Rapporti di lavoro

Licenziamento, se non è per iscritto c’è sempre la reintegra

di Alberto Bosco

L'articolo 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, prevede che il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento al lavoratore (anche se dirigente); che la sua comunicazione deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato; e, infine, che il recesso intimato senza l'osservanza di tali disposizioni è inefficace. Concentrando la nostra attenzione unicamente sul recesso comunicato in forma orale (e non anche sull'omessa comunicazione dei motivi per iscritto), va subito evidenziato che si tratta di un comportamento da evitare, per scongiurare l'applicazione delle pesanti sanzioni previste.
Infatti, l'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ai comma da 1 a 3 (che si applicano a tutti i datori di lavoro, a prescindere dalla consistenza dell'organico, in virtù di quanto previsto dal successivo comma 8) equipara, dal punto di vista della tutela, il licenziamento dichiarato inefficace, perché intimato solo “a voce” alle ipotesi di recesso discriminatorio o nullo perché intimato in violazione di precise disposizioni di legge (es. tutela della maternità).
Ebbene, in questo caso, il giudice – a prescindere dal fatto che il datore occupi fino a (o più di) 15 dipendenti - ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel proprio posto di lavoro. Oltre alla reintegrazione, il giudice condanna il datore al risarcimento del danno subìto dal lavoratore, stabilendo un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative: in ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore a 5 mensilità della retribuzione globale di fatto. Al costo retributivo va poi aggiunto quello dei contributi previdenziali e assistenziali per il medesimo periodo.
Ma non finisce qui: infatti, il lavoratore – entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio – ha facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto, e che non è soggetta a contribuzione previdenziale. A seguito dell'ordine di reintegra, il rapporto è risolto se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall'invito del datore, salvo che abbia richiesto l'indennità sostitutiva di 15 mensilità.
Merita di essere evidenziato che analoga disciplina è contenuta anche nello schema di decreto legislativo che introduce le nuove disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutela crescenti, in attuazione di quanto previsto dalla legge 10 dicembre 2014, n. 183.
In merito all'indennità, le sezioni unite (Cass. 27 agosto 2014, n. 18353), hanno affermato che, se il lavoratore opta per l'indennità sostitutiva della reintegrazione, il rapporto di lavoro, con la comunicazione al datore di tale scelta, si estingue senza che debba intervenire il pagamento dell'indennità e senza che permanga - per il periodo successivo in cui la prestazione non è dovuta né può essere pretesa - alcun obbligo retributivo. Ne consegue che l'obbligo relativo al pagamento dell'indennità è soggetto alla disciplina della “mora debendi” in caso di inadempimento, o ritardo nell'adempimento, delle obbligazioni pecuniarie del datore di lavoro, con applicazione dell'art. 429, co. 3, cod. proc. civ., salva la prova, di cui è onerato il lavoratore, di un danno ulteriore.
In conclusione, va evidenziato che, secondo Cass. 8 gennaio 2009, n. 155, nell'ipotesi di controversia circa il “quomodo” della cessazione del rapporto (recesso orale o dimissioni) si impone un'indagine accurata da parte del giudice del merito, che consideri il complesso delle risultanze istruttorie; sicché, in mancanza di prova delle dimissioni, l'onere della prova concernente la forma scritta del licenziamento resta a carico del datore di lavoro.

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