Nei contratti individuali a termine meglio dettagliare le causali collettive
La giurisprudenza ha ritenuto necessario specificare i motivi di rinnovo. Se un Ccnl non regola anche la somministrazione, spazio all’autonomia individuale
Il decreto Lavoro (Dl 48/2023) assegna un ruolo importante alla contrattazione collettiva nella disciplina del lavoro a termine: spetta alle parti sociali, in via primaria, il compito di definire i «casi» nei quali è consentita la proroga oltre i 12 mesi oppure il rinnovo dei rapporti a tempo (diretti o in regime di somministrazione di manodopera).
Un ruolo talmente centrale da consentire l’intervento delle parti individuali del rapporto (il datore e il singolo dipendente) solo «in assenza» di una disciplina di tali casi all’interno di un contratto collettivo nazionale, territoriale o aziendale firmato da organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Questo principio è molto chiaro: se c’è una disciplina collettiva, non resta spazio per l’autonomia individuale; se la disciplina collettiva manca, le parti del rapporto hanno spazio di manovra. Ma la sua declinazione concreta dovrà fare i conti con alcuni dubbi interpretativi.
Un primo dubbio è di carattere cronologico: i contratti collettivi cui rinvia il Dl 48/2023 sono solo quelli sottoscritti dopo l’entrata in vigore della riforma (quindi, dal 5 maggio scorso in poi) oppure il decreto si riferisce anche ad accordi siglati prima? Questa ipotesi è tutt’altro che teorica, in quanto esistono già molti accordi collettivi che, sulla base di normative precedenti (per esempio quelle previsti dal decreto Sostegni bis, o anche le intese di prossimità), individuano casi e condizioni di utilizzo del lavoro a tempo. La risposta al quesito dovrebbe essere positiva: valgono anche le intese preesistenti. Il decreto Lavoro, infatti, non pone limiti temporali rispetto alla data di sottoscrizione delle intese, assegnando, piuttosto, un ruolo decisivo al loro contenuto: deve esserci una disciplina del lavoro a tempo e questa deve riguarda i «casi» che legittimano la proroga oltre i 12 mesi o il rinnovo.
Un altro dubbio riguarda la sorte di accordi collettivi che citano espressamente norme non più vigenti (per esempio la vecchia stesura dell’articolo 19 del Dlgs 81/2015, nella versione modificata dal decreto Dignità). Di norma, queste intese dovrebbero mantenere efficacia ogni volta che il rinvio alla legge non più vigente resti compatibile con la nuova normativa; tuttavia, dovrà essere fatta una verifica caso per caso al fine di comprendere se la volontà espressa dalle parti stipulanti è coerente con il cambio normativo.
Un dubbio non infrequente potrebbe, inoltre, porsi rispetto a quei contratti che disciplinano soltanto il lavoro a termine e non anche la somministrazione di manodopera: come interpretare questo silenzio? L’esistenza di una disciplina collettiva determina l’effetto preclusivo su entrambi gli istituti? In questo caso sembra dover prevalere una lettura diversa: se il contratto collettivo disciplina solo una fattispecie (per esempio il lavoro a termine), non si può dire che per l’altra (somministrazione a termine) esiste una disciplina negoziale dei «casi» e quindi può rimanere spazio per l’autonomia individuale.
Un altro tema applicativo riguarda la declinazione concreta dei «casi» previsti dal contratto collettivo all’interno dei singoli contratti: i datori di lavoro potranno limitarsi a copiare nel contratto di lavoro uno dei casi previsti dall’intesa collettiva, oppure dovranno specificare quella clausola generale rispetto al singolo rapporto? La legge su questo non offre indicazioni, ma sarebbe opportuno tenere conto dell’orientamento giurisprudenziale formatosi nel primo decennio del millennio, quando le corti – di merito e di legittimità – hanno messo in evidenza con forza la necessità di indicare causali specifiche e dettagliate nei singoli contratti.
Un ultimo dubbio riguarda la portata della scadenza che il decreto fissa in relazione allo spazio lasciato all’autonomia individuale: il meccanismo alternativo resterà in vigore solo fino al 30 aprile 2024 (a meno di modifiche legislative), dopo tale data i rapporti a termine potranno essere prorogati oltre i 12 mesi o rinnovati solo nei casi previsti dagli accordi collettivi. La questione che si pone riguarda lo spazio negoziale delle parti: potranno prorogare o rinnovare i rapporti avendo cura di non indicare una durata che vada oltre tale scadenza, oppure potranno indicare qualsiasi scadenza (nei limiti di legge), a patto che l’accordo di proroga o rinnovo sia firmato entro il 30 aprile? Diversi precedenti interpretativi fanno propendere per questa seconda opzione, ma la prudenza è d’obbligo su un tema che ha sempre visto prevalere un approccio restrittivo della giurisprudenza.