Rapporti di lavoro

In caso di abusi scatta la truffa ai danni dello Stato

di Elsa Mora e Valentina Pomares

L’abuso dei permessi previsti dalla legge 104/1992 può comportare per il lavoratore conseguenze disciplinari ma anche di carattere penale.

In relazione al rapporto di lavoro, la giurisprudenza di legittimità ha pacificamente sancito l’applicabilità del licenziamento in caso di abusi: con l’ordinanza 18293 dell’11 luglio 2018, la Corte ha dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa di una lavoratrice che aveva abusato del diritto a ottenere permessi in base alla legge 104/1992, essendo stata rintracciata in una località turistica con la propria famiglia, proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto fruire del permesso per assistere la madre.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato in più occasioni che le condotte di abuso più gravi non solo ledono in modo definitivo il vincolo fiduciario che deve presiedere il rapporto tra datore e lavoratore, ma violano anche i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro, realizzando un comportamento di manifesto disvalore morale e sociale (così Cassazione, sezione lavoro, sentenze 29613 dell’11 dicembre 2017 e 17968 del 13 settembre 2016).

In particolare, è stato affermato che anche il dedicarsi solo temporaneamente all’attività di assistenza palesa un chiaro disinteresse del lavoratore per le esigenze aziendali, idoneo a legittimare un licenziamento per giusta causa (così Cassazione, sentenza 5574 del 22 marzo 2016).

La Cassazione ha avuto modo di precisare che queste condotte configurano anche un abuso di diritto, sia nei confronti del datore di lavoro - che facendo affidamento sulla buona fede del dipendente che richiede il permesso, è ingiustamente privato della prestazione lavorativa - sia nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, rispetto al quale la condotta integra un’indebita percezione dell’indennità economica e uno sviamento dell’intervento assistenziale (Cassazione, sezione lavoro sentenze 9217 del 6 maggio 2016, e 4984 del 4 marzo 2014 e Tribunale di Genova, sentenza del 21 ottobre 2015). La massima sanzione disciplinare in questi casi sarebbe legittimata dall’inaccettabile comportamento messo in atto dal lavoratore fruitore del permesso, il quale, non utilizzando quest’ultimo per scopi assistenziali, riversa sulla collettività il costo delle proprie esigenze personali, giacché il trattamento economico erogato è anticipato dal datore e successivamente rimborsato dall’ente previdenziale (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 8784 del 30 aprile 2015).

Le stesse condotte potrebbero anche integrare gli estremi del reato di truffa ai danni dello Stato, in base all’articolo 640 del Codice penale. Questi episodi non potrebbero essere considerati fatti di particolare tenuità, poiché lo sviamento dell’intervento assistenziale, oltre a gravare sulla collettività, costituirebbe una strumentalizzazione dello stato di salute di una persona affetta da handicap. Sulla base di questi principi, la Suprema corte ha condannato - in sede penale - un lavoratore trovato all’estero in viaggio di piacere nei giorni di permesso (Cassazione, sezione penale, sentenza 54712 del 1° dicembre 2016).

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