Contrattazione

Paletti deboli nelle norme per i passaggi al regime forfettario

di Giampiero Falasca e Matteo Prioschi

L’aumento dei lavoratori autonomi potrebbe essere determinato dall’impossibilità di rinnovare i rapporti di lavoro a termine per effetto dei vincoli previsti dal decreto dignità. Sarebbe un effetto del tutto paradossale e certamente lontano dallo scopo perseguito dal legislatore: ma dal mercato arrivano segnali preoccupanti di questo fenomeno.

La questione interessa, in particolare, quella ampia platea di “esodati” dal mercato del lavoro per colpa del decreto dignità, platea che include i lavoratori a tempo determinato (sia nella forma ordinaria, sia in quella abbinata a un contratto di somministrazione) che hanno raggiunto l’anzianità di servizio massima di 12 mesi, e non hanno una valida “causale” per continuare il rapporto; i lavoratori che, pur avendo una causale, hanno raggiunto la durata massima di 24 mesi; i dipendenti che, pur avendo lavorato per periodi brevissimi, non possono essere riassunti dalla stessa azienda sempre per il problema della causale.

Per tutti questi lavoratori le imprese si trovano di fronte a un dilemma davvero difficile da risolvere: assumere a tempo indeterminato, oppure – se non ci sono le condizioni – lasciare a casa il lavoratore “anziano” (dal punto di vista professionale) e sostituirlo con un altro che ancora non ha raggiunto le soglie massime di durata previste dal decreto legge 87/2018.

Di fronte a questo dilemma, il lavoro autonomo rischia di diventare una soluzione che, per quanto irregolare (non si può utilizzare tale rapporto per mascherare prestazioni di lavoro dipendente), espone a rischi ridotti rispetto a quelli derivante dalla prosecuzione di un rapporto a termine. Piuttosto che ricorrere a una causale che, alla luce del Dl 87/2018, sarebbe agevolmente impugnabile, potrebbe risultare meno problematico simulare un rapporto di lavoro autonomo, nelle varie forme che può assumere: collaborazioni coordinate e continuativa, prestazioni occasionali, lavoro autonomo.

Resta da capire se le agevolazioni fiscali previste per i “forfettari”, cioè la possibilità di beneficiare di una tassazione al 15% su ricavi e compensi di valore fino a 65mila euro all’anno, possano fungere da ulteriore incentivo a questa fuga verso il lavoro autonomo.

Un dipendente, magari non di sua iniziativa ma invogliato dal datore di lavoro, potrebbe trovare conveniente passare all’attività autonoma perché in questo modo riesce ad avere un reddito netto più elevato, dato che beneficia dell’aliquota Irpef al 15% invece di quelle ordinarie che sono più elevate.

Il legislatore ha messo alcuni paletti volti a scongiurare questa trasformazione artificiosa dei rapporti di lavoro dipendente in attività autonome: è stato previsto che tale regime fiscale non può essere utilizzato dalle persone fisiche «la cui attività sia esercitata prevalentemente nei confronti di datori di lavoro con i quali sono in corso rapporti di lavoro o erano intercorsi rapporti di lavoro nei due precedenti periodi d’imposta, ovvero nei confronti di soggetti direttamente o indirettamente riconducibili ai suddetti datori di lavoro».

Quindi un lavoratore non si può dimettere, o essere licenziato, dall’azienda presso cui svolge l’attività e immediatamente dopo diventarne un collaboratore con tanto di regime fiscale agevolato. E non può nemmeno svolgere l’attività per un soggetto terzo ma comunque riconducibile all’ex datore di lavoro. Tuttavia questo limite potrebbe essere aggirato con alcuni espedienti – l’utilizzo di appalti di servizi fittizi stipulati con imprese costruire ad hoc per nascondere la prosecuzione del rapporto – che, pur avendo una tenuta giuridica incerta, potrebbero, come già detto, risultare comunque meno rischiosi rispetto al decreto dignità.

Un’agevolazione per i furbi potrebbe venire anche dalla recente circolare 9/2019 pubblicata dall’agenzia delle Entrate che, senza modificare questa impostazione di fondo, lascia una sorta di “periodo cuscinetto”, di un anno al massimo, in cui una persona può lavorare come autonomo nei confronti dell’ex datore di lavoro. Dato che la norma fa riferimento allo svolgimento di attività prevalente, la circolare precisa che il requisito della prevalenza va verificato alla fine dell’anno. Dunque una persona che si licenzia nel 2019, può applicare il regime forfettario ai compensi ricevuti come autonomo nel 2020. Se alla conclusione di tale anno, però, i ricavi saranno determinati in misura superiore al 50% dall’ex datore di lavoro, dal 2021 scatterà il regime fiscale ordinario. Un meccanismo che, di fatto, lascia mano libera per tutto il 2019 a chi vuole trasformare il rapporto di lavoro del dipendente in una prestazione autonoma.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©