Rapporti di lavoro

Circolare 24 Lavoro - Termine causale nel Decreto lavoro: criticità della attuale formulazione normativa

di Antonio Carlo Scacco

Il decreto cd. Lavoro, in vigore dal 5 maggio 2023, incide sostanzialmente sulla configurazione del contratto a termine causale, ossia quello con durata superiore a 12 mesi (Sulla legittimità del primo contratto a termine cd "a-causale" si veda, per tutte, Cass. SS.UU. 113747/2016), aprendo la strada, tra le altre modifiche previste, ad una inedita autonomia individuale "allargata" e "concorrente". Il risultato complessivo, non del tutto soddisfacente, è suscettibile di critiche di carattere sostanziale, logico ed economico/pratico. Le esigenze di chiarezza e semplificazione del nuovo dettato normativo, in linea con le indicazioni suggerite dalla recente fase pandemica, ne rendono fortemente auspicabile, pertanto, una revisione sostanziale, onde evitare un'altra prevedibile stagione di incertezza normativa ed applicativa.
In sintesi la novella, rispetto al testo ereditato dal decreto cd. Dignità (Dl 87/2018) e dalle modifiche introdotte a seguito della legislazione emergenziale (in particolare il decreto legge 73/2021, cd. Sostegni-bis), introduce la causale rappresentata dalle fattispecie previste dai contratti collettivi cd. leader di cui all'articolo 51 del Dlgs 81/2015, riproponendo a regime la precedente norma transitoria introdotta dal decreto Sostegni-bis, ma con formulazione decisamente più estesa. Inoltre introduce una innovativa e inedita causale relativa ad esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva "individuate dalle parti" ma con le seguenti limitazioni: in assenza delle previsioni di cui alla lettera a); "nei contratti collettivi applicati in azienda"; comunque solo fino al 30 aprile 2024. Balza alla attenzione non solo il recupero del cd. vecchio "causalone" introdotto agli inizi del secolo dal decreto legislativo 368/2001 ma, innovazione del tutto inedita e singolare, colpisce la previsione di una autonomia individuale "concorrente" o "allargata" nel processo di individuazione delle predette esigenze, ossia estesa ad entrambe le parti individuali del rapporto (datore di lavoro e lavoratore). Si noti che la formulazione della norma è sufficientemente chiara da far ritenere come tale "individuazione" debba essere operata, in ogni caso, di comune accordo tra datore di lavoro e lavoratore. Non sembra possibile, in altri termini, una individuazione della esigenza operata dal solo datore e sottoposta a mera accettazione da parte del lavoratore (tipicamente con la sottoscrizione del contratto di lavoro), senza la menzione (che dovrà essere presumibilmente contenuta nello stesso contratto) del completamento di un qualsivoglia percorso comune e condiviso (tra datore e lavoratore) riferito alla "individuazione" della esigenza medesima. Differentemente non avrebbe alcun senso inserimento della locuzione "individuate dalle parti" nel testo della norma (ed infatti nessuna formulazione normativa precedente, a quanto ci costa, ha mai delegato la "individuazione" delle esigenze che giustificano la apposizione del termine oltre i 12 mesi al concorso collaborativo e concorrente del lavoratore, essendo la individuazione di queste ultime, pacificamente, di pertinenza esclusiva del datore di lavoro).
Tale previsione è passata in genere sotto silenzio da parte dei primi commentatori, i quali hanno preferito piuttosto bypassare lo scoglio propendendo per una sorta di paternalistico invito alle parti a prestare la massima attenzione nella formalizzazione delle relative clausole di apposizione nei contratti individuali. A chi scrive sembra invece che la configurazione di una autonomia individuale concorrente come prefigurata nella attuale formulazione della lettera b), assieme ad altre enunciazioni scarsamente comprensibili contenute nella novella, incontri serie criticità di carattere sostanziale, logico, economico e pratico.

