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Giustizia e diritto: 50 anni del processo del lavoro

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di Tatiana Biagioni

Pubblicati su Guida al lavoro n. 48/2023 gli Atti del Convegno nazionale Agi

Le riflessioni emerse nel Dialogo sul processo del lavoro tenutosi nel corso del Convegno AGI di Lucca che ha visto la Presidente nazionale Agi a confronto con la Prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, con la moderazione dell’avvocato giuslavorista di AGI e consigliere della Fondazione Vincenzo Antonio Poso

Dopo 50 anni il processo del lavoro, nonostante una permanente crisi del sistema giustizia, gode di buona salute. Si è dimostrato in questi decenni il miglior modello, quello che ha restituito i risultati più soddisfacenti nel nostro Paese. Lo dimostra la recentissima riforma del processo civile che lo ha interessato solo in parte e che, anzi, ha rappresentato un “ritorno al passato”, come ha dimostrato l’abrogazione del rito Fornero. Il Dialogo che si è tenuto nel corso del Convegno AGI di Lucca che mi ha visto a confronto con la Prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, con la moderazione dell’avvocato giuslavorista di AGI e consigliere della Fondazione Vincenzo Antonio Poso, è stato un momento importante e dialettico dal quale ho tratto diverse riflessioni.

I problemi strutturali della giustizia sul processo del lavoro

È vero che anche nel processo del lavoro esistono problemi - anche forti - e differenze tra luogo e luogo, spesso legate alla carenza di personale e talvolta a difficoltà organizzative. E qui non posso che sottolineare i problemi strutturali: non si risolvono i problemi della giustizia - come taluni sostengono - sempre e solo agendo sul processo o rendendo più difficile l’accesso alla giustizia. Le criticità sono altrove e altrove andrebbero ricercate e risolte. In tema di accesso alla giustizia, in particolare, sono convinta che la tutela dei diritti e del giusto processo siano principi fondamentali in una società democratica: dobbiamo salvaguardarli così come il diritto alla salute. Risolvere i problemi della giustizia ostacolandone l’accesso sarebbe come risolvere il problema delle liste di attesa negli ospedali pubblici negando le cure. Attenzione, non è una assurdità: quando in piena pandemia le terapie intensive erano piene, gli ospedali sono stati costretti a respingere chi aveva meno chance.

L’attualità del processo del lavoro

La nostra società è profondamente mutata in questi cinque decenni con trasformazioni nel tessuto economico, sociale e politico che, chiaramente, hanno inciso sul sistema giustizia, sulla procedura, sul ruolo della magistratura e dell’avvocatura - dentro e fuori le aule dei tribunali - e sullo stesso diritto del lavoro. Il giurista contemporaneo si confronta con una realtà sempre più complessa (norme nazionali, norme europee, convenzioni internazionali), il che impone adeguata competenza e specializzazione, ma anche ragionevolezza: per risolvere le controversie non possiamo prescindere dal leggere la realtà con questa lente. Quindi eguaglianza sostanziale, che si traduce in effettività del diritto e della tutela, cardini del processo e stella polare, strada maestra nello svolgimento della nostra professione. Se il giurista prescinde da un’interpretazione ispirata a ragionevolezza, il rischio è quello di un anacronismo interpretativo (in contrasto con il proprio tempo) che mette a repentaglio la coerenza del sistema e un’applicazione delle disposizioni non coerenti con la ratio delle leggi. Un grande laboratorio, in tal senso, è stato l’approccio in tema di diritto antidiscriminatorio sia nel merito sia in riferimento al processo, soprattutto in relazione alle norme relative all’onere probatorio. Per esempio, la convenzione OIL sulle molestie ratificata dall’Italia a inizio anno definisce le molestie come comportamenti inaccettabili, mentre il nostro TU sulle pari opportunità parla di comportamenti indesiderati. Ecco un caso nel quale l’interpretazione della norma non potrà prescindere dalla ragionevolezza.

La tutela differenziata

Esiste una specificità del diritto del lavoro rispetto al diritto civile che giustifica una tutela differenziata. La specificità consegue alla natura fondamentale dei diritti coinvolti nel rapporto di lavoro e che dunque costituiscono oggetto del processo. Non a caso il giudice del lavoro è un giudice specializzato, l’unico con una competenza funzionale riconosciuta per legge. La specificità del processo del lavoro è uno degli ultimi passaggi attraverso il quale il legislatore ha dato attuazione al modello costituzionale che valorizza la centralità della persona nell’ambito dei rapporti giuridici. Rinvengo, onestamente, elementi nella realtà che mi inducono a pensare che la specificità del diritto del lavoro sia assolutamente attuale. Penso a fenomeni come la dematerializzazione del datore di lavoro, le delocalizzazioni della produzione e la proliferazione di professionalità che, in considerazione dell’apparente gestione autonoma del tempo e dello spazio di lavoro, sono prive delle tutele classiche riservate ai lavoratori. Ma più di ogni altra cosa mi convince la storia di questo processo: nessuno tocchi o modifichi ciò che in questo Paese funziona, ci sono tante altre cose da sistemare.

