Contrattazione

Nel piano Ue di UniCredit lavoro smart anche in filiale

di Cristina Casadei

Immaginarsi nel futuro, oggi, è quanto di più difficile si possa fare. L’incertezza del momento costringe a rivedere spesso le idee e le decisioni, come stiamo vedendo. Con il capo delle risorse umane di UniCredit, Paolo Cornetta, abbiamo però provato a entrare in quel flusso inarrestabile che vive ogni grande organizzazione e che costringe a guardare avanti. A quei 2.600 giovani che di qui al 2023 entreranno nel gruppo e al lavoro che verrà. Per le 80mila persone della banca di piazza Gae Aulenti (di cui poco meno della metà in Italia) questo vuol dire almeno tre cose: opportunità da cogliere, flessibilità e Europa. Nelle scorse settimane l’ad Jean Pierre Mustier e il presidente del Comitato aziendale europeo, Luciano Malvolti hanno siglato una dichiarazione congiunta sul lavoro da remoto che contiene alcuni aspetti sul futuro della banca in Europa. Tra questi c’è anche l’impegno all’estensione dello smart working a chi lavora in filiale. «È un documento con cui vogliamo dare una visione per il futuro. Oggi viviamo in una situazione di nuovo lockdown che non viene visto con piacere dalle persone perché toglie la libertà. Il lavoro da remoto, in un’azienda come la nostra, ha consentito di salvaguardare le attività core. Nella prima ondata per noi è stato fondamentale e ci ha consentito di lavorare nella massima continuità operativa e piena sicurezza. Ora che lo smart working è stato pienamente acquisito, non va considerato come un sinonimo di lockdown, ma come un’opportunità di lavoro flessibile. In passato si pensava che le persone in smart working fossero meno produttive, non potessero accedere ai percorsi di carriera e ad attività formative. L’esperienza di questi mesi ha mostrato che non è vero. Il lavoro da remoto è un grande strumento di flessibilità per le persone e può aiutarle a modulare le proprie esigenze personali con quelle dell’azienda», dice Cornetta. La seconda volta del lockdown, però, rischia di spegnere gli entusiasmi e l’unità, complice anche l’evoluzione della curva pandemica e la crisi economica che, oramai è chiaro, influenzerà ogni decisione.

Il tempo del lavoro da remoto
Oltrepassiamo, virtualmente, le porte girevoli della torre di piazza Gae Aulenti, per vedere cosa succede. Se consideriamo l’Italia, nel corporate center, il 90% delle persone lavora da remoto e anche i colleghi delle filiali sono coinvolti nella nuova modalità di lavoro, seppure con percentuali diverse. «Il futuro non sarà così - sostiene Cornetta -. L’Italia può considerarsi un paese molto avanzato nella normativa e anche nell’utilizzo del lavoro da remoto, insieme ad Austria e Germania. Nei paesi dell’est Europa, invece, c’è una normativa meno avanzata e come organizzazione paneuropea vogliamo dare le stesse opportunità a tutte le nostre persone. Con la joint declaration abbiamo voluto sviluppare un approccio globale comune per offrire a tutti lo stesso standard attraverso il dialogo sociale locale che resta l’unico momento di reale negoziazione su questo tema, nel rispetto delle normative e dei contratti vigenti. Con questa Joint Declaration ci siamo dati l’obbiettivo futuro, a livello di gruppo, di offrire al personale che opera nelle sedi e negli uffici centrali, mediamente il 40% del tempo di lavoro, ossia l’equivalente di 2 giorni a settimana, distribuito su base settimanale o mensile, da remoto. Sempre, ovviamente, su base volontaria. Nel network, invece, ci sarà la possibilità del 20% del tempo di lavoro, distribuito su base settimanale o mensile. Con questa dichiarazione abbiamo voluto prendere l’impegno ad offrire la possibilità di fare smart working anche a chi lavora in filiale. Ovviamente si tratta di linee guida globali che poi discuteremo con le sigle sindacali dei singoli Paesi».