Criticità di ordine sistematico
Il rapporto di lavoro è immerso in una sorta di rumore di fondo, potremmo dire ormai storico, rappresentato dalla debolezza del lavoratore nei confronti della parte datorile, rumore il cui volume si accresce tanto più quanto più il rapporto si discosta, come avviene nel caso del contratto di lavoro a termine, dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, considerato tuttora la "forma comune" di lavoro. Il principio che considera il lavoratore "soggetto debole" è del tutto consolidato nella giurisprudenza comunitaria (vedi, ad esempio, la sentenza della Corte di giustizia Ue 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., punto 82, nonché la sentenza 20 novembre 2010, causa C-429/09, Fuß, punti 80 e 81). "Di conseguenza il beneficio della stabilità dell'impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori" (sentenza 22 novembre 2005, C- C-144/04, Mangold, punto 64). Nel quadro di tale impianto sistematico, la apposizione del termine resta conseguentemente ed in ogni caso una ipotesi derogatoria rispetto al principio della indeterminatezza temporale del contratto di lavoro, pur nel sistema di una clausola generale legittimante la apposizione del termine per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (in tal senso giurisprudenza pacifica: ex plurimis Cass 30805/2021, Cass 12985/2008, Cass. 7468/2002 14011/2004). Nel passaggio da un sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l'apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro (quale era quello previsto dalla legge 230/1962) ad un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è posto il problema del possibile abuso insito nell'adozione di una tale tecnica. Per evitare tale abuso, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell'onere di specificazione (ex comma 4 dell'articolo 19, norma rimasta inalterata anche dopo la novella), vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contenuto che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale (ex plurimis Cass. 2279/2010). Necessario e conseguente corollario di queste considerazioni è la naturale constatazione che il possibile abuso può essere perpetrato solo dalla parte forte del rapporto di lavoro, ossia dalla parte datorile. Di qui la ulteriore conseguenza secondo cui la (individuazione e la) specificazione delle esigenze nei termini di cui sopra è sempre onere del datore di lavoro (giurisprudenza pacifica: ex plurimis la citata Cass. 2279 del 2010; 10033 del 2010; 15002 del 2012; 208 del 2015; 20201 del 2017; 20113 del 2017; 840 del 2019; 23111 del 2019), il quale rimane il solo responsabile in caso di disconoscimento (in sede ispettiva, giudiziale o altro) della clausola apposta (si noti che lo stesso articolo 3 della legge 230/1962 in modo del tutto conseguente prevedeva che:" L'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano sia l'apposizione di un termine al contratto di lavoro sia l'eventuale temporanea proroga del termine stesso e' a carico del datore di lavoro.". Onere della prova applicabile anche ai contratti a termine stipulati ai sensi dell'art. 23 della legge 56/1987, v. Cass. 4862/2005 ). Nel contesto di un sistema siffatto, che esclude a priori, dal processo di "individuazione" delle esigenze che giustificano il termine causale (e successiva specificazione circostanziata, che altri non è se non la formalizzazione conclusiva nel contratto individuale di lavoro del compiuto processo di individuazione), il ruolo del lavoratore in quanto parte debole del rapporto, non appare del tutto chiaro perché la norma, viceversa, parli esplicitamente di "esigenze [...] individuate dalle parti". La formulazione, peraltro, rappresenta un "unicum" nella pur "martoriata" storia della disciplina del lavoro a termine. Fin dal Regio Decreto legge 13 novembre 1924, n. 1825, che pure all'articolo 1 preconizzava un contratto d'impiego privato "normalmente a tempo indeterminato", la individuazione e la specificazione delle esigenze che giustificano il termine è sempre stata (almeno a conoscenza di chi scrive) un compito affidato al (solo) datore di lavoro, al più in certi casi alle parti sociali, mai e poi mai alle singole parti individuali comprensive del lavoratore.
La possibile spiegazione, perlomeno storica, di una aporia sistematica altrimenti inspiegabile, affonda le sue radici nella dinamica evolutiva del testo della norma. Nella versione in bozza del decreto, infatti, le esigenze potevano essere individuate dalle parti individuali (datore di lavoro e lavoratore) in assenza della previsione della contrattazione collettiva (si ritiene la sola contrattazione collettiva qualificata, l'unica deputata a individuarle ex lettera a) ), ma solo previa certificazione presso le competenti commissioni di certificazione dei contratti di lavoro (articoli 75 e seguenti del Dlgs 276/2003). Mancava inoltre, nella formulazione della lettera b), l'attuale inciso "nei contratti collettivi applicati in azienda", locuzione piuttosto singolare che pure ha impegnato non poco l'attenzione degli addetti ai lavori. Inoltre era presente la locuzione (ora espunta), probabilmente mutuata dal vecchio testo introdotto dal decreto legge Sostegni-bis, riferita a "specifiche esigenze". In tale prospettiva la apertura alla autonomia individuale nella persona del lavoratore avrebbe ricevuto una (pur timida) chance di legittimazione, perché la certificazione (che necessariamente prevede la presenza di entrambe le parti) avrebbe rappresentato una sorta di "foglia di fico" idonea a giustificarla. Nel contesto di un processo di certificazione anche l'autonomia individuale assegnata al lavoratore acquisterebbe un senso perché l'organismo terzo ne garantirebbe la tutela, bilanciando e supportando la sua connaturata debolezza nel rapporto di lavoro. Ma si noti come anche tale, traballante soluzione, abbia prestato il fianco a penetranti critiche, sia circa i tempi burocratici necessitati dal processo di certificazione (verosimilmente incompatibili con la breve durata di un contratto a termine e la permanenza delle connesse esigenze), sia circa il dubbio che il "bollino" di qualità fosse una conseguenza di mere operazioni di facciata. Una tesi che si sentiamo di condividere e che, a ben vedere, appare rendere ancora più insostenibile ipotizzare una autonomia individuale "concorrente" ed "allargata" nel processo cognitivo che porta dalla individuazione della esigenza alla apposizione del termine (in assenza della stessa certificazione). Se infatti i sospetti di sostanziale inidoneità sopra evidenziati possono, in ipotesi, coinvolgere le stesse sedi di certificazione, i medesimi sospetti dovrebbero essere amplificati e ben più penetranti se evocati nei riguardi di accordi di "individuazione" raggiunti, in camera caritatis per così dire, dai singoli datori e lavoratori. Né vale citare la espunzione, dal testo finale della norma, del riferimento alle Commissioni di certificazione a sostegno della tesi di una conferma in merito alle reali intenzioni del legislatore circa la attribuzione del nuovo ruolo ad entrambi le parti individuali del contratto di lavoro, perché è proprio quella espunzione a far venir meno (in misura rilevante, almeno) la sostenibilità della autonomia individuale "concorrente" e "allargata".

