Rapporti di lavoro

Assenze che allungano il periodo di prova: l’elenco non è tassativo

di Enzo De Fusco e Giuseppe Maccarone

Le assenze per malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità allungano il periodo di prova, ma non sono tassative. La circolare 19 interpretativa del decreto Trasparenza (Dlgs 104/2022), diffusa martedì scorso dal ministero del Lavoro (si veda anche il Sole 24 Ore di ieri) si esprime così sul patto di prova e non sembra in linea con la norma.
Il problema riguarda l'effettivo svolgimento della prova instaurata tra le parti per verificare la convenienza della collaborazione reciproca; un concetto che postula la necessaria identificazione degli eventi non preventivabili che sospendono il rapporto di lavoro e anche lo svolgimento dell'esperimento.
Al contrario, l'articolo 7, comma 3, del Dlgs 104/2022 ha previsto che in caso di sopravvenienza di specifici eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell'assenza.
La disposizione, chiara nella sua formulazione, non sembra dare adito a dubbi: il patto di prova è sospeso solo dagli eventi da essa tassativamente previsti. Nel merito si evidenzia che il legislatore cita le cause sospensive e, vista la tassatività dell'elencazione, chiude le porte a ogni altra interpretazione estensiva.
Il Ministero, tuttavia, esprime un parere diverso. Nel documento, infatti, afferma che l'indicazione delle assenze non ha carattere tassativo e vi rientrano anche tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, fra cui i congedi e i permessi da legge 104/1992.
Dalla lettura della circolare si evince che il Ministero basa la scelta ritenendola coerente con la direttiva e conforme a due sentenze della Corte di Cassazione.
Quanto al primo punto si rileva che la direttiva Ue 2019/1152 in un passaggio statuisce che il periodo di prova dovrebbe essere differito in misura corrispondente se il lavoratore si assenta dal lavoro durante la prova, per esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di verificare l'idoneità del lavoratore al compito in questione. Inoltre, in un altro punto della direttiva stessa, si legge che gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell'assenza. Proprio nel rispetto di questa indicazione il legislatore italiano ha fatto una precisa scelta, vale a dire quella contenuta nel comma 3 dell'articolo 7 sopra richiamato. La norma non può essere cambiata utilizzando uno strumento come la circolare, introducendo un principio che espone a un rischio concreto le aziende e, peraltro, è anche peggiorativo per il lavoratore poiché, di fatto, ne incrementa la precarizzazione.
Quanto, poi, al riferimento alle sentenze della Cassazione è superfluo sottolineare che le stesse giudicano casi di specie e costituiscono un orientamento che il legislatore può osservare per, eventualmente, modificare una o più disposizioni con una norma di pari rango.
Il Ministero, purtroppo, non fornisce alcun orientamento sul comma 2 dell'articolo 7, che dispone un riproporzionamento della durata del periodo di prova per i contratti a tempo determinato. Non è questo un concetto nuovo ma essendo, ora, codificato in legge assume un'importanza fondamentale. Infatti, non stabilendo un periodo di prova ritenuto congruo e interrompendo il rapporto di lavoro per mancato superamento dello stesso, il datore si espone a un forte rischio. L'assenza di formulazione delega il compito alla contrattazione collettiva, che dovrà regolamentare anche tale aspetto.

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