Il diritto alla disconnessione
Tra i punti della dichiarazione ce ne è uno che «definisce chiaramente il diritto alla disconnessione. La nostra dichiarazione congiunta a livello europeo è un modo per rispondere alle esigenze dei colleghi: viviamo in un mondo che sta cambiando molto velocemente e vogliamo che il modo di lavorare di UniCredit si adegui. Il nostro gruppo aveva già introdotto in passato il lavoro da remoto, ma era percepito come residuale e da utilizzare in maniera limitata. La crisi pandemica ha però mostrato che questa modalità di lavoro non peggiora la produttività e le persone hanno cominciato a scoprirne i vantaggi. Pur essendo stati tra le prime società a lanciarlo non abbiamo mai avuto livelli di adesione significativi. Questo periodo di crisi ha fatto scoprire il valore che può avere non dover viaggiare due ore al giorno per andare al lavoro, o avere orari diversi da quelli canonici dell’ufficio, o per i capi, gestire i team da remoto senza comprometterne l’efficienza». Tutto ciò ha portato l’organizzazione stessa a cambiare e a creare le condizioni per rendere la nuova modalità di lavoro reale quando la crisi sarà alle spalle. Per il lavoro che verrà, però, Cornetta non immagina una situazione simile a quella attuale, ma nemmeno un ritorno al passato. «Ci dovranno essere momenti in sede perché è importante confrontarsi con gli altri e perché il lavoro da remoto non stimola la creatività, da alternare a momenti da casa dedicati alle attività più di processo. Abbiamo stabilito che bisogna rispettare i colleghi e offrire un ambiente di lavoro che possa adattarsi alle esigenze delle persone per poter realizzare una maggiore inclusione. Non devono esserci penalizzazioni per chi lavora da remoto e stessi percorsi di crescita, formativi e un trattamento economico che dipende esclusivamente dal contributo che le persone danno all’organizzazione».

Un welfare da 300 milioni
Il welfare nel gruppo UniCredit è sempre stato un capitolo importante che col tempo si è via via arricchito. «In Italia investiamo circa il 10% del costo del lavoro su base annua in iniziative di welfare – afferma Cornetta -: stiamo parlando di circa 300 milioni di euro. In questo momento abbiamo concentrato la nostra attenzione sul tema della salute e del benessere mentale offrendo alle nostre persone supporto psicologico, allargando le tutele per chi si ammala di Covid e le coperture assicurative. Non ultimo, per sostenere i colleghi abbiamo anche sottoscritto convenzioni commerciali con primari partner per agevolare l’acquisto di arredi e di materiale per lavorare in smart working».

L’investimento tecnologico
Anche se oggi siamo tutti stanchi di passare le nostre giornate connessi via web, a misurarci con tante faccine, le tecnologie hanno aiutato molto in questa fase. Il gruppo UniCredit ha fatto un importante investimento per fornire alle sue persone device portatili e connessioni , al punto che oggi è stato sostituito quasi l’80% delle postazioni fisse. Nel contempo è stata potenziata la rete per consentire a tutti di avere la stessa operatività sui prodotti. Solo per dare un numero, la Vpn (virtual private network) a livello di gruppo consente quasi 65mila connessioni dall’esterno su 80mila dipendenti. Tutto questo avviene in parallelo al lavoro sulla formazione dei colleghi sui diversi driver, basata sulle specificità delle diverse popolazioni aziendali. Per tutto il personale abbiamo lavorato sul contatto con la clientela e sulla vendita dei prodotti da remoto, mentre sui quasi 8mila manager abbiamo lavorato sulla gestione di team a distanza, gli accorgimenti nella comunicazione, che deve essere molto frequente, e nell’interazione con gli altri».

Il turn over
Lo sguardo verso il futuro porta il ragionamento fino alla staffetta generazionale in corso nell’organizzazione che avverrà con le tempistiche dell’accordo siglato la scorsa primavera: quindi le 5.200 uscite volontarie - le adesioni sono già arrivate tutte - avverranno entro il 2023, così come le 2.600 assunzioni. Limitandoci al 2020, entro fine anno il gruppo arriverà a 800 nuovi ingressi. Chi crede che il lavoro in banca abbia perso appeal, però, si sbaglia perché, come racconta Cornetta, le candidature sono molte migliaia. Soltanto per l’ultimo Impact graduate program, destinato a poche decine di persone, sono arrivate 3mila candidature. Non sempre però i profili sono quelli ideali. «I nuovi mestieri della banca sono così nuovi che spesso è difficile trovare il candidato giusto - dice il manager -. La maggioranza di coloro che arrivano dall’università hanno una laurea di tipo umanistico, molto meno di tipo scientifico. Tra le nuove professionalità di cui siamo alla ricerca cito solo un paio di esempi. La banca ha bisogno di processare molti miliardi di informazioni ogni giorno e ha bisogno di persone che analizzino e valutino i dati per aiutare l’azienda a prendere decisioni. I data analyst e i data scientist sono le figure che, tecnicamente, hanno il background scientifico necessario. A questi si affiancano tutti i professionisti impegnati nel processo di digitalizzazione non solo per semplificare i processi, ma anche perché è importante che l’investimento in Ict e informatica sia efficace. I ruoli in banca oggi si sono moltiplicati e ci sono tutte le attività delle grandi industrie, dal marketing all’Ict. Questo apre molte possibilità per i giovani». Mentre il gruppo sta continuando a investire su di loro, consapevole della difficoltà del momento, Cornetta dice ai ragazzi «di non scoraggiarsi e di continuare a investire in se stessi, cercando di avere una visione il più europea possibile nella formazione. Noi siamo cittadini dell’Europa».

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