Rapporti di lavoro

Costo del licenziamento, le proposte per agganciarlo al mercato

di Antonio Carlo Scacco

Il firing cost (costo del licenziamento) è quanto il datore di lavoro sarebbe disposto a pagare per interrompere discrezionalmente un rapporto di lavoro (at will) ovvero, in altri termini, il suo massimo grado di tollerabilità alla prosecuzione del rapporto.

Sotto altro punto di vista si può impropriamente definire anche come il costo che il datore sarebbe costretto a pagare nella eventualità che la mancanza di motivazione del recesso, e quindi la sua illegittimità, sia accertata a seguito di contenzioso. La problematica, in entrambi i profili, investe la determinazione concreta del firing cost. Svariate teorie sono state proposte allo scopo. Ad esempio quella di Ichino riferita al costo opportunità attualizzato, per cui il datore di lavoro licenzierebbe il dipendente allo scopo di evitare il danno economico derivante dalla prosecuzione del rapporto (perdita attesa), in termini di perdita del beneficio che sarebbe derivato dalla migliore delle alternative possibili alla sostituzione del lavoratore. Sotto il profilo normativo il recente decreto legislativo 23/2015 (attuativo del Jobs Act) ha sostanziamente scelto la strada di legare l'indennità dovuta al lavoratore a seguito di licenziamento illegittimo alla anzianità di servizio (tralasciamo il caso della reintegrazione): più tempo il lavoratore sta col datore, più elevata sarà la indennità spettantegli a seguito di licenziamento immotivato.
Tutte queste soluzioni non paiono, per un verso o per l'altro, soddisfacenti. Una proposta, avanzata dal responsabile economico della Lega Nord Claudio Borghi Aquilini, è quella di parametrare il firing cost alle condizioni occupazionali del mercato del lavoro. L'assunto parte da semplici considerazioni. Quale è, infatti, il danno provocato al lavoratore dal comportamento del datore che, improvvisamente e senza ragione, lo priva del lavoro? Le risposte potrebbero essere svariate ma la più soddisfacente sembra essere questa: il danno è equivalente alla fatica/pena rispettivamente spesa/sostenuta dal lavoratore per trovare un altro impiego equivalente a quello perduto, ivi incluso (nella nozione di fatica/pena) il tempo necessario a trovarlo (e quindi la mancanza di reddito da lavoro patita nel frattempo). Se questa può essere ipotizzata come soddisfacente ragione economica del danno subito dal lavoratore allora è evidente che tale danno sarà tanto minore quanto più le condizioni generali del mercato occupazionale (e congiunturali) siano positive (e tanto maggiore nelle condizioni opposte). In condizioni di congiuntura e mercato occupazionale favorevoli, infatti, la fatica/pena impegnate per (ri)trovare un posto di lavoro saranno minori e, conseguentemente, il firing cost sarà esso stesso minore (in teoria tendente a zero in condizioni di piena occupazione).
Una soluzione del genere prospetta delle conseguenze degne di attenzione, anche sotto il profilo operativo. Il firing cost potrebbe essere legato ad un “indice di reimpiego” basato su dati oggettivi rilevati statisticamente e concernenti il tasso di disoccupazione riferito, in un certo arco temporale, al territorio, al settore economico, alla classe di età del lavoratore ec. Tale indice potrebbe agevolmente incorporare, in aggiunta, altre variabili di interesse quali il tempo medio necessario al lavoratore a reperire un reimpiego equivalente (sempre riferito al territorio, classe di età, settore economico ec.). Un firing cost così strutturato sarebbe determinato come segue:
FC = Ultima retribuzione normale percepita x indice reimpiego
Ma un firing cost così congegnato costituirebbe anche una ottima misura anticiclica perché scoraggerebbe i licenziamenti laddove molto alto (territori con alto tasso di disoccupazione, settori in crisi, disoccupazione giovanile ec.) mentre invece garantirebbe un elevato turn-over o flessibilità nelle fasi congiunturali positive contrassegnate da alti tassi di occupazione (essendo il costo dei licenziamenti molto basso).

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