Per lo smart working dopo l’emergenza obiettivo sostenibilità
Con la direttiva Ue sull’applicazione dei principi Esg anche il lavoro agile può diventare una carta da giocare per le imprese
C’è una lettera che nei prossimi anni sarà sempre più ricorrente nelle aziende, in particolare negli uffici dedicati alle risorse umane, ed è la lettera «S», che fa parte dell’acronimo Esg, ovvero Environmental (ambiente), Social (società) e Governance. Social sta per sostenibilità economica e sociale, vale a dire la gestione e l’organizzazione delle risorse umane, «delle quali oggi lo smart working è un pilastro importante», spiega Arianna Visentini, founder di Variazioni, società società specializzata nel Change management& Smart working.
Chiusa, dunque, la fase legata all’emergenza pandemica, con la scadenza del prossimo 30 giugno (si veda l’altro articolo in pagina), il lavoro da remoto si prepara a inaugurare una nuova stagione. Facciamo un passo indietro: il 28 novembre 2022 il Consiglio europeo ha approvato in via definitiva la direttiva relativa alla comunicazione societaria sulla sostenibilità. Un intervento in base al quale, dal 2024 in poi (quattro le fasi, l’ultima nel 2028), in relazione alla propria dimensione, le imprese dovranno rendicontare in modo dettagliato informazioni relative alle questioni di sostenibilità, come i diritti ambientali, i diritti sociali, i diritti umani e fattori di governance. «La Corporate sustainability reporting directive - spiega Visentini - sancirà una serie di obblighi per le organizzazioni, dalle più strutturate sino alle più piccole della filiera di fornitura. Chi non si adeguerà - continua - rischia di uscire dal mercato, sia perché l’accesso al credito sarà più caro, sia per il rischio di esclusione dai rapporti con la Pa e dai bandi pubblici, sia infine per una minore attrattività nei confronti dei talenti e degli investitori».
Due i capitoli in cui lo smart working giocherà un ruolo. Il primo è strettamente ambientale, laddove la direttiva specifica che le aziende sono «tenute a comunicare eventuali piani per garantire che il loro modello e la loro strategia aziendali siano compatibili con la transizione verso un’economia sostenibile e con gli obiettivi di limitare il riscaldamento globale a 1,5° C in linea con l’accordo di Parigi e di conseguire la neutralità climatica entro il 2050». A questo proposito l’osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano ha rilevato a fine 2022 che l’applicazione dello smart working (su due giorni a settimana) «permette di ottenere benefici a livello ambientale riducendo le emissioni di CO2 di circa 450 Kg annui per persona. Considerando il numero degli smart worker attuali pari a 3, 57 milioni di lavoratori, l’impatto a livello di sistema Paese sarebbe pari a 1,5 milioni di tonnellate annue di CO2 in meno. Tale quantità è pari a quella assorbita da una superficie boschiva di estensione pari a circa otto volte quella del comune di Milano».
Il secondo aspetto riguarda più strettamente la governance e le condizioni di lavoro. La direttiva infatti chiarisce che «le imprese devono comunicare riguardo a fattori sociali, comprese le condizioni di lavoro (...), la contrattazione collettiva, l’uguaglianza, la non discriminazione, la diversità, l’inclusione e i diritti umani. Tali informazioni dovrebbero riguardare l’impatto dell’impresa sulle persone, compresi i lavoratori, e sulla salute umana». E per quanto non si citi espressamente il lavoro da remoto si allude alla condizione di benessere. Ebbene sempre secondo il Polimi tra i lavori in smart working il “benessere psicologico” è diffuso per il 42% contro il 29 degli addetti non in smart e il benessere relazionale è al 33% per i primi, al 18 tra i secondi. Non a caso proprio su questo passaggio si focalizza la survey che Variazioni ha lanciato a inizio maggio e che si concluderà a giugno (il link per partecipare è: https://variazioni.info/survey-2023/).