La retribuzione del secondo lavoro riduce il risarcimento da licenziamento
La compensazione del risarcimento del danno da licenziamento con l'incremento patrimoniale derivante da percezione di retribuzione si applica in relazione a qualsiasi retribuzione per qualsivoglia attività lucrativa eventualmente svolta dal lavoratore dopo il recesso. È questo il principio ribadito dalla Cassazione con la pronuncia 4056/2021 del 16 febbraio 2021, sul caso di un lavoratore dipendente di uno stabilimento termale, il quale da sempre aveva svolto contestualmente la docenza di educazione fisica presso scuole pubbliche.
La Corte d'appello di Roma, confermando quanto deciso dai giudici di primo grado, aveva condannato il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni dovute dal licenziamento (settembre 2008) sino all'effettiva reintegra, espressamente statuendo la detraibilità, a titolo di aliunde perceptum, di «tutte le retribuzioni percepite quale insegnante di educazione fisica presso scuola pubbliche nel medesimo periodo». Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione ritenendo non corretta l'interpretazione dei giudici romani sulla base del rilievo che «si detrae…quanto il lavoratore abbia guadagnato altrove utilizzando il tempo reso libero dal licenziamento» poiché la compensazione opera solo «nei limiti in cui sia il danno che l'incremento patrimoniale siano conseguenza immediata dello stesso fatto», e debba invece ritenersi inapplicabile al caso di specie, posto che lui aveva da sempre svolto contestualmente, e in altri momenti della settimana lavorativa, l'attività di docenza pubblica. Il lavoratore ha eccepito, inoltre, che l'aliunde perceptum costituisse eccezione in senso stretto, e come tale fosse inammissibile poiché proposta dalla parte datoriale solo in secondo grado.
La Cassazione, però, con motivazione che non esita a soffermarsi sui principi consolidatisi nel tempo in materia, conferma sotto entrambi i profili, sostanziale e processuale, l'impostazione dei giudici di merito romani. Ed infatti, in primo luogo, esordisce affermando che l'aliunde perceptum non è un'eccezione in senso stretto, bensì in senso lato, pertanto rilevabile anche d'ufficio «se le relative circostanze di fatto risultano acquisite al processo», non ravvisandosi sul punto limiti preclusivi di allegazione e prova di sorta. Non solo. Anche nel merito l'impostazione dei giudici romani deve ritenersi corretta e rispondente agli indirizzi di legittimità, poiché, si legge nella sentenza, «trova…applicazione il principio generale per cui le erogazioni patrimoniali commisurate alle mancate retribuzioni, cui è obbligato il datore di lavoro che non proceda al ripristino del rapporto lavorativo, qualificate come risarcitorie, consentono la detraibilità dell'aliunde perceptum che il lavoratore possa avere conseguito svolgendo una qualsiasi attività lucrativa e in tale ambito non può non rientrare la percezione delle retribuzioni di cui si discute».
Non vi è ragione, dunque, secondo i giudici di legittimità, per escludere le retribuzioni del rapporto di pubblico impiego risalente nel tempo dal novero delle erogazioni da porre in compensazione con il risarcimento oggetto della condanna, posto che qualsiasi retribuzione e compensazione per attività svolta a titolo lucrativo debba rientrarvi secondo i principi generali in materia.