Aiuti di Stato da restituire solo per licenziamenti disciplinari
Qualora, nei cinque anni successivi all’ottenimento di un aiuto di Stato, venga ridotta l’occupazione oltre il 10% nell’unità produttiva interessata, l’azienda è tenuta alla restituzione totale o parziale dell’agevolazione. La riduzione è in ogni caso consentita per motivi economici. La norma è contenuta nell’articolo 6 del decreto legge “dignità” (87/2018) che ha come obiettivo la «tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti».
Per quanto riguarda i soggetti coinvolti, il provvedimento fa generico riferimento alle imprese italiane o estere che «operano sul territorio nazionale», a prescindere dalla loro dimensione. Più complessa è l’individuazione dell’incentivo interessato. La norma fa riferimento alle «misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale».
Il primo nodo da sciogliere è se la definizione di “aiuto di Stato” sia quella di origine comunitaria o meno. Qualora prevalesse la definizione comunitaria, si tratterebbe di qualsiasi misura che procura un vantaggio economico all’impresa che non sarebbe in grado di ricevere in condizioni normali di mercato, ossia in assenza di intervento dello Stato (Comunicazione Ce 262/15). Per esser definito aiuto, non è rilevante quale sia l’articolazione che lo eroga (Stato, Regione o Comune).
Andrebbe chiarito se in questa definizione rientrino le integrazioni salariali, anche se al riguardo la Comunicazione 262/15 precisa che è un vantaggio «se uno Stato membro paga una parte dei costi relativi ai dipendenti di una specifica impresa, solleva tale impresa dai costi connessi alle sue attività economiche. Esiste un vantaggio anche quando le autorità pubbliche pagano un’integrazione salariale ai dipendenti di una specifica impresa».
L’aspetto che sembra rilevare è che la misura deve avere tra le condizioni di concessione (anche se non in modo esclusivo) la «valutazione dell’impatto occupazionale». Pertanto si tratta di iniziative che hanno l’obiettivo di incrementare taluni contratti di lavoro o quello di aumentare l’occupazione rispetto a un determinato periodo.
In questo senso dovrebbero essere interessate, ad esempio, le agevolazioni per l’occupazione dei Neet o per Garanzia giovani. Ma anche l’incentivo occupazione per il Mezzogiorno o quello previsto per i lavoratori over 50 disoccupati da oltre 12 mesi.
Ad ogni modo, le disposizioni si applicano ai benefici concessi o banditi, nonché agli investimenti agevolati avviati dopo l’entrata in vigore del decreto 87/2018 (14 luglio 2018).
La norma prevede che l’impresa decade dal beneficio se nei cinque anni successivi «alla data di completamento dell’investimento» c’è una riduzione dell’occupazione superiore al 10%; la decadenza è disposta in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale ed è comunque totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento. Se, da un lato, la norma sembra attrarre un’ampia platea di agevolazioni, dall’altro lato la condizione di decadenza sembra parametrata solo per specifiche agevolazioni che prevedono un investimento. Pertanto rimane il dubbio sulla determinazione del quinquennio per gli incentivi legati all’occupazione fruiti mensilmente.
Ai fini della determinazione del limite del 10% o del 50% la norma fa riferimento solo alle riduzioni su iniziativa dell’impresa, anche se sono escluse quelle per motivi economici. Questo sembra voler significare che le uniche riduzioni rilevanti sono quelle per motivi disciplinari.
Per le modalità di attuazione la norma non fa un espresso rinvio a uno specifico decreto, ma la relazione illustrativa precisa che il compito spetta a ogni amministrazione concedente. Si tratta di una modalità piuttosto innovativa che rischia di generare un’applicazione del provvedimento non uniforme, con conseguente ampio contenzioso.
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