Contenzioso

Malattia professionale e grado della prova

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Tempestività dell'esercizio dell'azione disciplinare
Sospensione convenzionale del rapporto di lavoro
Malattia professionale e grado della prova
Licenziamento collettivo, procedura

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 25 settembre 2018, n. 22672

Pres. Di Cerbo; Rel. Lorito; P.M. Fresa; Ric. M.A.; Controric. C.G. S.r.l.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Ristrutturazione aziendale di specifica unità produttiva contestualmente soppressa - Scelta dei lavoratori dell'unità soppressa da licenziare - Legittimità - Criteri ex art. 5 L. n. 223 del 1991 - Applicabilità automatica - Limiti

In materia di licenziamento determinato da motivo oggettivo, qualora la ristrutturazione aziendale sia riferita ad una specifica unità produttiva, contestualmente soppressa, non è contraria a buona fede la decisione aziendale di limitare agli addetti della predetta unità la platea dei lavoratori da licenziare, ove risulti l'effettiva impossibilità di utile collocazione nell'assetto organizzativo dell'impresa, non sussistendo alcun automatismo nell'applicazione dei criteri di scelta previsti dall'art. 5 della l. n 223, utilizzabili invece nell'ipotesi di recesso motivato da generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile.

NOTA
La Corte d'Appello di Roma rigettava il reclamo promosso da un lavoratore avverso la sentenza che aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato da una società per ragioni di crisi aziendale. La società aveva, infatti, registrato un risultato economico di gestione negativo dell'agenzia di scommesse presso la quale il ricorrente prestava la propria attività lavorativa.
In particolare, la Corte distrettuale aveva ritenuto che a nulla rilevasse, rispetto alla fattispecie in esame, la generale situazione finanziaria del gruppo di imprese di cui faceva parte l'agenzia di scommesse, «non reputando che la intercorrenza di un collegamento di natura economico - produttiva fra le società facenti parte del medesimo gruppo consentisse di configurare un unico soggetto giuridico o un centro di imputazione di rapporti autonomo». La Corte aveva quindi ritenuto assolto l'obbligo di repêchage da parte datoriale, che aveva proposto al dipendente (senza riscontro positivo da parte di quest'ultimo), in due diverse occasioni, di accedere a posizioni inferiori presso le sedi pugliesi e lombarde della società.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione il lavoratore. La società resisteva con controricorso.
In particolare, con i primi due motivi di ricorso, il lavoratore sosteneva che la sentenza impugnata avesse errato nell'interpretare in senso confermativo delle ragioni di crisi aziendale i dati istruttori acquisiti, escludendo l'unicità del centro di imputazione di interessi che, invece, sarebbe derivato: i) dall'unitarietà della struttura organizzativa e produttiva, ii) dall'integrazione tra le attività di impresa, iii) dal coordinamento tecnico-organizzativo e iv) dalla utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società.
Con ulteriore motivo di ricorso il lavoratore censurava la sentenza impugnata per aver ritenuto che la scelta aziendale di limitare il licenziamento ai soli dipendenti dell'agenzia di scommesse di via Sacchetti, senza attenersi ai criteri di scelta previsti dalla L. n. 223/1991, fosse conforme ai criteri di correttezza e buona fede.
La Suprema Corte ha anzitutto analizzato i primi due motivi di impugnazione, disattendendoli.
Ad avviso della Corte, i Giudici di merito avevano correttamente escluso che, nella fattispecie in esame, fosse stata dimostrata l'esistenza di un unico soggetto giuridico ovvero di «un centro di imputazione di rapporti autonomo rispetto alla società stessa, tale da consentire di ipotizzare una rinnovata collocazione lavorativa nell'ambito di un più ampio assetto organizzativo».
La Corte di Cassazione ha infatti ricordato che «il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è, di per sé solo, sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività tra i vari soggetti del collegamento economico – funzionale» (cfr. Cass. n. 19023 del 31/7/2017). La Corte ha ritenuto che, nel caso in esame, non si fosse verificata tale condizione, senza considerare che il lavoratore aveva omesso di dedurre, tra gli elementi indicatori della fattispecie simulatoria prospettata, la sussistenza dell'intento fraudolento.
La Suprema Corte ha, poi, respinto anche l'ulteriore censura mossa dal lavoratore alla sentenza impugnata, in punto di asserita illegittimità della decisione aziendale di limitare la scelta dei lavoratori da licenziare a quelli dell'agenzia di via Sacchetti e, quindi, al singolo settore, pur non essendo gli stessi dotati di specifica professionalità.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha evidenziato come, «qualora la ristrutturazione aziendale sia riferita ad una specifica attività produttiva, contestualmente soppressa, non appaia contraria a buona fede la scelta aziendale di limitare agli addetti della predetta unità la platea dei lavoratori colpiti dal licenziamento, ove risulti come nella specie, l'effettiva impossibilità di utile collocazione nell'assetto organizzativo aziendale». La Corte ha dunque ritenuto che non vi fosse «necessità di prova ulteriore a carico del datore in ordine ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, e ciò sia per l'assenza dell'occasione di una scelta (essendo stati licenziati tutti i lavoratori addetti alla stessa sede), sia, più a monte, per la non automatica applicabilità dei criteri di scelta previsti dalla legge n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi a licenziamenti individuali plurimi, che possono invece soccorrere nelle ipotesi in cui il giustificato motivo oggettivo di licenziamento si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale assolutamente omogeneo e fungibile».
La Suprema Corte ha pertanto confermato la sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Roma, rigettando il ricorso promosso dal lavoratore.

