Rapporti di lavoro

Tra i giovani crolla il senso di appartenenza all’azienda

di Cristina Casadei

Se dal mercato del lavoro arrivano grandi segnali di dinamismo, non è senza un impatto sull’organizzazione del lavoro e sulla gestione delle risorse umane. Semplicemente perché, se in azienda qualcuno si dimette, il suo carico di lavoro va redistribuito, e con i livelli di skills mismatch del nostro paese non è facile trovare subito un sostituto. È invece facile che si crei un effetto a catena su chi resta o di smarrimento dei punti di riferimento. Tra chi ha un contratto a tempo indeterminato, nei primi sei mesi di quest’anno ci sono state 624.047 dimissioni volontarie, effetto del recupero delle mancate dimissioni del 2020, come dice l’Inps a causa della pandemia (si veda altro pezzo in pagina), oppure effetto delle riflessioni che sono state innescate negli ultimi due anni sul senso del lavoro e i nuovi equilibri delle persone? Sicuramente c’è un crollo del senso di appartenenza all’azienda, forte soprattutto nelle giovani generazioni, millennials, generazione x e z. E questo per i manager delle risorse umane comincia a essere un problema. La great resignation che fino all’anno scorso molti hanno liquidato come un fenomeno mediatico e americano, in realtà non è senza impatto in azienda, come ci dicono le interpretazioni fatte sia dagli hr manager che dai candidati, in parte già lavoratori, in parte no, che Randstad ha sondato nella sua Hr trends & salary survey, realizzata in collaborazione con l’alta scuola di psicologia Agostino Gemelli dell’Università Cattolica. I primi sono un campione di 215, i secondi poco meno di mille (963).

Manager e lavoratori a confronto

Cosa dicono i manager? Nel 44% delle aziende le dimissioni sono sicuramente aumentate negli ultimi 12-18 mesi e hanno riguardato soprattutto i millennials, ossia chi oggi ha tra 40 e 25 anni: nel 76% dei casi, secondo quanto dicono le aziende sono stati loro a dimettersi, nel 28% la generazione X, nel 27% la generazione Z. I baby boomers rappresentano appena il 2%, per ragioni culturali ma anche perché quelli che ancora lavorano sono per la gran parte alle soglie della pensione. Secondo quanto spiegano i manager le dimissioni volontarie sono state causate da insoddisfazione per gli incarichi (47%), da mancanza di interesse negli incarichi stessi (34%) e da mancanza di obiettivi chiari e condivisi (30%). Non senza conseguenze sull’organizzazione. Le dimissioni, infatti, per un’azienda su due impattano sui livelli di performance e anche sul clima interno, soprattutto per il sovraccarico di lavoro (32%), ma anche per il desiderio di emulazione (18%), la perdita di punti di riferimento (18%) e la demotivazione (17%). Dalle risposte dei candidati arrivano delle sostanziali conferme. Maria Pia Sgualdino, head of Randstad Professionals, spiega che sul tema delle dimissioni c’è «una certa omogeneità nelle risposte tra HR e candidati. Ma anche una forte concentrazione del fenomeno tra i più giovani. Le profonde differenze tra senior e più giovani richiamano alla necessità di segmentare le strategie HR per generazioni: bisogna essere consapevoli che classi di età diverse hanno esigenze diverse e mostrarsi disponibili ad ascoltare punti di vista e bisogni differenti, superando la logica del “si è sempre fatto così”».

Le azioni di contrasto

Come si corre ai ripari? Il 70% delle aziende che ha sperimentato un aumento delle dimissioni volontarie ha messo in atto azioni per trattenere le risorse, che nel 51% dei casi sono giudicate in linea con le trasformazioni del mercato. Fra le principali azioni ci sono i percorsi di formazione (30%), i momenti di ascolto e condivisione delle problematiche (29%), la maggiore attenzione alle relazioni interne (27%), i passaggi di ruolo/cambi di mansione (25%). Dalle risposte dei lavoratori le possibili soluzioni sarebbero un’adeguata retribuzione, opportunità di crescita e di carriera e percorsi di formazione.

Il benessere organizzativo

La flessibilità degli orari e dei luoghi di lavoro rappresenta una delle principali soluzioni per favorire il benessere lavorativo. Solo un po’ meno della metà dei manager riconosce alla propria azienda la capacità di garantire senso di appartenenza (47%) e conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro (47%). Rispetto all’anno scorso sono in calo i manager che riconoscono un buon livello di benessere e serenità nella propria azienda: sono uno su tre, mentre in passato erano la metà. In un contesto di mismatch permanente, il malessere organizzativo rende più difficile attirare il ”candidato giusto”, soprattutto tra i più giovani. Solo il 32% delle aziende sono attrattive per i millennials e il 27% per la generazione Z. Diverse le strategie messe in campo: il coinvolgimento nella mission aziendale nel 33% dei casi, le opportunità di carriera/crescita nel 38%. Una retribuzione adeguata nel 37%. Sicuramente ciò che è cambiato rispetto al passato è il senso di appartenenza soprattutto nelle generazioni più giovani: solo il 15% della generazione Z ha un legame intenso con la propria azienda, a fronte del 64% dei baby boomers. Per favorirlo quasi la metà degli hr manager scelgono 3 strade: una (44%) è la via della fiducia e del rispetto, la seconda è la visione chiara della strategia aziendale (44%) e la terza (42%) è la percezione di essere parte di un progetto più grande. La ricerca di Randstad evidenzia «come il tema del benessere, sia fisico che mentale, sia molto sentito dalle persone - riflette Gualdino -. In particolare per le nuove generazioni, il lavoro non è più solo legato alla necessità funzionale, ma deve generare benessere emotivo per inserirsi nel progetto di vita. Le persone oggi non sono più disposte a sopportare ambienti di lavoro poco “sani”, dal punto di vista fisico e emotivo, chiedono equilibrio tra vita e lavoro». Ecco perché per le aziende è necessario diventare «umanocentriche, - conclude Gualdino - e prendere in considerazione i diversi bisogni delle persone, considerando come priorità anche gli aspetti più “soft”, di benessere psico-fisico».

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