Previdenza

Pensioni, stretta sulle rivalutazioni, le minime salgono fino a 600 euro

Assegni bassi più robusti con il mix aumento e perequazione, indicizzazione ridotta per quelli oltre i 2.600 euro

di Marco Rogari

Un confronto proseguito fino al Consiglio dei ministri. È quello che ha visto protagonisti tecnici del governo e partiti della maggioranza per arrivare alla versione finale del capitolo previdenza da inserire nella prima manovra del governo Meloni. Punto fermo del pacchetto le nuove uscite anticipate con il mix Quota 41 e 62 anni d’età anagrafica (di fatto Quota 103), che scatteranno il 1° gennaio del 2023 e che permetteranno di evitare il ritorno alla legge Fornero in versione integrale dopo lo stop a fine anno della Quota 102 targata Draghi-Franco. Nella giornata di ieri appariva certa anche la stretta sulle rivalutazioni degli assegni pensionistici più elevati, anche se fino all’ultimo sono state soppesate diverse ipotesi per la sua modulazione. Così come per aprire la strada a un leggero aumento delle pensioni minime. Che, per effetto dell’intesa raggiunta prima del Cdm dopo l’intenso pressing di Forza Italia, saliranno a circa 600 euro mensili compreso però il ritocco del 7,3% già previsto per l’adeguamento al caro vita. E per tutta la giornata sul tavolo è rimasta anche una modifica dei requisiti di accesso a Opzione donna (prorogata di un anno insieme all’Ape sociale) per renderla più appetibile soprattutto alle lavoratrici autonome.

Il tema più caldo è in ogni caso stato quello del contenimento dell’indicizzazione dei trattamenti più alti. Fino a ieri sera veniva data per sicura la conferma della rivalutazione piena (ovvero del 7,3% fissato dal decreto emanato nelle scorse settimane dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti) per gli assegni fino a quattro volte il minimo Inps (523,38 euro prima dell’anticipo della perequazione erogato all’inizio di questo mese): in altre parole, anche nel 2023 rivalutazione del 100% per le pensioni sotto il tetto di 2.097 euro lordi al mese. L’attuale schema prevede poi adeguamenti del 90% per i trattamenti tra quattro e cinque volte il minimo, e del 75% per quelli superiori a quest’ultima soglia. Ed è proprio su queste due fasce che è proseguito il confronto. Con un focus sulla variabile dei risparmi conseguibili: 1,5 miliardi con la riduzione dell’indicizzazione dal 75% al 50% per le pensioni superiori a cinque volte il minimo, cioè a 2.621 euro lordi al mese; più del doppio facendo scendere al 50% anche la perequazione tra le quattro e le cinque volte il minimo. I tecnici hanno valutato anche altre opzioni, come quella di una correzione più a vasto raggio del meccanismo per scaglioni.

Tra i nodi che sono stati affrontati ieri anche quello della modifica degli attuali requisiti d’accesso a Opzione donna, che consente alle lavoratrici il pensionamento anticipato, con il ricalcolo contributivo dell’assegno, a 58 anni (59 se ”autonome”) e 35 di versamenti. Un restyling, quello abbozzato prima del Cdm, per rendere più appetibile questo strumento, come indicato nei giorni scorsi dal ministro del Lavoro, Marina Calderone. Che nelle prossime settimane convocherà le parti sociali per aprire il tavolo sulla riforma organica delle pensioni da avviare nel 2024 con l’obiettivo di superare la legge Fornero.

Le uscite con 62 anni e 41 di contributi saranno possibili per il solo 2023. Una soluzione ponte fortemente voluta dalla Lega, che con il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, l’ha di fatto congegnata e che la considera il primo passo verso Quota 41 in forma “secca” da far scattare tra due o tre anni. È di quasi 48mila lavoratori la platea potenziale interessata per i prossimi dodici mesi da questa misura, che dovrebbe costare circa 700 milioni (1,4 miliardi l’anno successivo), mentre il complesso degli interventi in chiave di flessibilità in uscita impatterebbe per almeno un miliardo sui conti pubblici.

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