Tempestività dell'esercizio dell'azione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 15 novembre 2018, n. 29398

Pres. Napoletano; Rel. De Gregorio; Ric. F.P.; Controric. S.T.S.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Tempestività dell'esercizio dell'azione disciplinare - Valutazione - Criteri - Rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare - Rilevante intervallo disciplinare tra i fatti di rilievo disciplinare e l'esercizio del potere disciplinare - Onere probatorio del datore di lavoro - Contenuto.

In tema di licenziamento disciplinare, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento penale, considerata l'autonomia tra i due procedimenti, l'inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza, stabilito dall'art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico, e la circostanza che l'eventuale accertamento dell'irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l'assenza di analogo disvalore in sede disciplinare.
NOTA
Nella sentenza in commento, la Suprema Corte declina il principio di immediatezza della contestazione ex art. 7, L. 20 maggio 1970, n. 300 con riferimento all'ipotesi in cui venga avviato a carico del lavoratore, con riferimento alla medesima condotta oggetto dell'azione disciplinare, anche un procedimento penale.
Precisamente, un dirigente veniva licenziato in tronco per aver concorso a causare un «incidente sul lavoro con esito mortale».
Sia il Tribunale che la Corte territoriale accoglievano l'impugnativa del recesso proposta dal dipendente, condannando la società datrice al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso e dell'indennità supplementare prevista dal CCNL applicato.
Segnatamente, i Giudici d'Appello - aderendo all'interpretazione elaborata dal Giudice di prime cure - accertavano la tardività del licenziamento, sull'assunto che «i fatti risultavano sufficientemente acclarati da parte datoriale entro la fine di aprile dell'anno 2012 (...) sicché ingiustificata per il suo ritardo risultava la contestazione disciplinare», effettuata il 5 settembre 2012, «nessuna novità rilevante essendo stata accertata nelle more e d'altro canto essendo presumibile l'affidamento del dirigente, che era rimasto nelle more sempre al suo posto fino al recesso del 15 settembre 2012».
Contro tale pronuncia della Corte territoriale, proponevano ricorso per Cassazione tanto il lavoratore quanto il datore. In particolare, la società lamentava la violazione o falsa applicazione dell'art. 7, L. 20 maggio 1970, n. 300 in quanto non sarebbe stato adeguatamente valorizzato il carattere relativo, e non assoluto, del principio di tempestività dell'azione disciplinare ed, in particolare, illegittimamente negata la giustificabilità del ritardo della contestazione a fronte dell'esigenza del datore di esaminare ulteriori rilievi - precisamente, l'elaborato dei periti degli indagati, l'unico che, a parere della società, avrebbe consentito di disporre di una ricognizione degli eventi in contradditorio e non solo nella prospettiva della pubblica accusa - emersi nell'ambito del procedimento penale.
La Suprema Corte respinge entrambi i ricorsi, rammentando, anzitutto, che, nell'ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, il principio di immediatezza della contestazione, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che l'imprenditore porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne assoluta certezza, pena l'illegittimità del recesso, dovendosi reputare che, tra l'interesse del datore a prolungare le indagini in assenza di una obiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest'ultimo, tutelata ex lege.
D'altro canto - soggiunge la Cassazione - il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, sancito dall'art. 27 Cost., concerne unicamente le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato e non può applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa per comportamenti del lavoratore che possano altresì integrare gli estremi del reato.
Ciò premesso, i Giudici di legittimità concludono che, in tema di licenziamento disciplinare, la rilevanza penale dei fatti contestati, e la conseguente denuncia all'autorità inquirente, non fanno venire meno l'obbligo di immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che esso assume rispetto alla tutela dell'affidamento e del diritto di difesa dell'incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore. Ne consegue che il differimento dell'incolpazione è giustificato soltanto dalla necessità, per il datore di lavoro, di acquisire conoscenza della riferibilità dei fatti, nelle linee essenziali, al lavoratore e non anche dall'integrale e definitivo accertamento degli stessi.

