Rassegne di giurisprudenza

Rilevanza del giudizio penale nel procedimento disciplinare e indici della giusta causa di licenziamento

- Rilevanza del giudizio penale nel procedimento disciplinare e indici della giusta causa di licenziamento<br/>- Onere della prova in ipotesi di licenziamento collettivo e individuale plurimo per motivo oggettivo<br/>- Licenziamento per giustificato motivo oggettivo<br/>- Licenziamento per giustificato motivo oggettivo <br/>- Trasferimento del lavoratore che assiste familiare disabile grave <br/>

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Rilevanza del giudizio penale nel procedimento disciplinare e indici della giusta causa di licenziamento

Cass. Sez. Lav., 15 dicembre 2022, n. 36861

Pres. Tria; Rel. Amendola; Ric. S.L.; Controric. E.D. S.p.A.

Procedimento disciplinare – Giudizio penale – Rilevanza – Accertamento del fatto materiale – Limite del giudicato

Alla rilevanza della sentenza penale nel successivo procedimento disciplinare si applica il principio generale secondo cui il giudicato non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione – operato nel giudizio penale.

Licenziamento per giusta causa – Fattispecie previste dal CCNL – Natura esemplificativa – Configurabilità – Potere autonomo del giudice – Sussistenza

Dalla natura legale della nozione di cui all'art. 2119 c.c. deriva che l'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

Licenziamento per giusta causa – Tenuità del danno patrimoniale – Irrilevanza – Valutazione della condotta del lavoratore – Fiducia – Rilevanza

In tema di licenziamento per giusta causa, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia sotteso al rapporto di lavoro.

NOTA

Nella fattispecie, un lavoratore agiva in giudizio impugnando il licenziamento disciplinare al medesimo irrogato.

La domanda del lavoratore, accolta in primo grado, veniva rigettata in appello.

La Corte d'appello, in particolare – accertati i fatti contestati dal datore di lavoro – riteneva giustificato il licenziamento, reputando determinanti, in tal senso, l'intensità dell'elemento soggettivo e la delicatezza delle mansioni svolte dal ricorrente.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, denunciando l'inutilizzabilità degli atti assunti nel corso delle indagini preliminari nel giudizio penale ai fini dell'accertamento de quo, l'omissione di ogni considerazione circa la tenuità del danno arrecato dal dipendente all'azienda, nonché la violazione della disciplina contrattual-collettiva in punto tipizzazione delle condotte meritevoli di sanzione espulsiva.

A fronte delle predette censure, la Cassazione si pronunciava come da massime, precisando, tra il resto, che nell'accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sugli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, e, in particolare, sulle risultanze delle intercettazioni telefoniche o ambientali, purché legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale, in cui si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all'acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materiale.

Onere della prova in ipotesi di licenziamento collettivo e individuale plurimo per motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav., 14 dicembre 2022, n. 36650

Pres. Doronzo; Rel. Patti; Ric. R.G.; Controric. O.M. di L.A.M.

Licenziamento collettivo – Impugnativa – Specifica indicazione dei motivi – Onere del lavoratore – Sussistenza – Potere del giudice – Rilevazione d'ufficio – Esclusione

Nel giudizio di impugnativa di un licenziamento, intimato a conclusione della procedura ex art. 4 l. 223/1991, il lavoratore ha l'onere di allegare tempestivamente tutte le circostanze che giustifichino la proposizione della domanda, inclusi i vizi di forma o di sostanza dei quali intenda avvalersi ai fini della inefficacia o annullabilità della procedura, non potendo il giudice rilevare d'ufficio eventuali ragioni di illegittimità della stessa.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Riduzione di personale omogeneo e fungibile – Criteri ex art. 5 l. 223/91 – Applicazione analogica – Ammissibilità

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta, per il datore di lavoro, del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare non è totalmente libera ma comunque limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza stabilite dagli artt. 1175 e 1375 c.c., potendo farsi riferimento, a tal fine, ai criteri di cui all'art. 5 della l. 223/1991, quali standards particolarmente idonei a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale.

NOTA

Nel caso di specie un lavoratore adiva l'Autorità Giudiziaria per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo al medesimo irrogato, nonché la conseguente condanna della società datrice al risarcimento del danno.

A fondamento delle predette domande il dipendente deduceva la violazione, da parte datoriale, dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare nonché il mancato rispetto dell'obbligo di repêchage.

Il Giudice di primo grado accoglieva integralmente il ricorso. Tale decisione veniva riformata dalla Corte d'appello, che riteneva viziata di ultra petizione la pronuncia del primo giudice in ordine alla doppia motivazione di illegittimità del licenziamento intimato: sia per la sua qualificazione come collettivo, senza che mai il lavoratore lo avesse prospettato come tale; che per aver posto a fondamento della decisione circostanze diverse da quelle allegate dal medesimo. Per l'annullamento di tale decisione, proponeva ricorso alla Suprema Corte il lavoratore deducendo, in particolare, la nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. per aver erroneo rilievo del vizio di ultrapetizione.

