Rapporti di lavoro

Stipendi «limitati» nel sociale

di Gabriele Sepio e Glauco Zaccardi

Proporzionalità nella retribuzione dei lavoratori e regole meno stringenti in caso di assunzione di soggetti svantaggiati. Sono queste alcune delle novità previste dal Dlgs 112/2017 (emanato nell’ambito della riforma del terzo settore) e dalle ulteriori modifiche introdotte dal relativo decreto correttivo (approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri lo scorso 21 marzo).

All’impresa sociale, in linea con quanto previsto per gli altri enti del terzo settore, è vietata, infatti, la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni/compensi superiori del 40% rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali firmati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, dalle loro rappresentanze sindacali aziendali o dalla rappresentanza sindacale unitaria (articolo 51 del Dlgs 81/2015). Compensi in misura superiore, infatti, sono considerati distribuzione indiretta di utili, con l’unica eccezione per l’ipotesi in cui un diverso trattamento economico si renda indispensabile per acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle attività di interesse generale degli interventi e prestazioni sanitarie, della formazione universitaria e post-universitaria o della ricerca scientifica di particolare interesse sociale (articolo 3, comma 2, lettera b del Dlgs 112/2017).

Allo stesso modo, per evitare l’adozione di politiche retributive fortemente squilibrate tra il gruppo dirigente e gli altri lavoratori è previsto, come per gli altri enti del terzo settore, un vincolo ulteriore: le differenze retributive tra i dipendenti devono essere contenute all’interno di un rapporto uno a otto, calcolato sulla base della retribuzione annua lorda (Ral). In un’ottica di trasparenza nei confronti dei lavoratori e dei terzi, il rispetto di tale parametro dovrà essere documentato nel bilancio sociale dell’impresa. Con la precisazione, si legge nel decreto correttivo, che anche in questo caso si potrà derogare ove sia necessario acquisire specifiche competenze (sempre nei settori di interesse generale delle prestazioni sanitarie, della formazione universitaria e post-universitaria e della ricerca scientifica di particolare interesse sociale).

Novità anche sul piano delle condizioni contrattuali. È richiesto, in ogni caso, un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi (articolo 51 del Dlgs 81/2015) stipulati da parti sindacali rappresentative (la precedente normativa conteneva un generico riferimento ai «contratti e accordi collettivi applicabili»). L’intento è evitare che possano nascondersi, dietro alla veste sociale dell’impresa, fenomeni di abuso e disuguaglianza salariali.

Regole particolari sono indirizzate agli enti nei quali l’adozione della qualifica di impresa sociale è legata all’inclusione lavorativa di soggetti deboli. A prescindere dall’oggetto, infatti, si considera di interesse generale l’attività di impresa nella quale il personale occupato è composto in misura non inferiore al 30% da lavoratori considerati «molto svantaggiati» in base al regolamento Ue 651/2014 (vale a dire privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi o, al ricorrere di specifiche condizioni, da almeno 12 mesi) o dalle altre categorie di soggetti deboli individuate dall’articolo 2, comma 4, del Dlgs 112/2017 (persone con disabilità, rifugiati o richiedenti protezione internazionale, persone senza fissa dimora che versino in condizione di povertà).

I lavoratori «molto svantaggiati», tuttavia, non potranno rappresentare più di un terzo del 30 per cento. In base alle modifiche introdotte dal decreto correttivo, per di più, dopo 24 mesi perderanno comunque tale qualifica. Trascorsi i due anni di occupazione, infatti, verrebbe meno la condizione lavorativa di particolare svantaggio che giustifica il ricorso a questa particolare tipologia di impresa sociale.

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