Criticità di natura logica
Come anticipato, l'impianto normativo rappresentato dal primo comma dell'articolo 19 del Dlgs. 81/2015 come delineato dal decreto Lavoro, presenta delle criticità strettamente logiche difficilmente superabili. La individuazione affidata alle parti delle esigenze che giustificano il contratto causale (v. supra), recita la lettera b), si applica solo "in assenza delle previsioni di cui alla lettera a)", "nei contratti collettivi applicati in azienda" , comunque entro il 30 aprile 2024. Le previsioni di cui alla lettera a), a loro volta, fanno riferimento ai "casi previsti dai contratti collettivi di cui all'articolo 51". Ne consegue che se i "contratti collettivi applicati in azienda" fossero quelli "comparativamente più rappresentativi" allora la norma sarebbe "pleonastica" (così D. Garofalo, M. Tiraboschi, Disciplina del contratto di lavoro a termine e riflessi operativi sulla somministrazione di lavoro (art. 24, d.l. n. 48/2023)). Differentemente da tale opinione, chi scrive ritiene che, se così fosse, la norma non sarebbe meramente "pleonastica" ma, assai più gravemente, del tutto illogica. Proviamo a mutuare queste considerazioni su un piano, appunto, strettamente logico.
Sia l'insieme A composto da tutti i contratti collettivi. L'insieme A di tutti i contratti collettivi si compone di un sottoinsieme B (contratti collettivi cd. leader, ex art. 51) e di un sottoinsieme C (contratti collettivi non leader, ossia al di fuori della previsione ex art. 51).
Sia un sottoinsieme D composto dai "contratti collettivi applicati in azienda". Poiché il sottoinsieme D è composto da "contratti collettivi", segue necessariamente che D fa parte dell'insieme A. Poiché il sottoinsieme D fa parte dell'insieme A e non fa parte, contestualmente, del sottoinsieme B (lo dice la stessa norma: "in assenza [...]", ne deriva necessariamente che (alternativamente):

A) il sottoinsieme D è, a sua volta, un sottoinsieme del sottoinsieme B, ovvero
B) il sottoinsieme D coincide con il sottoinsieme B, ossia D= B

In termini discorsivi ciò significa che i "contratti collettivi applicati in azienda" di cui alla norma non possono essere i contratti collettivi cd. leader ex articolo 51.
E' stato obiettato che a favore della tesi contraria si potrebbero invocare i criteri generali di interpretazione della legge e, in termini sistematici, la chiara previsione del Dlgs. 81 del 2015 là dove precisa espressamente che i rinvii alla contrattazione collettiva in esso contenuti sono da intendersi, salvo diversa previsione, ai soli contratti collettivi qualificati dal requisito della maggiore rappresentatività comparata (D. Garofalo, M. Tiraboschi, Disciplina del contratto di lavoro a termine e riflessi operativi sulla somministrazione di lavoro (articolo 24, Dl 48/2023), cit.). Ma, a ben vedere, è propriamente questo uno dei casi in cui risulta essere verificata la locuzione "Salvo diversa previsione" di cui al menzionato articolo 51. Infatti se la norma parla di "contratti collettivi applicati in azienda" e contestualmente esclude esplicitamente che tali contratti collettivi siano quelli di cui all'articolo 51 (" in assenza delle previsioni di cui alla lettera a)", ci troviamo proprio nella casistica (espressa) della "diversa previsione" di cui parla la norma. La interpretazione ermeneutica di quest'ultima, in tal caso si accorderebbe (e non potrebbe essere altrimenti) con sua stretta interpretazione logica.

