Rassegne di giurisprudenza

Rassegna di Cassazione

Sicurezza sul lavoro e responsabilità dell'imprenditore<br/>Licenziamento ritorsivo<br/>La prescrizione dei crediti del lavoratore<br/> Assenza di riposo compensativo e danno da usura psicofisica

a cura di Elio Cherubini Avvocato, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sicurezza sul lavoro e responsabilità dell'imprenditore

Cass. Sez. Lav., 24 agosto 2022, n. 25288

Pres. Raimondi; Rel. Leone; Ric. B.C..; Controric. R.F

Sicurezza sul lavoro – Infortunio – Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. – Predisposizione di tutte le misure idonee a preservare l'integrità psico–fisica del lavoratore – Necessità

La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., sorge non soltanto in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma sanziona anche la omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte le misure e cautele idonee a preservare l'integrità psico–fisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità.

NOTA

La Corte d'Appello di Firenze, a seguito di rinvio del giudice di legittimità, accoglieva la domanda della lavoratrice diretta ad ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento integrale del danno subito a seguito di infortunio sul lavoro.In particolare, la Corte di Appello di Firenze, accertava la responsabilità datoriale nella determinazione dell'evento e del danno e liquidava utilizzando le "tabelle milanesi" il danno biologico permanete, il danno biologico temporaneo e il danno morale.Avverso tale decisione il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione.La Suprema Corte dichiara infondati i motivi di ricorso precisando che «in tema di risarcimento dei danni da infortuni sul lavoro e malattie professionali, l'accertamento di un danno all'integrità fisica del lavoratore, (…) costituisce implicita valutazione della ricorrenza dei presupposti astrattamente contemplati per la fattispecie penale del reato di lesioni quantomeno colpose" e che "la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ.., pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, sorge non soltanto in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma sanziona anche la omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte le misure e cautele idonee a preservare l'integrità psico-fisica del lavoratore».Per questi motivi rigetta il ricorso. 

Stage e rivendicazione rapporto di lavoro subordinato

Cass. Sez. Lav. 30 agosto 2022, n. 25508

Pres. Bronzini; Rel. Leo; Ric. M.P.; Controric. A.P. S.p.A., M. S.p.A. e F. e C.

Stage – Rivendicazione lavoro subordinato – Indici della subordinazione – Onere della prova sul lavoratore

Lo stagista non può chiedere di essere assunto se non prova l'esistenza degli indici della subordinazione quali l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, ovvero, in via sussidiaria, ma tra loro concorrente quantomeno per una valutazione in via presuntiva, l'inserimento continuativo nell'impresa, il vincolo di orario, la forma della retribuzione, l'assenza di rischio.

NOTA

La Corte d'Appello di Bari, rigettava la domanda di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in capo al soggetto ospitante promosso da uno stagista frequentante un Master Universitario in materia di gestione del lavoro e delle relazioni sindacali.La Corte territoriale, in particolare, ha ritenuto che, sulla base delle testimonianze del tutor dello stagista e del direttore dell'Ufficio Risorse umane ed Organizzazione sulle concrete modalità di svolgimento del rapporto, non fosse stata fornita prova della sussistenza di alcuno degli indici rivelatori della subordinazione.Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione lo stagista. La Corte di Cassazione riconferma l'iter argomentativo della Corte territoriale che si è attenuta ai consolidati principi in materia di accertamento del rapporto di lavoro subordinato.Nello specifico, la Suprema Corte ha ribadito «che ai fini della individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso anche mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall'effettivo svolgimento del rapporto».La Corte di Cassazione ha poi ricordato quali siano gli indici di subordinazione e cioè: retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa, l'orario di lavoro fisso e continuativo, la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali, il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e l'inserimento nell'organizzazione aziendale. Soffermandosi poi sull'onere della prova, torna a precisare che «è sul lavoratore che intenda rivendicare in giudizio l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava l'onere di fornire gli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata». Pertanto, la Cassazione rigetta il ricorso. 

