Un giorno in meno per un lavoro in più
A forza di rincorrere il discorso distopico sulla tecnologia – che del lavoro umano ne farebbe un sol boccone – e sulle proprietà combinatorie della quarta rivoluzione industriale, rischiamo di distrarci dal contrasto agli squilibri strutturali che marcano il nostro mondo del lavoro. Tre sono fondamentali: una partecipazione al lavoro bassa in rapporto alla popolazione e alle sue aspettative; un alto tasso di disoccupazione giovanile che degrada nel neet apartheid; un'occupazione femminile, cresciuta, ma ancora lontana da standard europei. La questione meridionale è l'esasperazione di questi squilibri. Gli allarmismi sono fuori luogo in tema di nuove tecnologie, quarta rivoluzione industriale e destino del lavoro se non comportano un atteggiamento costruttivo per la soluzione del problema. Sul lungo periodo, è probabile che un ambiente “vestito” d'intelligenza artificiale e con capacità tecnologiche combinatorie porterà a una riduzione del lavoro necessario, seppure con qualche eccezione come per i servizi di cura alla persona, per i settori creativi e innovativi, per le attività in team. Sul lungo periodo, niente sarà come prima ed è probabile che in futuro possa porsi il tema di un dividendo di cittadinanza. Stiamo parlando di un futuro plausibile di qui a 20 anni. Le previsioni del bestseller di Martin Ford, ad esempio, anticipano troppo l'avvento di una tecno-economia con straordinaria capacità di “computerizzare” il lavoro. Lo aveva già fatto Jeremy Rifkin nel 2002 prospettando la fine del lavoro umano. Fortunatamente, tutto questo non accadrà domani, anche se ormai le economie avanzate indossano sempre più tecnologia come matrice di produttività e crescita. Con quali tempi e come accadrà dipenderà da come governeremo l'avvento dell'economia e della società 4.0. Sarebbe sbagliato arrendersi al determinismo tecnologico nell'immaginare il nostro futuro. Dobbiamo piuttosto contribuire a costruirlo.
La governance del mercato del lavoro, tra governo e parti sociali, sta imparando a dare uno sguardo alla frontiera tecnologica e alle sue problematiche senza distogliere l’attenzione dai forti squilibri odierni del mercato del lavoro. Il Governo sta realizzando Industria 4.0 e si prepara a Lavoro 4.0, con il ministro Padoan che si sbilancia a favore del lavoro e dei giovani, con tutta la squadra ministeriale alla ricerca di soluzioni da mettere a punto possibilmente prima del G7 a Torino. Tra le parti sociali si discute di Lavoro 4.0 e la stessa Confindustria si è spesa per favorire l’occupazione giovanile con l’abbattimento del cuneo fiscale, misura non sgradita ai ministeri economici. Da queste colonne, Alberto Orioli ha sottolineato l’urgenza che cuneo, scuola e apprendistato entrino nell’agenda politica per dare tre shock utili alla problematica giovanile. C’è anche l’annoso problema dei giovani over-skilled, vittime di un mismatch importante nel mercato del lavoro. In tal senso, Industria e Lavoro 4.0 è un asse d’intervento cruciale per il nostro futuro a medio termine.
Si può fare qualcosa in più per il nostro mercato del lavoro, come sperimentare misure solidali tra vecchi e giovani in grado di sciogliere il rigido divario generazionale tra insider e outsider? Qualcosa che somigli a un patto?
Nel breve-medio periodo, un riequilibrio selettivo del nostro mercato del lavoro e una spinta al lavoro aggiuntivo dovrebbero costituire la direttrice migliore da seguire per la governance del mercato del lavoro e per prepararci agli effetti tecnologici di lungo periodo (disoccupazione tecnologica alla Keynes: cosa faranno tanti disoccupati per vivere?). Bastano poche cifre per istruire il problema. Il nostro tasso di occupazione è del 57,8%, circa 10 punti inferiore a quello medio dell’Eurozona. Il tasso di disoccupazione giovanile è del 35,4%, ma nell’Eurozona la media è scesa sotto il 20%. Stessa distanza siderale tra tasso di occupazione femminile italiano (48,8%) e quello medio Ue al 62%. Questi squilibri sono conduttori di disuguaglianze socioeconomiche, argomento troppo generico se non specifica che la distanza tra più anziani e giovani è vertiginosamente aumentata dal 2000, quella tragicomica tra lavoro maschile e femminile non è stata scalfita e quella storica meridionale rischiava la totale dimenticanza se non fosse intervenuto, nella generale distrazione, il Dl del ministro De Vincenti. La complessità di un intervento su questi tre divari, al contempo, cercando di incrementare occupazione, comporta che la governance del mercato del lavoro abbia una forte impronta inclusiva e solidale, che coinvolga sistema educativo, formazione e strutture per l’impiego.
Mi limiterei, tra le altre proposte di cui si parla, ad avanzare un’idea in bozza, appena circostanziata, per cui volontarietà del lavoratore e negoziazione ne siano criteri direttori, anche perché s’interverrebbe sull’occupazione strutturata esistente. In linea di massima, si dovrebbe consentire ai lavoratori, indicativamente, tra i 55 e i 65 anni di poter chiedere la riduzione della settimana lavorativa di 1 giorno (4.G) al fine di creare nuova occupazione giovanile e femminile. Ogni 4 lavoratori che sceglieranno tale opportunità (per solidarietà, per il proprio tempo libero), si potrebbe creare, via negoziazione, un posto di lavoro con settimana 4G per un giovane tra i 20 e i 35 anni, con priorità per le giovani donne. Questa riduzione della settimana lavorativa a 4.G dovrebbe gravare con diversa intensità sulle risorse pubbliche, che, per incentivare il turn over negoziato e programmato e sostenere la capacità di consumo dei soggetti coinvolti, dovrebbero colmare il delta del 20% di retribuzione persa, in entrata o in uscita, per la giornata in meno. Come? Con meno tasse a gravare in busta paga, agendo sul cuneo fiscale, come per altri versi s’intende fare sui giovani. Qui si propone di estendere questa compensazione ai lavoratori più anziani che optino per la riduzione a 4.G. La platea potenzialmente coinvolta è attorno ai 5 milioni di lavoratori, ma un’ipotesi prudenziale prevede che la settimana 4.G sia scelta a breve medio termine da almeno 2 milioni di occupati più anziani, dando luogo a 500mila posti di lavoro aggiuntivi (giovani e donne), a tempo indeterminato, con una corsia preferenziale per le regioni meridionali. Nell’eventualità, alla politica spetta il compito di testare perimetrazione e fattibilità di questa idea (la platea dei coinvolti, entità e durata della riduzione del cuneo fiscale, ecc.). Essa insiste nel difficile campo di tensione tra insider e outsider, ma è scritta sotto dettatura dalla geometria del buon senso, che preferisce dare lavoro a giovani e donne e far lavorare meno gli occupati più anziani. È anche un atto di solidarietà, di reciprocità, un patto tra due generazioni oggi sempre più lontane l’una dall’altra. A volte basta arrendersi alla semplicità che sempre ci supera, non solo nei ragionamenti.
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di Filippo Maria Giorgi