Rapporti di lavoro

La contestazione disciplinare dopo il contratto a tutele crescenti

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di Alberto Bosco

L'applicazione delle sanzioni disciplinari, con particolare riguardo al licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, deve sempre avvenire nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Tale norma, per quanto qui interessa in modo specifico, dispone che
a) le norme disciplinari relative alle sanzioni e alle infrazioni in relazione alle quali possono essere applicate, nonché alle procedure di contestazione, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti (es. mensa, zona timbratura);
b) il datore non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa;
c) il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato;
d) fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a 4 ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di 10 giorni;
e) in ogni caso, non è possibile applicare i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale prima di 5 giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
Il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, con cui si disciplina il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti per i “nuovi assunti”, all'articolo 3, co. 1, prevede che – salvo che si tratti di recesso discriminatorio, nullo od orale - nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità (per le PMI, tale importo è dimezzato e non può mai superare le 6 mensilità).
Proprio alla luce di tale nuova disciplina il vizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare rileva al solo scopo di valutare la legittimità o meno del recesso ma non ha alcun effetto sulla disciplina sanzionatoria, che consiste, nella generalità dei casi, nella sola condanna al pagamento dell'indennità risarcitoria nelle misure di cui appena sopra.
A questa previsione, di carattere generale, si affianca un'ipotesi (articolo 3, co. 2), per così dire “eccezionale”, che riguarda solo i datori di lavoro di maggiori dimensioni e che si verifica solo se viene dimostrata in giudizio (da parte del dipendente) l'insussistenza del fatto materiale che è stato contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. In tal caso, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore alla reintegrazione nel posto e al pagamento di un'indennità risarcitoria (che non può essere superiore a 12 mensilità), commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ex articolo 4, co. 1, lettera c), del D.Lgs. 21 aprile 2000, n. 181.
La norma prevede poi che il datore di lavoro è condannato anche al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza sanzioni per omissione contributiva, e che il lavoratore possa chiedere l'indennità sostitutiva della reintegrazione (pari a 15 mensilità) e risolvere quindi il rapporto.
Precisato che la reintegra nel posto spetta non solo nel caso di insussistenza materiale della condotta addebitata ma anche ove il fatto esista ma sia stato commesso da un soggetto diverso rispetto a quello che è stato accusato, diviene di fondamentale importanza che, all'atto della redazione (per iscritto) della contestazione disciplinare (che deve essere tempestiva) - con la quale si descrive la condotta posta in essere dal lavoratore, e sulla quale si fonda il licenziamento - si eviti, ove possibile, ogni qualificazione giuridica della fattispecie e ci si attenga rigorosamente alla descrizione del fatto contestato.
Va infine ricordato che, in sede di eventuale contenzioso, a seguito dell'impugnazione del recesso da parte del dipendente nei termini previsti, anche a fronte del riconoscimento della legittimità del licenziamento da parte del giudice, il datore potrebbe comunque essere condannato a versare al lavoratore un'indennità (non soggetta a contribuzione) pari a 1 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità (la metà nel caso delle PMI) ove fosse accertata la violazione dell'obbligo di motivazione del recesso, come pure della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300/1970, sinteticamente richiamata in apertura.

Facsimile - Contestazione disciplinare

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