Il processo e la verità storica del fatto

Altra specificità: il processo deve condurre quanto più è possibile a raggiungere la verità storica del fatto. Coerentemente a tale obiettivo, e non alla supplenza dei poteri delle parti, il legislatore affida poteri officiosi al giudice del lavoro. Peraltro, nella mia esperienza personale riferita per massima parte al Tribunale di Milano, ma anche ad altre realtà italiane, l’utilizzo di tali poteri è stato del tutto residuale. I poteri conferiti al giudice del lavoro assumono un ruolo meramente integrativo rispetto ai mezzi di prova esperiti su istanza delle parti. Il giudice utilizza tali poteri nelle ipotesi di incertezza nella valutazione dei fatti oggetto del giudizio. I limiti ai poteri officiosi sono ben delineati dalla giurisprudenza che ha più volte specificato che l’esercizio dei medesimi presuppone la ricorrenza di alcune circostanze, per esempio l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa o l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti (Cass. n. 5878/2011). Nel rispetto di tali limiti, si conviene allora con la Corte di Cassazione secondo la quale l’uso dei poteri istruttori nel rito del lavoro non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio il giudice è tenuto a dare conto (Cass. 21204/2020). L’obiettivo dovrebbe sempre essere la verità storica dei fatti; quella la strada perseguita dal legislatore e, mi ripeto, non vedo motivi per cambiarla.

I fondamentali: oralità, concentrazione e immediatezza

Il principio dell’oralità è legato in maniera indissolubile ai principi di immediatezza e concentrazione: la trattazione orale, in udienza, dovrebbe svolgersi d’innanzi al medesimo giudice che poi deciderà la causa, il quale entra in contatto diretto con le parti, i loro difensori, i mezzi di prova e, in tempi brevi, dovrebbe arrivare alla decisione. Quindi possiamo sostenere che l’oralità è proprio il presupposto dell’immediatezza e della concentrazione e consente il libero contraddittorio delle parti in condizioni di parità. Cade l’oralità, cade il processo come lo intendiamo. Nel processo del lavoro occorre tener conto nel complesso delle esigenze di contestualità, di concentrazione, di immediatezza ed effettività del contradditorio. Nella realtà del processo del lavoro la modalità cartolare (per definizione asincrona) non può permettere il soddisfacimento delle esigenze di immediatezza e giusto processo. Per dirla con Giuseppe Chiovenda, l’oralità, propriamente intesa nel processo, significa prima di tutto assegnare alle parti la facoltà di proporre oralmente nel corso dell’udienza le proprie eccezioni, conclusioni e istanze, senza necessità di ricorso a forme scritte. Trattasi, per utilizzare le stesse parole dell’autore, della possibilità di servirsi della forma orale per comunicare al Giudice in udienza, direttamente e per la prima volta le proprie deduzioni anche se non siano state precedentemente esposte nelle scritture, le quali assumono una funzione preparatoria. Dunque, si può parlare di forma orale solo qualora quella forma sia idonea a raggiungere un autonomo scopo nel susseguirsi delle decadenze e preclusioni proprie dell’economia del processo.

Si può così concludere, dunque, per la necessità nel rito del lavoro della supremazia della forma orale fintanto che la stessa sia strumento di autonoma e rituale deduzione delle difese di parte, risultando in caso contrario recisamente frustato ogni effetto rispetto alle esigenze di concentrazione e immediatezza da sempre proprie del processo del lavoro. L’oralità, peraltro, oltre che una modalità di trattare la causa, declina il rapporto tra avvocati e giudice, che deve essere un rapporto di collaborazione e di fiducia. Il fine di questo rapporto di collaborazione e fiducia reciproca non è altro che un modo a mio avviso corretto per arrivare alla definizione di una controversia in tempi “corretti”, “giusti”. Quindi oralità anche come mezzo per ottenere la ragionevole durata di un processo.

Le criticità e i limiti della trattazione scritta e l’udienza da remoto

La trattazione scritta è un’altra cosa: è in contrasto con il processo del lavoro come inteso dal legislatore che lo ha ideato e non è in linea con quel processo di cui abbiamo parlato fino ad ora, lo snatura, lo rende qualcosa di diverso, non sarebbe più il vero processo del lavoro.

Le nuove disposizioni sulla trattazione scritta non sono compatibili con i principi di oralità e immediatezza che regolano il processo del lavoro e le interpreto come un tentativo di far uscire gli avvocati dal processo con conseguente preoccupante deumanizzazione del percorso di giustizia. Il processo è confronto, contraddittorio, presenza, si deve sentire la tensione della partecipazione delle parti per arrivare ad una verità storica dei fatti: la fine dell’udienza, che non vorrei fosse lo scopo ultimo, mette a mio avviso a repentaglio la tutela dei diritti e del diritto alla giustizia. È pensar male se parliamo di una idea volta a sondare la possibilità di espellere l’essere umano dalle funzioni sia di difensore sia di decisore? Per concludere, credo che la cartina tornasole sulla questione sarà ragionevolmente rappresentata dall’applicazione che i giudici nelle Corti di merito faranno della norma. L’AGI ha già avviato un’indagine in tal senso, dalla quale emerge un’applicazione a macchia di leopardo. Attendiamo, anche su questo punto, di avere un campione più rappresentativo per poter fare un bilancio applicativo.

