Rapporti di lavoro

Le imprese: no al salario minimo, i contratti tutelano di più

di Giorgio Pogliotti

Coro di no ieri dalle parti sociali all’introduzione del salario minimo legale in Italia. Confindustria, Rete Imprese Italia e i sindacati nelle audizioni in commissione Lavoro alla Camera hanno ribadito le ragioni della loro netta contrarietà. L’attenzione è rivolta alla proposta Catalfo (M5S) di introdurre il salario minimo orario di 9 euro lordi al quale devono agganciarsi i contratti che presentano livelli retributivi inferiori, presentata a luglio del 2018 in commissione lavoro al Senato, dove è in standby anche per le resistenze espresse all’interno della maggioranza dalla Lega: oggi si riunirà nuovamente la commissione che attende il parere della Bilancio sugli emendamenti.

«Il perimetro delle garanzie e delle tutele offerte al lavoratore dei contratti nazionali è ben più esteso del mero trattamento economico minimo», ha sottolineato il direttore Area Lavoro, Welfare e Capitale umano di Confindustria, Pierangelo Albini, ricordando che il salario non può essere trattato come una «variabile indipendente» ed essere fissato a «valori arbitrari», in quanto «la sua determinazione ha conseguenze dirette sul mercato del lavoro, sulle scelte delle imprese e sulla competitività della nostra economia». Albini ha richiamato i dati Ocse: «Tenendo conto dei livelli del costo della vita e dei tassi di cambio, 9 euro corrispondono a 11,5 dollari in parità di potere d’acquisto. Fissare il salario minimo legale a quel valore posizionerebbe il nostro Paese al primo posto tra i Paesi Ocse». I 9 euro lordi orari corrispondono all’80% del salario orario mediano del nostro Paese, considerando che la media Ocse è pari al 51%, «l’Italia avrebbe il salario minimo più disallineato rispetto al salario mediano». Confindustria ha ricordato le stime degli effetti sul maggior costo del lavoro comprese tra 4,3 miliardi (secondo l’Istat) e 6,7 miliardi (dall’audizione dell’Inapp del 17 giugno).

Confindustria è anche contraria alla proposta formulata dai M5S che sia la legge a determinare il meccanismo di adeguamento dei salari al costo della vita: «Le modalità e la misura per l’adeguamento delle retribuzioni all’inflazione costituiscono uno dei temi più importanti di trattativa e di scambio contrattuale - ha detto Albini -. Affidare questo aspetto allo strumento legislativo determina uno svuotamento dell’esercizio dell’autonomia privata collettiva». Infine una stoccata al ministro Di Maio: «È un anno, ormai, che il ministero del Lavoro, più volte sollecitato, non consente di rinnovare la convenzione sottoscritta dalle parti stipulanti l’accordo interconfederale del 2014 con l’Inps, per raccogliere i dati e determinare l’effettivo grado di rappresentanza dei sindacati in ogni settore produttivo».

In precedenza era intervenuto Giorgio Merletti, presidente di Rete Imprese Italia e di Confartigianato Imprese, per ribadire che col salario minimo «si creerebbero difficoltà alle imprese e finirebbero penalizzati proprio i lavoratori i cui salari sarebbero schiacciati sulla soglia minima e verrebbero privati del welfare contrattuale». Cgil, Cisl e Uil propongono di individuare in ogni settore un contratto di riferimento stipulato dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a cui dare valore erga omnes.

Anche sul versante politico il M5S appare isolato. Ieri dal viceministro dell’Economia, il leghista Massimo Garavaglia, è arrivata una ennesima frenata: non so «quali saranno le coperture, vediamo quanto costa e chi paga». La risoluzione della Lega alla Camera presentata da Elena Murelli limita il salario minimo legale «ai soli settori non regolati dalla contrattazione collettiva». Guarda ai lavoratori non coperti dai contratti anche la risoluzione firmata da Debora Serracchiani (Pd) che prende a riferimento i minimi tabellari individuati dalla contrattazione, con il coinvolgimento delle parti sociali.

Il confronto internazionale

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©