Criticità di natura economica e pratica
Ma vi sono ulteriori criticità, di natura essenzialmente economica, che rendono poco sostenibile la tesi della autonomia individuale "concorrente" circa la individuazione delle esigenze che giustificano il termine causale. A chi scrive pare piuttosto surreale ipotizzare che le parti individuali del rapporto di lavoro, ossia il datore di lavoro ed il lavoratore, si siedano ad un immaginario tavolo comune per "individuare" le "esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva" che, per loro stessa natura, sono specificamente attinenti alla peculiare vita ed organizzazione aziendale e quasi certamente all'oscuro del lavoratore. Sulla individuazione delle ragioni che giustificano la apposizione del termine oltre i primi 12 mesi, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità è consolidato: «In tema di assunzioni a termine, il datore di lavoro [non il lavoratore, si badi NdA] ha l'onere di specificare in apposito atto scritto, in modo circostanziato e puntuale, le ragioni oggettive, ossia le esigenze di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che giustificano l'apposizione del termine finale» (per tutte v., da ultimo, Cassazione 214/2023). Ciò al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità delle ragioni appositive del termine nonché l'immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto. Tali circostanze sono quelle che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro (non del lavoratore), nell'ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, in modo da palesare la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare, nonché l'utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell'ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa (ad esempio Cass. 208/2015, 840/2019 ec.). Tale contesto, desunto dalla giurisprudenza consolidata, appare tanto più in contrasto con la interpretazione secondo la quale la nuova lettera b) del comma 1 dell'articolo 19 legittimerebbe la individuazione di tali ragioni ad opera delle parti individuali del contratto. Una eventuale partecipazione del lavoratore a tale individuazione, se potrebbe essere ipotizzabile (ma con molta fatica) per alcune (assai) limitate ragioni organizzative (ad esempio esigenze personali del lavoratore legate a motivi di salute, alla cura dei propri familiari, oppure esigenze connesse alla disabilità, accomodamenti ragionevoli ec.), non appare invece addirittura concepibile per la valutazione delle esigenze di "natura produttiva" e tantomeno di "natura tecnica" (si noti in proposito, paradossalmente, che le "esigenze sostitutive", ossia le uniche che potrebbero contemplare un ipotetico interesse del lavoratore, sono proprio quelle ad essere sottratte alla individuazione concorrente delle parti). Viceversa dovremmo ipotizzare che il lavoratore abbia la possibilità di accedere alle informazioni riservate aziendali (ad esempio concernenti la evoluzione di determinati livelli produttivi, attesi picchi di produzione conseguenti alla introduzione di nuovi macchinari presso alcune unità produttive, oppure esigenze occupazionali squisitamente tecniche specificamente connesse ad un nuovo servizio offerto dalla azienda, all'utilizzo di una nuova tecnologia ec., i casi ipotizzabili sono infiniti) e, soprattutto, la capacità di valutare tali informazioni. Ma ammettiamo pure, per assurdo, che il datore metta a disposizione del lavoratore tali informazioni e che il lavoratore sia in grado di valutarle. Chi garantisce il lavoratore della genuinità o veridicità di tali informazioni (di provenienza, ovviamente, dal solo datore di lavoro) ovvero, in termini più chiari, perché il lavoratore (che è sempre comunque un lavoratore subordinato) dovrebbe concorrere (anche in vista di eventuali responsabilità in caso di disconoscimento), all'avallo (fiduciario) della sussistenza di tali esigenze (perché ciò è quanto richiede la norma nella interpretazione, per così dire, individualista concorrente)? Ci sentiamo di scommettere che saranno ben pochi i casi in cui il lavoratore (si ripete: pur pienamente edotto della esigenza e pur nelle condizioni di valutarla) contesterà o criticherà la formulazione della esigenza medesima, magari chiedendo di riscriverla, ben sapendo che in tal caso semplicemente (e molto probabilmente) non avrà quel lavoro (di cui, forse, ha un assoluto bisogno).

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