Ben diversa, comunque, è l’udienza con collegamento audiovisivo, che con i giusti accorgimenti può essere utilizzata anche nelle controversie di lavoro e previdenziali. La discussione orale è un valore aggiunto, per questo la posizione in relazione ai collegamenti da remoto è del tutto diversa da quella della trattazione scritta.

La via italiana al common law?

Riguardo alla previsione dell’art. 363 bis c.p.c., se adoperato con cura dal giudice del merito e nel rispetto dei poteri delle parti in causa e quindi del contraddittorio, l’istituto potrebbe avere ricadute positive per rivitalizzare la funzione tradizionale di “nomofilachia”, garantire un’interpretazione uniforme, l’unità e la certezza del diritto nel nostro stato. Volgendo lo sguardo alla realtà, osservo tuttavia che nell’ambito di un ordinamento come il nostro al quale è estraneo il principio del vincolo del precedente, l’effettiva applicazione dell’istituto è demandata dalla partecipazione dei giudici a una comune pratica interpretativa. Occorre essere molto cauti in relazione a una interpretazione dell’istituto come una sorta di via italiana al common law. Il nostro è un ordinamento dove il precedente non è vincolante e l’introduzione di questo istituto può servire in casi particolari a indicare una coerente interpretazione, ma non potrà mai introdurre il principio del precedente vincolante. Civil law siamo e rimaniamo. In ogni caso, probabilmente è ancora presto per fare un bilancio effettivo. A oggi i rinvii pregiudiziali infatti risultano solo 23. Tuttavia, mi preme osservare che di questi rinvii molti sono stati definiti con pronuncia di inammissibilità per la mancanza del requisito della novità della questione interpretativa posta dal Tribunale rimettente. Mi chiedo, anche al fine della certezza del diritto, quale sia l’orientamento della Corte in merito all’interpretazione di tale requisito.

La collegialità, un valore

Altro nodo è la collegialità che è, e resta, una garanzia preziosissima. Se le argomentazioni addotte a sostegno della struttura giudicante unipersonale si pongono sul piano dell’efficienza e della celerità del processo, quelle a sostegno della collegialità vanno ricercate, condivisibilmente, nella “garanzia di ponderazione della deliberazione” e nel ruolo che la collegialità ricopre per assicurare il rispetto del principio di imparzialità del giudice ex art. 111, co. 2, Cost. Il collegio è il luogo naturale del dibattito, del confronto e della mediazione tra posizioni diverse. Del resto, «ciascuno di noi non riesce ad afferrare che una parte della realtà: il collegio rimedia a questa deficienza aumentando la propria visuale e così sostituendo la visione pluriloculare a quella di un occhio solo» (C. MASSA). Ricordo il mio professore di Filosofia del Diritto, Luigi Lombardi Vallauri, alla prima lezione, che non ho mai dimenticato. Ci disse, vi chiudo in una stanza, spalle al muro e al buio, e vi chiedo di allungare una mano e dirmi cosa sentite: qualcuno dirà una cosa appuntita e liscia, un altro una cosa finissima e arricciata, un altro ancora un parallelepipedo, ecc. Nella stanza c’era un elefante e ognuno toccava una parte: in alcune situazioni, al buio, le tre persone del collegio possono riconoscere l’elefante, una sola no. Dunque, se tali argomentazioni valgono per il giudizio di appello, non possono che valere per i giudizi innanzi alla Corte di Cassazione.

Atti brevi, il regolamento delle polemiche

Lasciamo infine il processo del lavoro per parlare dei nuovi limiti e criteri di redazione degli atti giudiziari nel civile. Personalmente non sono convinta che scrivere atti brevi possa accelerare i processi, inoltre non credo che la misura si rivelerà del tutto efficace. Sono certa, tuttavia, che l’avvocatura, e in particolare l’avvocatura del lavoro, si adeguerà alle disposizioni, forse si è già adeguata da anni, ma sono altrettanto certa che lo farà nella consapevolezza che le dimensioni di un atto non possono incidere sui mali atavici della giustizia e con la speranza che la magistratura non si senta autorizzata ad effettuare valutazioni stilistiche degli atti a discapito degli utenti della giustizia. Penso che anche un richiamo a una maggiore chiarezza nelle sentenze potrebbe essere a volte utile. Ma vi è di più. Qual è il significato dell’introduzione delle parole chiave, forse una migliore archiviazione delle successive sentenze? Oppure è l’inizio di quella deumanizzazione di cui parlavo prima, di un processo che vuole arrivare alla compilazione di modelli standard così restringendo il ruolo, fondamentale in democrazia, di una libera avvocatura? Governare il cambiamento, questa deve essere la rotta: cogliere l’occasione delle nuove tecnologie volte alla modernizzazione del sistema, ma facendo sempre grande attenzione alla tutela dei diritti.

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