Licenziamento ritorsivo

Cass. Sez. Lav., 7 settembre 2022, n. 26395

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; P.M. Sanlorenzo; Ric. C. S.p.A.; Contr. D.A.

Rito errato – Conseguenze – Nullità della sentenza – Esclusione – Impugnazione –Lesione del diritto di difesa – Necessità

La violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell'ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte. Perché la violazione assuma rilevanza invalidante occorre, infatti, che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso. Ciò perché l'individuazione del rito non deve essere considerata fine a sé stessa, ma soltanto nella sua idoneità ad incidere apprezzabilmente sul diritto di difesa, sul contraddittorio e, in generale, sulle prerogative processuali della parte.Licenziamento ritorsivo – Motivo illecito esclusivo e determinante – Necessità – Onere della prova del lavoratore – Sussistenza – Comparazione con altri motivi del recesso – EsclusionePer accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l'intento ritorsivo datoriale (il cui onere è a carico del lavoratore) abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, nell'ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012 (c.d. "Rito Fornero"), riformava la pronuncia di primo grado, dichiarando la nullità del licenziamento intimato al lavoratore, condannando la società datrice di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente ed al pagamento di una indennità risarcitoria pari a tutte le retribuzioni globali di fatto dal recesso all'effettiva reintegrazione. La Corte territoriale rilevava in via preliminare che la società, nel riproporre l'eccezione di inammissibilità delle domande di parte ricorrente di impugnativa del trasferimento e del licenziamento proposte in unico ricorso, con rito Fornero, non aveva dedotto né rilevato che dall'adozione di quest'ultimo rito anche per la domanda relativa al trasferimento, fosse derivata una lesione al proprio diritto di difesa. Inoltre, la Corte d'Appello ha ritenuto sussistere indici presuntivi per i quali ritenere il trasferimento del lavoratore operato dalla società nullo perché ritorsivo, con la conseguenza che la contestata assenza ingiustificata, fondante l'intimato licenziamento per giusta causa, tale non poteva essere qualificata essendo dovuta ad un legittimo esercizio del potere di autotutela contrattuale, esercitato dal prestatore di lavoro ex art. 1460 cod. civ. Da ciò la Corte ha tratto l'ulteriore conseguenza che l'impugnato licenziamento doveva ritenersi affetto dal medesimo intento ritorsivo.Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, con un primo motivo di ricorso, che la Corte d'Appello avrebbe dovuto dichiarare sin da subito inammissibile la domanda tesa ad accertare la nullità/inefficacia o illegittimità del trasferimento, in quanto introdotta con rito c.d. Fornero, scelta dalla quale sarebbe derivata una compressione del diritto di difesa della società, trattandosi di un giudizio sommario, non a cognizione piena. Con altro motivo di ricorso, la società ha poi criticato la sentenza impugnata per aver ritenuto il carattere ritorsivo del licenziamento, rilevando come gli elementi di ordine presuntivo addotti dalla corte territoriale a sostegno della sua decisione fossero privi di consistenza, trattandosi di fatti generici e non compiutamente identificati, e, come tali, inidonei a fondare un serio convincimento in ordine alla concludenza e all'esclusività dell'intento illecito.La Suprema Corte ritiene entrambi i motivi di ricorso non meritevoli di accoglimento e li rigetta.Sul primo motivo di ricorso la Corte di Cassazione ricorda, innanzitutto, che «l'inesattezza del rito non determina di per sé la nullità della sentenza» (Cass. 12094/2016; Cass. 15084/2018). Ribadendo sul punto il principio indicato nella massima, la Suprema Corte rileva che la società ricorrente, non solo non ha specificato i contenuti dell'atto di costituzione in appello in cui avrebbe illustrato le lesioni al suo diritto di difesa, ma altresì che in ricorso si è limitata a prospettare, quale pregiudizio derivante dall'errore sul rito, la mera circostanza della "sommarietà" del giudizio. Secondo la Corte di Cassazione la ricorrente, quindi, «non denuncia una concreta e specifica lesione del diritto di difesa, per cui nella sostanza la società si limita ad invocare una mera violazione della legge processuale, con una concezione del processo volta a ricollegare il danno processuale alla mera irregolarità, concezione avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei modelli procedurali» (Cass. 4506/2016).Sul secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione, ribaditi i principî indicati nella massima ai fini dell'accertamento della nullità del licenziamento fondato su motivo illecito (già fatti propri da Cass. 14816/2005; Cass. 3986/2015; Cass. 9468/2019), ricorda che l'onere di provare l'esistenza di un licenziamento c.d. ritorsivo ricade sul lavoratore, ma che tale onere ben può essere assolto mediante presunzioni (Cass. 23583/2019), come accaduto nel caso in esame. La Suprema Corte – ricordando che la valutazione circa la sussistenza o meno del motivo ritorsivo del licenziamento è un accertamento di fatto, devoluto al giudice del merito, non suscettibile di riesame in sede di legittimità – ritiene esente da critiche la sentenza impugnata per il ragionamento presuntivo operato «perché spetta al giudice del merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l'attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l'attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche» (Cass. 10847/2007; Cass. 24028/2009; Cass. 21961/2010). In questi casi, ricorda la Corte di Cassazione, chi ricorre in cassazione non può «limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017), spettando al giudice del merito l'apprezzamento circa l'idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell'íd quod plerumque accidit» (Cass. 16831/2003; Cass. 26022/2011; Cass. 12002/2017).