A fronte di detta censura la Cassazione rilevava che, in applicazione del principio iura novit curia, è consentito al giudice qualificare in modo diverso i fatti e i rapporti dedotti in lite, nonché l'azione esercitata in causa, potendo porre a fondamento della decisione principi di diritto diversi da quelli richiamati dalle parti; in applicazione del divieto di ultra o extra-petizione, stabilito dall'art. 112 c.p.c., è, invece, precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non abbiano formato oggetto del giudizio, né siano rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Tra l'altro, secondo la Cassazione, non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate. Chiarito ciò e rilevato che nella fattispecie il Tribunale non aveva violato il suddetto divieto di ultra petizione, la Corte, in punto di onere della prova, si pronunciava come da massime, confermando solo parzialmente la decisione d'appello.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. ord. 28 dicembre 2022, n. 37946

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Sanlorenzo; Ric. L.G.Y. S.p.A.; Contr. G.B.

Licenziamento per gmo – Soppressione della posizione – Ragioni – Migliore efficienza/redditività – Ammissibilità – Scelta datoriale – Sindacabilità – Esclusione – Art. 41 cost – Applicazione – Limite – Pretestuosità

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'art. 41 Cost., sempre che, s'intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso.

Licenziamento individuale – Illegittimità – Aliunde perceptum – Eccezione in senso stretto – Esclusione – Rilevabilità d'ufficio – Allegazione – Necessità

In tema di licenziamento illegittimo, il cd. "aliunde perceptum" non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, pertanto, allorquando vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato, nondimeno, gli elementi fattuali posti a fondamento dell'aliunde perceptum devono essere ritualmente allegati dalla parte che lo deduca.

NOTA

La Corte d'appello di Roma ha respinto il reclamo della datrice di lavoro avverso la decisione del locale Tribunale che, riformando l'ordinanza, aveva dichiarato illegittimo, ai sensi dell'art. 18, comma 4, Stat Lav., il licenziamento intimato ad una lavoratrice, con condanna della società alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché alla corresponsione della retribuzione globale di fatto nel frattempo maturata in misura non superiore a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

In particolare, il Tribunale, che nella fase sommaria, esclusa la natura discriminatoria del recesso datoriale, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento per violazione dell'obbligo di repêchage da parte della società, in seguito all'opposizione proposta dalla lavoratrice, con sentenza, in riforma della citata ordinanza, aveva ritenuto l'illegittimità del licenziamento per manifesta insussistenza del nesso causale tra le esigenze organizzative manifestate dall'azienda quale motivazione del recesso ed il provvedimento espulsivo.

La Corte d'appello, condividendo l'iter argomentativo del Tribunale, ha ritenuto il difetto delle ragioni poste a sostegno del recesso datoriale e, pertanto, del nesso di causalità tra la ragione indicata – consistente nella asserita ma non configurabile riorganizzazione del punto vendita – ed il licenziamento intimato.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società lamentando, tra il resto, «l'omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. per non aver la Corte tenuto in debita considerazione la soppressione della figura del capo reparto, come posta a fondamento del licenziamento intimato, in quanto volta a realizzare anche un risparmio dei costi».

La Corte ha rigettato il ricorso ribadendo che «in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell'art. 41 Cost.; sempre che, s'intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso».

La Corte di cassazione ha poi rilevato che la Corte d'appello, con motivazione congrua oltre che incensurabile in sede di legittimità, ha dato conto della pretestuosità del giustificato motivo oggettivo addotto, consistente in una riduzione della figura del department manager (ovvero del responsabile di reparto) originariamente ricoperta dalla controricorrente, per effetto di una complessiva riorganizzazione aziendale, significando che, piuttosto, nel punto vendita interessato, ove la lavoratrice era stata trasferita, non era affatto presente la figura del responsabile di reparto – prevedendo in organico di tale punto vendita esclusivamente la figura del direttore e del vice direttore, nonché di nove assistenti alla vendita. Il giudice di secondo grado ha quindi correttamente chiarito che la lavoratrice aveva ivi svolto l'attività di addetta alle vendite, con conseguente dequalificazione, aggiungendo che tale circostanza non era stata in alcun modo contestata dalla società, risultando, quindi, pacifica fra le parti. Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav., 28 dicembre 2022, n. 37949

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Mucci; Ric. C.M.; Controric. N.M. S.r.l.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Fattispecie: soppressione della posizione per contrazione del fatturato – Illegittimità – Art. 18 Fornero – Tutela reintegratoria e indennitaria – Assenza di discrezionalità da parte del giudice – C. Cost. 59/2021 e 125/2022 – Rilevanza

Per effetto dell'intervento della Corte costituzionale, il giudice, una volta accertata l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi – la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà̀ di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica.