Sospensione convenzionale del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 12 ottobre 2018, n. 25532

Pres. Bronzini; Rel. Garri; Ric. S.I. S.p.A.; Contr. G.M.;

Sospensione concordata del rapporto di lavoro – Ripresa automatica del rapporto al termine della sospensione – Intimazione del licenziamento – Ammissibilità – Illegittimità del recesso – Conseguenze: applicazione art. 18, l. n. 300/70.

Sospensione concordata del rapporto di lavoro – Necessità per il datore di lavoro di attivarsi per la ripresa del rapporto – Mancata attivazione –Inadempimento datoriale – Conseguenze: risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.

Qualora il datore di lavoro ed il lavoratore abbiano concordemente sospeso il rapporto di lavoro per consentire al dipendente di prestare temporaneamente la sua attività lavorativa in favore di un terzo, se il rapporto automaticamente rivive all'atto della cessazione del rapporto presso il terzo, il datore di lavoro ben può intimare un licenziamento già all'atto della ricostituzione, con conseguente applicazione dell'art. 18 Stat. lav. in caso di accertata illegittimità. Al contrario, se si ritiene che, all'atto della cessazione del rapporto di lavoro con il terzo, il datore di lavoro debba attivarsi dando esecuzione all'obbligazione assunta nei confronti del lavoratore all'atto della sospensione, in caso di inadempimento datoriale, troverà applicazione il rimedio comune di cui all'art. 1218 c.c.
NOTA
Nell'articolata vicenda sottoposta all'esame della Cassazione, la Corte di appello di Milano, confermando la decisione di primo grado, aveva dichiarato la illegittimità del recesso intimato in data 29 ottobre 2010 ad un lavoratore, ordinando la reintegra e condannando la società al risarcimento del danno ex art. 18, l. n. 300/70 (vecchia formulazione).
Le parti avevano convenuto che il rapporto di lavoro del dipendente con la società I. sarebbe stato sospeso per la durata del rapporto con la società C., e sarebbe stato ripristinato, una volta cessato il rapporto con quest'ultima. Il lavoratore era stato licenziato dalla società C. il 30 giugno 2010 - nell'ambito di una procedura di riduzione del personale - la società I. ne aveva disposto la riammissione in data 29 ottobre 2010 e, contestualmente, lo aveva licenziato per giustificato motivo oggettivo. La Corte di appello aveva ritenuto che la condotta tenuta dalla società I. fosse in contrasto con i princìpi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, pertanto solo dopo un effettivo ripristino del rapporto di lavoro, si sarebbe potuto ravvisare un genuino giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Avverso tale pronuncia la società I. propone ricorso per cassazione denunciando la violazione di legge nella parte in cui la sentenza di appello, dopo aver ravvisato il suo inadempimento all'obbligo di ripristinare il rapporto, ha poi accordato al lavoratore la tutela ex art. 18 Stat. lav., anziché il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.
La Cassazione accoglie il ricorso, rilevando che la sentenza di appello muove dal presupposto che la società I. sia rimasta inadempiente all'obbligo, convenzionalmente assunto con il lavoratore all'atto della sospensione concordata del rapporto di lavoro, di procedere al ripristino dello stesso nel momento in cui fosse cessato il rapporto di lavoro con il terzo C. Ha ritenuto il giudice di appello che la contestualità tra ripristino del rapporto e licenziamento per giustificato motivo oggettivo farebbe venire meno la reale efficacia del primo e renderebbe illegittimo il secondo. A parere della Cassazione il ragionamento dei giudici di merito è però contraddittorio. Delle due l'una. Se si ritiene che il rapporto di lavoro tra la società I. e il lavoratore sia automaticamente rivissuto alla cessazione del rapporto con C., allora si può affermare che I. ben potesse intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con relativa applicazione dell'art. 18 Stat. lav. in caso di accertata illegittimità del recesso. Al contrario, ove si ritenga la condotta di I. inadempiente all'obbligo di riassumere il lavoratore, ciò significa che la società I. si sarebbe dovuta attivare dando esecuzione all'obbligazione assunta nei confronti del lavoratore e, in caso di inadempimento, troverebbe applicazione il disposto dell'art. 1218 c.c., in quanto la mancata ricostituzione del rapporto di lavoro non consente di configurare tale condotta come licenziamento. Erroneamente, quindi, la Corte di appello ha sovrapposto i piani, accertando un inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di riassumere il lavoratore e applicando l'art. 18, l. n. 300/70, quanto alle conseguenze sanzionatorie. In ragione di ciò la Suprema Corte cassa la sentenza e rinvia alla Corte di appello affinché proceda a verificare se, alla luce di un nuovo esame dell'accordo, sia configurabile un inadempimento all'obbligo di ricostituire il rapporto, o se, nell'ambito di un rapporto solo sospeso, sia stato intimato un licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, in tale ultimo caso, se vi sia stata o meno violazione da parte della società I. dell'obbligo di repechage.

