Agevolazioni

Sì al parere più severo: doppio vincolo di 2/3 per «teste» e per quote

di Angelo Busani

In una Stp per l’esercizio dell’attività di dottore commercialista i 2/3 del capitale sociale devono appartenere a soci professionisti; inoltre, i 2/3 dei soci, considerati “per teste”, devono essere soci professionisti. È quanto deciso dal Tribunale di Treviso con l’ ordinanza n. 3438 del 20 settembre 2018. Si tratta - a quanto si sa - della prima pronuncia in cui si cerca di interpretare l’assai complicato tenore letterale della norma (articolo 10, legge 183/2011) per la quale «il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni e decisioni dei soci».

Al Tribunale di Treviso era stato chiesto l’annullamento del diniego di iscrizione di una Stp espresso da un Ordine territoriale dei dottori commercialisti, poi confermato dal Consiglio nazionale. La Stp era formata da 5 soci, uno solo dei quali era un professionista (un commercialista, appunto) mentre gli altri quattro erano qualificati come soci finanziatori. Il capitale sociale apparteneva al professionista solo per il 6,25 per cento. Questi era però anche titolare del diritto di usufrutto su quote appartenenti agli altri soci per un totale del 66,40% del capitale sociale, e di conseguenza era titolare di un diritto di voto, nell’assemblea dei soci, pari al 72,65% (quindi, per una quota superiore ai 2/3 dei voti esprimibili).

Come detto, sia l’ Ordine locale e il Consiglio nazionale, da un lato, sia il Tribunale, dall’altro lato, hanno ritenuto di leggere la norma in esame nel senso che essa detterebbe sia una prescrizione in relazione all’appartenenza del capitale sociale (almeno i 2/3 ai professionisti), sia una prescrizione in ordine al numero dei soci (almeno i 2/3, considerandoli “per teste”, devono essere professionisti).

Questa lettura della norma non è tuttavia l’unica possibile. Anzi, ci si arriva solo stressando parecchio il testo della norma stessa, il quale non parla affatto di capitale sociale, bensì di maggioranza per l’adozione delle decisioni da parte dei soci: infatti afferma che la Stp va organizzata in modo che, per effetto del numero dei soci e delle loro quote di partecipazione al capitale sociale, le decisioni vengano adottate con una maggioranza che, per almeno i 2/3, sia derivata dal voto dei soci professionisti.

Letta per quel che dice, la norma pare avere un senso, seppure nella sua farraginosità. Essa infatti è scritta un po’ confusamente perché il legislatore, nel redigerla, sta pensando alla sua applicazione in qualsiasi tipo di società e, quindi, considerando in un sol colpo:

sia le società ove i soci votano per teste a maggioranza (come le cooperative);

sia le società ove i soci votano per quote ma, comunque, adottando le loro decisioni, di regola, solo con consenso unanime (come le società di persone);

sia le società ove i soci votano per quote e a maggioranza (come le società di capitali).

Fin qui, dunque, la lettura della norma nel senso espresso dalle parole che il legislatore ha utilizzato. Se poi si voglia leggere nella norma – come hanno fatto gli Ordini dei commercialisti e il tribunale trevigiano – che essa è una indiretta prescrizione in ordine alla distribuzione del capitale sociale tra i soci e al loro numero, si tratta di una interpretazione senz’altro plausibile, ma altrettanto opinabile.

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