Rapporti di lavoro

Azione di nullità da far valere entro due anni

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di Giuliano Fonderico

A tutela dell’equo compenso e del divieto di clausole vessatorie, la legge 172 di conversione del decreto 149 introduce una nuova azione di nullità, per più aspetti “speciale”. L’azione di nullità è normalmente imprescrittibile. Si possono prescrivere nel termine di dieci anni le azioni per ripetere le somme già pagate o per chiedere quelle da pagare. La prescrizione può poi essere interrotta stragiudizialmente, rinviando così all’infinito il termine per agire. La nuova azione ha invece un termine di decadenza breve, di 24 mesi dalla data di sottoscrizione del contratto. Essendo una decadenza, il termine non può neppure essere interrotto al di fuori del giudizio. È uno schema già sperimentato per le azioni contro le pubbliche amministrazioni. Nella nuova legge segna un punto di equilibrio con le ragioni dei committenti, non lasciandoli troppo a lungo sotto la spada di Damocle di un’azione per la rideterminazione del prezzo.

Un aspetto che rimane aperto è quello dell’applicazione ai contratti in essere. La norma sembra ammetterla, tanto più che gli emendamenti presentati in Parlamento per limitare l’applicazione ai contratti futuri non sono stati accolti, se non nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Sorge allora un problema: da quando far decorrere il termine per l’azione? Se fosse dalla sottoscrizione dei contratti, in molti casi il termine potrebbe essersi già consumato. Una soluzione potrebbe essere quella di farlo partire dalla data di entrata in vigore della legge di conversione.

Una volta attivata la tutela, per il divieto di clausole vessatorie il giudizio dovrebbe limitarsi a una sorta di rimozione chirurgica, posto che la legge prevede comunque la conservazione della parte restante del contratto. Per l’equo compenso la tutela dovrebbe essere più complessa. Il giudice dovrebbe prima dichiarare la nullità della clausola contenente il corrispettivo iniquo, poi integrare in via giudiziale il contratto con il compenso equo.

L’azione di nullità andrà di fronte al giudice civile. Un secondo fronte di contenzioso potrebbe aprirsi dinanzi al giudice amministrativo. La regola applicabile per le Pa è più blanda, perché la legge richiama l’equo compenso solo come principio, senza i parametri puntuali dei decreti ministeriali. Sta di fatto che le pubbliche amministrazioni dovranno tenerne conto. Il campo di elezione sarà quello delle gare per la scelta dei professionisti, alle quali le amministrazioni ormai ricorrono anche per l’affidamento di singoli incarichi che non richiedono un’attività organizzata. Il principio potrà rilevare per definire la “base d’asta” sulla quale chiedere i ribassi e per valutare la congruità delle offerte ricevute. In entrambi i casi, ci potrà essere materia per gli avvocati e per i ricorsi al Tar. I giudici amministrativi ammettono da tempo l’impugnazione immediata della base d’asta troppo bassa, che non consenta di formulare offerte economicamente praticabili. Sono casi estremi che, per i servizi professionali, potrebbero ora moltiplicarsi quando la base d’asta sia inferiore ai parametri dell’equo compenso. Per le Pa l’equo compenso potrebbe avvicinarsi molto a un ritorno ai minimi tariffari. Altre controversie potranno esserci sui prezzi di aggiudicazione e sulla valutazione di “anomalia” delle offerte. In questo secondo caso, l’equo compenso finirebbe per rivolgersi proprio contro i professionisti, facendo escludere un’offerta perché troppo competitiva. A ben vedere, i contratti pubblici rischiano di essere quelli in cui più si materializzano le preoccupazioni dell’Antitrust sulla nuova legge.

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