Malattia professionale e grado della prova

Cass. Sez. Lav. 17 ottobre 2018, n. 26041

Pres. Berrino; Rel. Mancino; Ric. S.T.; Controric. I.N.A.I.L.

Lavoro - Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - Malattia professionale non tabellata o ad eziologia multifattoriale - Nesso causale relativo all'origine professionale della malattia - Concreta e specifica dimostrazione - Necessità - Giudizio di probabilità - Ammissibilità - Elementi di verifica - Poteri istruttori d'ufficio - Utilizzabilità - Fattispecie.

In tema di malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere ravvisata in un rilevante grado di probabilità. A tal fine il giudice, oltre a consentire all'assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, è tenuto a valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa “ex officio”, diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all'entità dell'esposizione del lavoratore ai fattori di rischio, potendosi desumere, con elevato grado di probabilità, la natura professionale della malattia dalla tipologia della lavorazione, dalle caratteristiche dei macchinari presenti nell'ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione stessa, nonché dall'assenza di altri fattori causali extralavorativi alternativi o concorrenti.
NOTA
Nel caso di specie, un lavoratore agiva in giudizio nei confronti dell'istituto di assicurazione professionale per l'accertamento dell'origine professionale della «neuropatia motoria multifocale» con conseguente condanna dell'INAIL al pagamento delle relative indennità.
La Corte d'appello riformava la decisione di primo grado e rigettava il ricorso del lavoratore in quanto ha ritenuto «non dimostrato, con certezza o probabilità qualificata che la gastrointerite acuta, da cui fu colpito l'assistito, fosse stata causata da campylobacter jejuni; che, quand'anche accertata l'origine dell'affezione gastroenterica, mancava la prova che l'infezione fosse stata contratta nell'esercizio dell'attività professionale, e non nella vita quotidiana, con l'assunzione di cibi infetti non avendo l'assistito riferito di alcun incidente lavorativo occasione del contagio; e che mancava la prova, infine, che l'infezione stessa avesse causato neuropatia multifocale».
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione per avere la Corte di merito, ai fini dell'accertamento del nesso eziologico, svolto un esame parziale delle risultanze istruttorie, circoscritto a singoli passaggi della consulenza medico-legale, avulso dall'intero elaborato peritale e dalle altre prove ed allegazioni fornite.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando la pronuncia della Corte d'Appello. Il giudice di legittimità ha infatti rilevato che «nel caso di malattia professionale non tabellata, come anche in quello di malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro, gravante sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità; a tale riguardo, il giudice deve non solo consentire all'assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio diretta ad acquisire ulteriori elementi in relazione all'entità ed all'esposizione del lavoratore ai fattori di rischio ed anche considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell'ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall'assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi o concorrenti che possano costituire causa della malattia». Nella specie, la Corte d'appello ha correttamente applicato i principi sopra richiamati e ha rilevato che, sebbene l'istituto assicuratore avesse annoverato il virus contratto dal lavoratore tra i fattori di rischio connessi allo svolgimento della professione di veterinario e che non poteva escludersi che il lavoratore avesse contratto la malattia sul lavoro, continuava a sussistere la dubbia origine, nella specie, dell'affezione gastroenterica acuta e l'impossibilità di statuire, con giudizio di certezza o probabilità qualificata, che la gastroenterite fosse stata causata dal campylobacter. Oltre a ciò, nella specie mancava comunque la prova dell'infezione contratta nell'esercizio della vita professionale, e non nella vita quotidiana, non avendo il lavoratore riferito di alcun incidente lavorativo nel quale il contagio sarebbe avvenuto. Infine, mancava la prova che l'infezione avesse causato la neuropatia motoria multifocale, anche alla luce della letteratura scientifica, non concorde sull'esistenza di un nesso causale tra l'infezione da campylobacter jejuni e la patologia neurologica denunciata.

