Agevolazioni

Il cuneo fiscale torna in agenda: tre ostacoli sulla via del taglio

di Cristiano Dell’Oste e Valentina Melis

Il rapporto, quando va bene, è di uno a due. Oggi un operaio metalmeccanico che guadagna 23.290 euro all’anno (quasi 1.800 euro netti al mese) ne costa alla sua azienda poco meno di 50mila. Per l’esattezza 49.445. In pratica, il cuneo fiscale e contributivo arriva al 52,9%, fra trattenute in busta paga e oneri a carico del datore di lavoro. È un cronico difetto del sistema italiano, che il confronto in atto tra il Movimento 5 stelle e il Partito democratico ha riportato in cima all’agenda politica.

Il record italiano

L’Ocse ha rilevato per il nostro Paese un’incidenza media del “cuneo” pari al 47,9 per cento. Un record negativo secondo solo a Belgio e Germania, tra gli Stati dell’organizzazione. Ma le simulazioni del Sole 24 Ore del Lunedì rivelano che la percentuale può essere ben superiore, arrivando al 54,1% per un impiegato nel commercio con una retribuzione annua lorda (Ral) di 44mila euro. E addirittura al 57,5% per un assistente di cantiere con una Ral di 50mila euro. Con differenze che dipendono dal peso variabile dei contributi Inail e della detrazione Irpef per lavoro dipendente, oltre che dall’articolazione delle voci contributive minori (enti bilaterali, fondi di assistenza e così via).

L’obiettivo di ridurre il cuneo, per adesso, sembra condiviso. Entrare nei dettagli, però, non sarà facile. Per almeno tre motivi, che riguardano la copertura finanziaria, le finalità dell’operazione e la sostenibilità previdenziale.

Le misure possibili

Finora sono circolate diverse ipotesi. Nelle scorse settimane il Movimento 5 stelle aveva proposto di “compensare” l’introduzione del salario minimo con un taglio del cuneo fiscale. Appena due giorni prima che Matteo Salvini gli ritirasse la fiducia, il premier Giuseppe Conte aveva indicato come prioritario un intervento sul cuneo «a vantaggio di lavoratori e pensionati» per «liberare risorse effettive a favore delle buste paga». In ambienti del Partito democratico, invece, si è parlato di una riduzione di un punto percentuale all’anno per cinque anni. Oppure di un intervento sulla falsariga del bonus da 80 euro, ma destinato ai contribuenti con redditi fino a 55mila euro. Tra gli scenari possibili ci sono anche sconti più selettivi legati alle nuove assunzioni o una sforbiciata dei contributi minori che gravano sulle imprese, a partire dall’1,61% destinato a finanziare la Naspi.

I nodi da sciogliere

Dalla teoria alla pratica, gli ostacoli sulla via del taglio sono tre.

1. Le risorse. Una volta evitato il rincaro dell’Iva (23,1 miliardi) quanto denaro rimarrà per il cuneo? Interventi a tappeto costano molto e rischiano di tradursi in pochi euro a contribuente.

Il bonus 80 euro impegna 9,5 miliardi all’anno (dati 2017) e va a 11,7 milioni di lavoratori con un reddito tra 8mila e 26mila euro. Nella fascia fino a 55mila euro ci sono altri 4,5 milioni di contribuenti. Con tutta evidenza, un intervento significativo a loro favore costerebbe alcuni miliardi.

2. La sostenibilità previdenziale. La fetta più grande del cuneo è costituita dai contributi previdenziali (33% a carico dell’azienda e 9,19% del dipendente). È chiaro che incidere su questa voce può rivelarsi un boomerang per i futuri assegni pensionistici, proprio mentre l’Ocse prevede che nel 2050 in Italia ci saranno più pensionati che lavoratori.

È anche per questa ragione che si è ipotizzato di tagliare i contributi minori o destinati a finanziare prestazioni accessorie, come la Naspi, che potrebbero essere messi a carico della fiscalità generale.

3. Le finalità dell’operazione. A parità di costo per lo Stato, i tagli non sono tutti uguali. Un conto è ridurre l’Irpef per aumentare il “netto in busta paga” (per tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori e, si spera, aumentare la domanda interna). Un altro è tagliare gli oneri a carico del datore di lavoro (per difendere la competitività delle aziende e agevolare nuove assunzioni).

Vedi il grafico: La simulazione

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