Rischio reato dall’omessa prevenzione
L’impiego della forza lavoro all’estero non esime il datore di lavoro da responsabilità, anche penale, in caso di infortunio occorso al lavoratore durante lo svolgimento della prestazione.
I profili penalistici in questione coinvolgono tanto la dimensione individuale, quanto quella collettiva, prospettandosi la possibile integrazione dei reati di omicidio colposo o di lesioni colpose gravi o gravissime in capo al datore di lavoro, derivanti da violazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro (ex articoli 589-590 del Codice penale) nonché in capo all’ente collettivo (ex Dlgs 231/01).
L’obbligazione di sicurezza, oltre al generale richiamo contenuto nell’articolo 2087 del Codice civile, è puntualmente individuabile nel Testo unico 81/08, in cui è prevista la necessità che il datore si doti di un modello di organizzazione e gestione del rischio infortunio. Tale approccio risk-based, pacificamente applicabile nel caso di lavoratori impiegati sul suolo italiano, trova piena cittadinanza anche in caso di prestazioni lavorative all’estero. Il datore di lavoro italiano, come non può disinteressarsi della sicurezza del proprio lavoratore distaccato presso un’altra impresa su suolo italiano, non può ugualmente prescindere da una completa verifica sulla sussistenza di condizioni lavorative idonee a garantire la salute e la sicurezza del prestatore in un altro Paese Ue o extra-Ue.
Tale debito di sicurezza incombente sul datore di lavoro non va inteso esclusivamente entro lo svolgimento della prestazione lavorativa, ma deve essere declinato anche secondo il cosiddetto “Rischio Paese”. Con specifico riferimento all’eventuale sussistenza di una responsabilità penale, si segnala che l’articolo 6 del Codice penale considera il reato commesso nel territorio dello Stato italiano quando ivi sia avvenuta in tutto o in parte anche la sola azione od omissione che lo costituisce (e quindi, ad esempio, l’incompleta valutazione dei rischi o l’omessa formazione del lavoratore), nell’ipotesi in cui l’evento lesivo o mortale si sia verificato in territorio estero.
Si deve inoltre evidenziare come anche in tali casi risulti essere applicabile la disciplina sulla responsabilità dell’ente da reato, in presenza di un interesse o vantaggio dello stesso (spesso individuabile nel mero risparmio di spesa derivato, ad esempio, dall’omessa adeguata formazione del dipendente) e in presenza di un modello organizzativo inidoneo a prevenire dette ipotesi di reato (ai sensi dell’articolo 6, comma 2 del Dlgs 231/01). Quale, dunque, il possibile approccio del datore di lavoro per evitare di incorrere in tali responsabilità? Come sempre, in questi casi, alcune indicazioni possono provenire dall’analisi dell’esperienza giurisprudenziale: la Cassazione (con la pronuncia del 17 giugno 2011, n. 34854) ha ritenuto sussistere la responsabilità penale dell’amministratore unico di una società italiana il cui dipendente era stato impiegato in subappalto per l’esecuzione di alcuni lavori in Francia, ove decedeva a seguito di scarica elettrica. Secondo i giudici di Cassazione il datore di lavoro avrebbe colposamente omesso di formare ed informare il lavoratore sui rischi specifici della lavorazione da effettuarsi, a nulla valendo la circostanza per cui lo stesso fosse impiegato in un Paese estero.
Il recente caso Bonatti poi, in cui il capo di imputazione per l’avvenuto sequestro ed uccisione in Libia di alcuni lavoratori è stato ipotizzato in termini di omicidio colposo per violazione delle norme antinfortunistiche, pone l’attenzione sulla pregnanza e consistenza dell’obbligo di sicurezza penalmente presidiato e sussistente in capo ai datori di lavoro che inviano all’estero i propri prestatori, il quale è da intendersi come effettiva security, oltre che necessaria safety.