Licenziamento collettivo, procedura

Cass. Sez. Lav. 17 ottobre 2018, n. 26035

Pres. Patti; Rel. Ponterio; Ric. P.I. S.r.l.; Controric. C.F.+2;

Lavoro subordinato – Licenziamento collettivo – Lettera di apertura della procedura – Requisiti – Riferibilità dei motivi posti alla base della procedura alla situazione aziendale attuale – Necessità

E' innegabile che il contenuto delle comunicazioni previste dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, dai commi 2 e 9 debba avere ad oggetto le condizioni in cui si trova l'impresa al momento in cui avvia la procedura, costituendo l'attualità di tali condizioni premessa logica dei motivi di riduzione del personale
NOTA
IL caso in esame ha ad oggetto la legittimità di una procedura di licenziamento collettivo fondata su ragioni coincidenti con quelle di una precedente procedura.
La Corte d'Appello di Roma, in sede di reclamo, aveva ribaltato la decisione del giudice di prime cure dichiarando l'illegittimità del licenziamento intimato a tre lavoratori nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo con la quale la società datrice aveva comunicato la necessità di ridurre l'organico aziendale di sei unità, tutte addette alle attività di servizi generali. La società datrice veniva condannata alla reintegra dei lavoratori licenziati oltre che al risarcimento del danno.
I tre lavoratori (unitamente ad altri non parti in causa) erano stati oggetto di una precedente procedura di mobilità, all'esito della quale erano dapprima stati licenziati e successivamente reintegrati, su ordine del giudice, in quanto i licenziamenti erano stati dallo stesso considerati illegittimi. Secondo la Corte territoriale, le motivazioni poste alla base della lettera di apertura della prima procedura di mobilità coincidevano con quelle della seconda, non contenendo alcun riferimento alle esigenze attuali dell'azienda. Sulla base di questa e di altre censure relative ai criteri di scelta utilizzati, la Corte d'Appello dichiarava – come anticipato – l'illegittimità dei tre recessi.
Contro tale decisione proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, tra l'altro e per quanto qui interessa, che la lettera di apertura della procedura di mobilità oggetto del giudizio conteneva ampia descrizione delle vicende organizzative ed economiche e dell'attuale struttura aziendale, idonee a rendere conto dell'esubero dei lavoratori in questione. Pertanto la stessa non poteva, secondo la società, essere considerata illegittima.
La Cassazione ha respinto le censure della società e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha ribadito un suo costante orientamento secondo il quale «E' innegabile che il contenuto delle comunicazioni previste dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, dai commi 2 e 9 debba avere ad oggetto le condizioni in cui si trova l'impresa al momento in cui avvia la procedura, costituendo l'attualità di tali condizioni premessa logica dei motivi di riduzione del personale.».
Secondo la Suprema Corte, affinché la procedura di mobilità sia legittima, la relativa lettera di apertura non solo deve essere completa ma deve anche fare riferimento alle condizioni attuali dell'impresa che avvia la procedura e che ne hanno determinato la necessità.
Nel caso di specie, ha proseguito la Suprema Corte, è stato correttamente rilevato dalla Corte territoriale che la lettera di apertura oggetto del giudizio fosse meramente ripetitiva delle ragioni alla base della precedente procedura, già dichiarata illegittima, e per converso non contenesse «alcun riferimento attualizzato alle esigenze tecnico produttive né ai costi delle singole unità produttive».

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