La prescrizione dei crediti del lavoratore

Cass. Sez. Lav., 6 settembre 2022, n. 26246

Pres. Raimondi; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. P.M.C. e B.A.; Contr. A. S.r.l.

Crediti di lavoro – Legge Fornero – Prescrizione – Decorrenza – Durante il rapporto – Esclusione – Al termine del rapporto – Ammissibilità

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 cod. civ., dalla cessazione del rapporto di lavoro.

NOTA

La Corte d'Appello di Brescia confermava la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale aveva rigettato, ritenendole prescritte, le domande di due lavoratrici inerenti differenze retributive per lavoro straordinario notturno fatte valere a distanza di oltre 5 anni dalla maturazione delle stesse.In particolare, la Corte territoriale riteneva che, diversamente dal caso di specie, ai fini della decorrenza della prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro dalla cessazione del rapporto, lo stesso non doveva essere assistito dalla c.d. stabilità reale, nozione acquisita dal diritto vivente per designarne la regolazione con una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia del recesso datoriale alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate, affidandone, sul piano processuale, al giudice il sindacato e la possibilità di rimuoverne gli effetti.La Corte d'Appello negava, infatti, in generale, la ricorrenza di una condizione psicologica di timore (metus) del lavoratore, tale da indurlo a non avanzare pretese retributive nel corso del rapporto paventando, appunto, reazioni del datore di lavoro comportanti il recesso dal rapporto e ciò in quanto, secondo la Corte, veniva mantenuta una tutela ripristinatoria piena, in caso di licenziamento intimato per ritorsione, ovvero per motivo illecito determinante (che abbia in concreto, al di là delle ragioni apparenti addotte, quale unica ragione le rivendicazioni retributive del lavoratore in corso di rapporto) e risultava irrilevante, sotto questo profilo, un'attenuazione della tutela per un licenziamento fondato su ragioni (giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e sussistenti) estranee alle suddette rivendicazioni retributive.Avverso tale sentenza hanno ricorso in Cassazione le due lavoratrici con un unico motivo lamentando che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere, anche dopo la novellazione dell'art. 18 L. 300/1970 con le riforme della L. 92/2012 (c.d. Fornero) e del D.lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act), la vigenza del regime di stabilità del rapporto di lavoro e ritenendo irrilevante, a tal fine, il diritto alla reintegrazione, nelle ipotesi di nullità o di inefficacia del licenziamento, in quanto previste anche nell'area di applicabilità della legge n. 604/1966 (di tutela obbligatoria), incontestabilmente riconosciuta come non assistita da un regime di stabilità.La Cassazione, per quel che rileva, ricostruisce il quadro normativo e giurisprudenziale inerente alla nozione e sulla sussistenza o meno (a valle delle varie riforme succedutesi nel tempo) della c.d. stabilità reale nel rapporto di lavoro, evidenziando che il quadro attuale risulta significativamente modificato rispetto all'epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità aveva individuato l'essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva dell'art. 18 L. 300/1970, ritenendo che esso, ad oggi, non assicuri, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro.La Cassazione ritiene, pertanto, che la prescrizione decorra in corso di rapporto (e non dalla sua cessazione) «esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione contro ogni illegittima risoluzione nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell'art. 18, anteriore alla legge n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l'assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d'impiego pubblico.Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, come invece ritenuto dalla Corte d'appello di Brescia, il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la legge n. 92 del 2012 (art. 18, primo comma), tanto con il d.lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, primo comma), per il licenziamento non tanto discriminatorio ma soprattutto ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 cod. civ. (non necessario per il licenziamento discriminatorio)».Secondo la Suprema Corte, l'individuazione del regime di stabilità sopravviene ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all'esito di un accertamento in giudizio e, quindi, necessariamente ex post, in tal modo affidandone l'identificazione, o meno, al criterio del "caso per caso", rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale.«In via conclusiva – afferma la Cassazione – deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L.92/2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità», da ciò consegue la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 cod. civ., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. 92/2012.La Suprema Corte, conclusivamente, in accoglimento del ricorso delle lavoratrici, cassa la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Brescia in diversa composizione, sulla base del principio di diritto enunciato in massima.  

Assenza di riposo compensativo e danno da usura psicofisica

Cass. Sez. Lav., 25 agosto 2022, n. 25336

Pres. Esposito; Rel. Di Paolantonio; Ric. C.G.; Controric. C.G.N.

Lavoratori turnisti – CCNL comparto enti locali – Lavoro in giorno festivo – Maggiorazioni – Cumulabilità – Condizioni

Le maggiorazioni previste dall'art. 22 del CCNL per il personale del comparto enti locali compensa interamente il disagio derivante dall'articolazione dell'orario. Di conseguenza, l'applicazione delle ulteriori maggiorazioni previste dall'art. 24 in caso di attività prestata in giorno festivo è limitata ai casi in cui vi sia un'eccedenza rispetto al normale orario assegnato al turnista, cioè quando in via eccezionale a questi venga richiesto di svolgere la propria attività nella giornata di riposo settimanale allo stesso spettante.

Lavoratori turnisti – CCNL comparto enti locali – Assenza di riposo compensativo – Danno da usura psicofisica – Danno in re ipsa – Insussistenza – Onere della prova sul lavoratore – Sussistenza

Né la disciplina del CCNL per il personale del comparto enti locali né le fonti normative interne e sovranazionali impongono che il godimento del riposo – che deve essere assicurato in ragione di un giorno su sette – debba avvenire sempre nel settimo giorno consecutivo. Qualora la fruizione del riposo avvenga oltre il settimo giorno, ma nel rispetto della normativa inerente l'organizzazione del tempo di lavoro, per l'attività svolta dal lavoratore nel settimo giorno sarà dovuta soltanto la maggiorazione retributiva prevista dal CCNL. Soltanto la perdita definitiva del riposo settimanale è di per sé produttiva di un danno da usura psicofisica, che può essere liquidato anche in via equitativa, a prescindere dalla prova del pregiudizio subito.

