Ora si sblocca Rita, la rendita finanziata dai fondi integrativi
Il Dpcm firmato ieri dal presidente del Consiglio dei ministri è un ulteriore passo avanti per l’operatività dell’Ape volontaria (e quella aziendale che ne costituisce un derivato), ma il percorso non si è ancora concluso (si veda articolo a fianco).
In compenso dovrebbe dare il via alla Rita (rendita integrativa temporanea anticipata), cioè l’anticipo finanziato con l’eventuale capitale accumulato in una forma di previdenza complementare. La Rita, infatti, non è un prestito, ma l’erogazione anticipata, rispetto all’età della pensione, di tutta o parte della prestazione garantita dal secondo pilastro, quindi non si devono attendere le convenzioni con banche e assicurazioni. Però per ottenerla è necessario avere la certificazione dei requisiti anagrafici e di decorrenza dell’assegno previdenziale rilasciata dall’Inps. E l’istituto di previdenza aveva precisato in passato che anche per la certificazione dei requisiti di accesso alla Rita si sarebbe dovuto attendere il Dpcm relativo all’Ape. Con la pubblicazione e l’entrata in vigore dello stesso, quindi, potrebbe partire la certificazione almeno per l’anticipo finanziato con la pensione complementare.
I requisiti di base, del resto, sono uguali: almeno 20 anni di contributi, almeno 63 anni di età e maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia entro 3 anni e 7 mesi. Per l’importo mensile della Rita la norma non prevede minimi e massimi, lasciando flessibilità agli operatori del secondo pilastro, ovviamente a fronte del capitale accumulato da ciascun iscritto.
L’Ape volontaria, invece, deve essere di almeno 150 euro al mese. L’importo massimo concedibile è una percentuale della pensione che varia in base alla durata dell’anticipo: 90% se inferiore a 12 mesi; 85% da se compreso tra 12 e 24 mesi; 80% se compreso tra 24 e 36 mesi; 75% se superiore a 36 mesi. A questo riguardo il Dpcm non è chiaro, perché non si capisce se con 24 mesi di durata il tetto sia dell’80 o dell’85 per cento.
Nel determinare l’importo massimo concedibile, però, si deve tener presente anche che la futura pensione, al netto della rata di restituzione dell’Ape, non potrà essere inferiore a 1,4 volte il trattamento previdenziale minimo (cioè quest’anno 702,65 euro) e la somma di tale rata, con eventuali altre rate per prestiti, non potrà essere superiore al 30% della pensione, al netto di eventuali rate per debiti erariali e di assegni divorzili, di mantenimento dei figli, e di separazione. L’importo di questi ultimi deve essere indicato dall’interessato al momento della richiesta dell’Ape.
Oltre a ciò l’istituto di credito scelto dal lavoratore tra quelli aderenti alla convenzione effettuerà una valutazione dell’operazione e potrà rifiutare il finanziamento. In tal caso si potrà presentare una ulteriore domanda.
Nonostante il quadro normativo ponga diversi vincoli per evitare il sovraindebitamento del futuro pensionato, l’articolo 10 del Dpcm prevede che, in caso di incapienza della pensione mensile rispetto alla rata di restituzione del prestito, l’Inps trattenga l’importo massimo consentito dalla legge, recuperando successivamente a rate la parte rimanente.