della condotta dannosa

In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, nel caso di illecito istantaneo, caratterizzato da un'azione che si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti, la prescrizione incomincia a decorrere con la prima manifestazione del danno, mentre, nel caso di illecito permanente, protraendosi la verificazione dell'evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, confermando la decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta dal lavoratore al fine di ottenere il risarcimento del danno per erroneo inquadramento. In particolare, i giudici di merito ritenevano fondata l'eccezione di prescrizione del diritto, osservando che, trattandosi di responsabilità contrattuale, il termine di prescrizione decennale doveva decorrere dal momento di inizio dell'erroneo inquadramento, cioè – nel caso che ci occupa – dal 1973.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione eccependo, inter alia, la violazione dell'art. 2935 cod. civ. e, in particolare, censurando la sentenza della Corte d'Appello nella parte relativa alla decorrenza del termine di prescrizione, sostenendo che affinché il termine possa utilmente decorrere, l'illecito deve essere cessato e oggettivamente percepibile e riconoscibile dal lavoratore, anche tenuto conto che non è esigibile che il dipendente verifichi i dati forniti, da ritenersi attendibili perché provenienti dalla parte datoriale.

La Suprema Corte ritiene il motivo di ricorso meritevole di accoglimento, essendo le considerazioni della Corte d'Appello giuridicamente errate.

Innanzitutto, la Corte precisa che, secondo il proprio consolidato orientamento, il diritto del lavoratore all'inquadramento professionale è un diritto di credito derivante dalle mansioni concretamente svolte e in relazione al quale per il datore di lavoro sussiste un corrispondente obbligo di assegnazione. Tale diritto di credito soggiace alla prescrizione ordinaria decennale di cui all'art. 2946 cod. civ. e il decorso del decennio dal momento dell'insorgenza del diritto non preclude definitivamente l'accesso al superiore inquadramento laddove l'attività potenzialmente idonea a determinarlo continui, giacché la prescrizione decorre autonomamente da ogni giorno successivo a quello nel quale tale situazione si è per la prima volta concretata (in senso conforme, Cass. 9662/2001, Cass. 5486/1995, Cass. 8711/1993).

Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha anche insegnato che il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima come il demansionamento non può essere intesa come semplice acquiescenza del lavoratore ad una situazione impostagli dal datore di lavoro, trattandosi invece di un illecito permanente. Di conseguenza, la pretesa risarcitoria per il danno alla professionalità si rinnova in relazione al protrarsi dell'evento dannoso, impedendo il decorso della prescrizione fino alla cessazione del comportamento illegittimo (in senso conforme, Cass. 31558/2021).

E, ancora, la Corte di Cassazione ricorda come in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, nel caso di illecito istantaneo – in cui l'azione si esaurisce in un lasso di tempo definito, lasciando permanere i suoi effetti – la prescrizione decorre con la prima manifestazione del danno, mentre nel caso di illecito permanente – in cui la condotta foriera di danno si protrae per tutta la durata del danno medesimo – la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della condotta dannosa (in tal senso, Cass. 9318/2018).

Le considerazioni che precedono valgono, sia qualora il lavoratore intenda far valere il diritto al superiore inquadramento, sia qualora – come nel caso di specie – qualora il dipendente agisca per il risarcimento del danno procurato dalla lesione del diritto medesimo.

In sintesi, quindi, poiché il diritto al risarcimento del danno nel caso in esame si era protratto dall'ottobre 1973 al giugno 2002, la Suprema Corte ritiene che è da quest'ultimo momento – in cui l'illecito è cessato – che il termine di prescrizione inizia a decorrere, rinviando alla Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione, affinché verifichi se e quali atti del lavoratore abbiano eventualmente integrato gli estremi dell'interruzione della prescrizione.

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