NOTA

La Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza del tribunale di primo grado che aveva accertato il diritto del lavoratore al risarcimento del danno per l'attività di vigile urbano svolta in giorno festivo infrasettimanale senza fruire di riposo compensativo, affermava che in caso di prestazione lavorativa resa in giornata festiva infrasettimanale o in quella domenicale da dipendente turnista, quest'ultimo può rivendicare esclusivamente le maggiorazioni previste dal CCNL per il personale del comparto enti locali, che compensano interamente il disagio derivante dalla particolare articolazione dell'orario. Quanto al danno da usura psicofisica lamentato dal ricorrente, la Corte rilevava che esso dovesse essere allegato e provato dal lavoratore, che invece nulla aveva dedotto al riguardo. Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso la suddetta sentenza, eccependo, innanzitutto, la violazione degli artt. 22 e 24 del CCNL applicato, dell'art. 115 doc. proc. civ. e dell'art. 2697 cod. civ., per avere la Corte d'Appello errato nel ritenere non cumulabili le maggiorazioni previste dal CCNL e non essersi pronunciata sulla questione della mancata corresponsione dei riposi compensativi.Sul punto, la Corte di Cassazione ribadisce il proprio orientamento consolidato, e applicato altresì dalla Corte d'Appello di Napoli, secondo cui la speciale disciplina di cui all'art. 22 del suddetto CCNL compensa interamente il disagio derivante dall'articolazione dell'orario, a condizione che venga rispettato il limite massimo settimanale. Di conseguenza, l'applicazione delle ulteriori maggiorazioni previste dall'art. 24 in caso di attività prestata in giorno festivo è limitata ai casi in cui vi sia un'eccedenza rispetto al normale orario assegnato al turnista, cioè quando in via eccezionale a questi venga richiesto di svolgere la propria attività nella giornata di riposo settimanale allo stesso spettante (in tal senso, Cass. 32905/2021; Cass. 19326/2021; Cass. 28628/2020).Con un ulteriore motivo di ricorso, il lavoratore eccepisce la violazione degli art. 36 Cost. e 2697 e 2059 cod. civ., sostenendo che il danno da usura psicofisica, che può essere provato anche mediante presunzioni, è in re ipsa qualora – come nel caso in esame – l'attività lavorativa venga resa per oltre sei giorni consecutivi.Sul punto, la Corte di Cassazione ritiene che il lavoratore abbia confuso l'ipotesi del mancato godimento del riposo, ritenuta non provata dal giudice d'appello, con quella del godimento del riposo medesimo oltre il settimo giorno. A tal proposito, la Corte di Cassazione ribadisce che né la disciplina del CCNL né le fonti normative interne e sovranazionali impongono che il godimento del riposo – che deve essere assicurato in ragione di un giorno su sette – debba avvenire sempre nel settimo giorno consecutivo (in tal senso, Cass. 41891/2021; Cass. 41273/2021). Pertanto, è smentita la tesi del ricorrente secondo cui il mancato rispetto di tale intervallo temporale sarebbe di per sé sufficiente a generare un danno da usura psicofisica. Né a diverse conclusioni sono giunte altre sentenze della Suprema Corte, che avevano riconosciuto il danno esclusivamente poiché era stata accertata la totale soppressione del riposo e non il mero spostamento dello stesso (in tal senso, Cass. 24563/2016; Cass. 24180/2013; Cass. SS.UU. 142/2013). Le sentenze appena citate avevano invece ribadito il principio per cui qualora la fruizione del riposo avvenga oltre il settimo giorno, ma nel rispetto della normativa inerente l'organizzazione del tempo di lavoro, per l'attività svolta dal lavoratore nel settimo giorno sarà dovuta soltanto la maggiorazione retributiva prevista dal CCNL. Al contrario, soltanto la perdita definitiva del riposo settimanale è di per sé produttiva di un danno da usura psicofisica, che può essere liquidato anche in via equitativa, a prescindere dalla prova del pregiudizio subito. I principi appena esposti erano stati correttamente applicati dalla Corte d'Appello. In definitiva, il ricorso viene rigettato.

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