Circolare 24 - Malattia, periodo di comporto e assenze riconducibili all'invalidità del dipendente
La malattia, intesa come una situazione di alterazione dello stato psico-fisico che determina un'incapacità al lavoro, è presa in considerazione dalla legge anche nell'ambito del rapporto di lavoro.
La nozione di malattia, secondo la previsione dell'art. 2110 c.c., non comprende solo le affezioni acute ma anche quegli aspetti (accertamenti clinici, degenze, terapie, riabilitazioni) che attengono al necessario mantenimento e recupero dello stato di salute (Corte. Cost. 559/1987).
Infatti l'art. 2110 c.c. permette in caso di malattia, pur in assenza della prestazione lavorativa, la prosecuzione del rapporto di lavoro in modo da consentire al lavoratore di continuare a percepire la retribuzione - o forme equivalenti di prevalenza o assistenza - di mantenere il posto di lavoro e maturare l'anzianità di servizio.
Il comma 2 dell'art. 2110 c.c. stabilisce che il lavoratore malato ha diritto di assentarsi e di conservare il posto di lavoro per un periodo, c.d. periodo di comporto, la cui durata è stabilita dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi e dall'equità.
Il periodo di comporto è un istituto che, nel caso di assenza per malattia del dipendente, prevede che il datore di lavoro non possa recedere dal contratto prima dello scadere di detto periodo, a meno che risulti rigorosamente accertato che il lavoratore, a causa della irreversibilità ed inemendabilità dell'affezione morbosa, non sarà più in grado di riprendere la normale attività lavorativa.
Anche i lavoratori invalidi sono assoggettati alla disciplina comune sul comporto per malattia. Tuttavia occorre valutare se le assenze per malattia, collegate con lo stato di invalidità, possano essere incluse nel periodo di comporto, ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro (a norma dell'art. 2110 c.c.)
La recente sentenza della Corte di Cassazione 31 marzo 2023 n. 9095, a fronte di un orientamento contrastante della giurisprudenza di merito, ha rilevato che il lavoratore disabile è esposto, rispetto a un lavoratore non disabile, a un maggiore rischio di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità ed è quindi più esposto al rischio di licenziamento per eccesso di assenze per malattia. Ha quindi ritenuto che costituisce discriminazione indiretta in ragione della disabilità la fissazione di un unico termine di comporto, identico sia per disabili che per non disabili. Conseguentemente il licenziamento comminato sulla base di tale unico termine va qualificato come discriminazione, essendo a tal fine irrilevante – stante la natura oggettiva dei divieti di discriminazione - che il datore di lavoro avesse conoscenza della specifica malattia che aveva dato luogo alla assenza.