Rapporti di lavoro

Co.co.co senza compenso minimo

di Aldo Bottini

Esistono oggi limiti alla libertà delle parti di determinare il compenso per le collaborazioni coordinate e continuative? O, per dirla in altro modo, ci sono dei parametri di riferimento per stabilire tali compensi? Il tema, in passato, si è posto soprattutto per una particolare categoria di collaborazioni coordinate e continuative, quelle a progetto, oggi abolite.

Già la legge Biagi (Dlgs 276/2003), nell’istituire il contratto a progetto, disponeva che per tale forma contrattuale il compenso dovesse essere «proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito» e dovesse «tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto».

La legge Fornero (92/2012) si è spinta ancora più in là, imponendo, per i collaboratori a progetto, l’ag gancio dei compensi alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi dei lavoratori subordinati per «mansioni equiparabili» o figure professionali di analogo profilo.

L’abolizione del contratto a progetto per opera di uno dei decreti del Jobs act (Dlgs 81/2015) ha travolto queste norme. Nel contempo, non è stata esercitata la delega contenuta, all’articolo, 1 comma 7, lettera g), della legge 183/2014 in materia di compenso orario minimo. Quest’ultima disposizione delegava il governo a introdurre un compenso minimo non solo per i lavoratori subordinati, nei settori non regolati da contratti collettivi, ma anche per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

Il risultato è che oggi non esiste una norma espressa che imponga un compenso minimo per i collaboratori coordinati e continuativi. Il corrispettivo della prestazione è, dunque, liberamente determinabile dalle parti. Tuttavia, a ben vedere, un limite potrebbe essere ravvisato nelle nuove disposizioni introdotte dal Jobs act degli autonomi (legge 81/2017). L’articolo 3 di tale testo normativo, infatti, prevede l’applicazione ai rapporti contrattuali di lavoro autonomo non imprenditoriale (quindi anche alle collaborazioni coordinate e continuative) delle disposizioni in materia di abuso di dipendenza economica (articolo 9 della legge 192/1998), in quanto compatibili. Si tratta di una normativa normalmente applicabile nei rapporti tra imprese, a tutela del contraente che si trovi a subire una situazione di dipendenza economica.

La dipendenza economica si valuta tenendo conto anche della reale possibilità, per la parte che abbia subito l’abuso, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. La norma vieta l’abuso dello stato di dipendenza economica (che può consistere anche «nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose») e sanziona di nullità il patto attraverso il quale l’abuso si realizza.

Alcuni commentatori, dopo l’entrata in vigore della legge, hanno osservato che tra le possibili forme di abuso di dipendenza economica, e in particolare tra le condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, potrebbe rientrare anche un compenso inadeguato. Naturalmente dovrebbe trattarsi di clamorosa (e manifesta) inadeguatezza. Se così fosse, la clausola che determina il compenso inadeguato potrebbe essere colpita da nullità.

Rimossa la clausola nulla, si realizzerebbe una situazione analoga a quella di assenza di un corrispettivo pattuito, prevista dall’articolo 2225 del codice civile. In questo caso, dispone la norma codicistica, il corrispettivo, se non può essere determinato secondo le tariffe professionali o gli usi, è stabilito dal giudice in relazione al risultato ottenuto e al lavoro normalmente necessario per ottenerlo. Per questa via, dunque, si arriverebbe a ipotizzare una rideterminazione giudiziale del compenso, una sorta di “giusta retribuzione” per i collaboratori autonomi.

Si tratta però di una strada tutt’altro che agevole, non fosse altro per la difficoltà, al di là di casi estremi, di identificare, in aggiunta alla situazione di dipendenza economica, un’inadeguatezza del compenso tale da poter essere considerata un abuso.

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