Rapporti di lavoro

Sicurezza e Covid-19: le carenze del Protocollo del 24 aprile sui lavoratori asintomatici

di Massimiliano Arlati e Luca Barbieri

Nel solco già tracciato da numerose disposizioni che si sono succedute nel corso della crisi sanitaria, l’articolo 4 del Dpcm 3 dicembre 2020 ha stabilito che, per contenere la diffusione del contagio da Covid-19 in occasione di lavoro, le attività produttive industriali e commerciali sono condotte in osservanza delle prescrizioni contenute nel Protocollo del 24 aprile 2020, ovvero in protocolli condivisi di regolamentazione vigenti con riferimento a specifici ambiti di competenza.

La staticità del protocollo

Nonostante il fenomeno epidemico sia in continua trasformazione, e con esso il quadro normativo emergenziale, l’impianto del Protocollo 24 aprile 2020 ha attraversato le fasi dell’emergenza sanitaria senza che le parti stipulanti abbiano introdotto modificazioni volte ad affinarne l’effettiva capacità di contrastare il rischio di contagio nei luoghi di lavoro.Peraltro, la staticità del Protocollo è in palese contrasto con l’essenziale carattere di dinamicità che l’articolo 2087 del Codice civile attribuisce all’obbligo di sicurezza del datore di lavoro, che è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, alla luce della particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica. Il dispositivo giuridico illustrato in estrema sintesi prospetta un conflitto - forse insanabile - quando solo si consideri come l’articolo 29-bis del Dl 23/2020 reputi adempiuto l’obbligo di cui al citato articolo 2087 del codice civile quando il datore di lavoro abbia adempiuto alle prescrizioni del Protocollo 24 aprile 2020. Tuttavia, il datore di lavoro può essere giudicato adempiente all’obbligo di sicurezza quando si attenga al Protocollo (statico) ovvero quando, venuto a conoscenza di fonti di rischio di contagio che le misure del Protocollo stesso non sono in grado di contrastare, adotti, alla luce di una rigorosa valutazione dei rischi, misure “equivalenti”, introducendo nuove e ulteriori accorgimenti tecnici od organizzativi?

Il sistema di prevenzione e protezione va aggiornato

In una prospettiva di effettività delle misure di prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro, non può che ritenersi percorribile la soluzione che impegna il datore di lavoro ad aggiornare il proprio sistema di prevenzione e protezione, raccordando, per quanto possibile, il già richiamato articolo 4 del Dpcm 3 dicembre 2020 con l’articolo 29, comma 3 del Dlgs 81/2008, per effetto del quale la valutazione dei rischi è «immediatamente rielaborata in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità» (che, nel caso in esame, potrebbe essere portata in evidenza dal Comitato aziendale costituito ai sensi del paragrafo 13 del Protocollo 24 aprile 2020 per l’applicazione e la verifica delle regole contenute nel protocollo sanitario aziendale).

Un esempio emblematico dell’insufficienza del Protocollo 24 aprile 2020 può essere rinvenuto nell’inadeguatezza delle prescrizioni ivi contenute a contrastare le fonti di rischio di contagio rappresentate dai lavoratori asintomatici o in fase pre-sintomatica. La letteratura medico-scientifica non pare esiti con riguardo al fatto che il soggetto che pur non manifesti sintomi possa essere contagioso. Più recentemente è emerso che anche il lavoratore che abbia già contratto il virus, ma che non manifesti ancora alcun sintomo può essere contagioso. In entrambi i casi, il solo rilevamento della temperatura corporea al momento dell’ingresso nelle pertinenze aziendali non può costituire una misura consona a contrastare il rischio che, anche sul piano statistico, risulta non essere remoto, ma anzi significativo.

Indagini sierologiche e test

L’attuale tecnologia offre una serie di soluzioni che, anche in combinazione tra loro, possono contribuire a ridurre notevolmente il rischio di contagio: ad esempio le indagini sierologiche, che il datore di lavoro può decidere di condurre secondo procedure e termini concordati con il medico competente (e, se stabilito dalla normativa regionale, previa autorizzazione dell’autorità sanitaria). Il ricorso a test sierologici, qualitativi o quantitativi, così come a tamponi molecolari o antigenici così come a test salivari può dunque contribuire a contenere l’esposizione al rischio di contagio dei lavoratori, considerando in ogni caso che le condotte extralavorative possono incidere in misura non trascurabile sull’efficacia delle misure adottate (in tal senso, analisi anamnestiche consentono di raccogliere elementi rilevanti ai fini della definizione di una politica aziendale di tutela della salute che certamente incide anche sui paradigmi organizzativi dell’impresa).

Ancora più fragile e di difficile gestione e coordinamento è il rischio di contagio rappresentato da soggetti asintomatici o in fase pre-sintomatica qualora il teatro lavorativo presenti rischi interferenziali dovuti alla compresenza di più datori di lavoro (appaltatori e subappaltatori, ad esempio). In questa ipotesi, può soccorrere, ancora una volta, la procedura delineata dall’articolo 26 del Dlgs 81/2008, che attribuisce una cruciale funzione promotrice e di coordinamento al committente.

I temi sopra esposti anticipano problematiche che sia sul piano giuridico, sia sul piano organizzativo si presentano ora nuovamente riguardo al vaccino: emergono infatti numerosi quesiti circa la possibilità di somministrare il vaccino come misura di tutela della salute sui luoghi di lavoro.

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