NOTA

La Corte d'Appello di Bologna, in accoglimento parziale del reclamo promosso dalla Società-datrice di lavoro, giudicava illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato al lavoratore accordando, tuttavia, il rimedio indennitario in luogo della reintegrazione disposta dal primo giudice.

Secondo la Corte distrettuale l'equivoca e parziale dimostrazione del calo di fatturato da parte della Società giustificava l'applicazione della sola sanzione economica in quanto, l'art. 18, comma 7, St. lav., ha rimesso al libero apprezzamento del giudicante la scelta della sanzione (indennitaria o ripristinatoria) da riconoscere in caso di recesso illegittimo.Contro la pronuncia resa dal giudice di seconde cure ha promosso ricorso in cassazione il lavoratore lamentando l'erronea interpretazione della disposizione statutaria a opera della Corte di merito, non in linea con la lettura costituzionalmente orientata offerta, nelle more del giudizio, dalla Corte Costituzionale. Come precisato dalla Consulta, infatti, in caso di insussistenza del fatto posto alla base del provvedimento espulsivo, il giudice è tenuto ad applicare la soluzione reintegratoria senza alcun margine di discrezionalità dovendo considerarsi illegittimo costituzionalmente l'inciso «Può altresì applicare» contenuto nell'art. 18, comma 7, St. lav. (v. C. Cost. 59/2021 e 125/2022).

Ebbene, la Corte Suprema di Cassazione, in accoglimento delle censure mosse dal prestatore, ha osservato come: «per effetto dell'intervento della Corte costituzionale, il giudice, una volta accertata l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi - la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà̀ di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica».

Trasferimento del lavoratore che assiste familiare disabile grave

Cass. Sez. Lav., 11 novembre 2022, n. 33429

Pres. Tria; Rel. Michelini; Ric. B.F.; Controric H. S.p.A.

Lavoro subordinato – Tutela ex art. 33, comma 5, L.104/92 – Assistenza continuativa a familiare convivente disabile – Divieto di trasferimento – Limiti – Soppressione del posto – Altre ragioni aziendali – Rilevanza – Applicazione cd. obbligo di repêchage – Esclusione – Bilanciamento di interessi – Necessità

Il diritto il lavoratore che assista con continuità un familiare disabile ai sensi dell'art. art. 33, comma 5, L.104/92 a non essere trasferito senza il suo consenso opera in presenza di ordinarie esigenze tecniche, organizzative, produttive, legittimanti la mobilità, con il limite della soppressione del posto o di altre situazioni di fatto insuscettibili di essere diversamente soddisfatte. In tal senso non può esigersi che il datore rispetti integralmente il cd. obbligo di repêchage in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo posto che il trasferimento e il licenziamento sono due fenomeni ontologicamente diversi per natura e portata.

NOTA

Nel caso di specie il dipendente di una società veniva trasferito da Ravenna a Forlì, nonostante lo stesso assistesse con continuità un familiare in condizioni di invalidità grave ai sensi dell'art. 33 della L.104/1992. Il lavoratore impugnava il trasferimento sostenendone l'illegittimità, ma la Corte di merito investita della questione riteneva provate le ragioni organizzative, tecniche e produttive alla base del trasferimento e il fatto che le stesse non potessero essere diversamente soddisfatte (oltre che il rifiuto del dipendente stesso di ricoprire posizione alternativa a Ravenna). Conseguentemente veniva dichiarata la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento.

Contro tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore sostenendo, per quanto qui interessa, che il trasferimento senza consenso del titolare della tutela di cui sopra possa essere disposto solo in caso di soppressione del posto, con conseguente onere del datore di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore ad altre posizioni – anche inferiori e/o non equivalenti – nella sede in cui operava o in quella più vicina. In sostanza il lavoratore sosteneva che, anche in caso di trasferimento del soggetto che assista con continuità un familiare in condizioni di invalidità grave, dovesse essere soddisfatto dal datore di lavoro il cd. onere di repêchage, ordinariamente previsto dalla giurisprudenza per il caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La Cassazione ha respinto il ricorso rilevando che la disciplina in materia di licenziamento e quella relativa al trasferimento non possono essere sovrapposte essendo i due fenomeni ontologicamente diversi: conseguentemente l'onere di repêchage non è applicabile al trasferimento, neppure del soggetto che goda della particolare tutela di cui all'art. 33, comma 5, L. 104/1992.

Tale tutela, ha proseguito la Corte, secondo la quale il lavoratore che assiste il familiare disabile grave non può essere trasferito senza il suo consenso, prevale sulle ordinarie esigenze tecniche, organizzative e produttive del datore di lavoro, ma non può trovare applicazione nel caso in cui le esigenze datoriali dalle quali è scaturito il trasferimento non possano essere altrimenti soddisfatte (come nel caso di soppressione del posto o di incompatibilità ambientale). Poiché, ha concluso la Corte di cassazione, nel caso di specie la Corte di merito ha ritenuto provate siffatte esigenze, la legittimità del provvedimento è stata confermata.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©