Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Risoluzione per mutuo consenso

Licenziamento disciplinare

Licenziamento per giusta causa

Risarcimento del danno per licenziamento illegittimo

Licenziamento e tentativo obbligatorio di conciliazione

Risoluzione per mutuo consenso

Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2015, n. 2053

Pres. Curzio; Rel. Fernandes; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. M.L.;

Lavoro subordinato - Tempo determinato - Scadenza del termine apposto illegittimamente - Inerzia del lavoratore - Risoluzione del rapporto per mutuo consenso - Configurabilità - Limiti

Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé insufficiente a far ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Roma, che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, condannando il datore di lavoro a riammettere in servizio la lavoratrice ed al pagamento in favore di quest'ultima dell'indennità ex art. 32 della legge 183/2010. Nello specifico, infatti, la Corte territoriale aveva ritenuto, diversamente da quanto affermato dal Giudice di primo grado, insussistente un'ipotesi di scioglimento del contratto per mutuo consenso.

La società proponeva, quindi, ricorso per cassazione, criticando la sentenza impugnata per aver rigettato l'eccezione di definitivo scioglimento del rapporto per tacito mutuo consenso dei contraenti, senza aver tenuto conto non solo del comportamento inerte della lavoratrice, che evidenziava il disinteresse al ripristino del rapporto, ma anche di fatti ulteriori rispetto al mero decorso del tempo, quale la mancata adesione della lavoratrice agli accordi sindacali stipulati dalla società e intesi a regolarizzare la posizione di molti ex lavoratori a tempo determinato ed il reperimento medio tempore da parte della lavoratrice di altra occupazione.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha innanzitutto affermato che, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso (v. sul punto Cass. n. 23057/2010 e Cass. 5887/2011). Ebbene, nella fattispecie la Corte d'Appello aveva osservato che il mero decorso del tempo non era di per sé elemento da cui poter desumere un disinteresse della lavoratrice alla prosecuzione del rapporto, non potendo avere alcun significato in tal senso, inoltre, la mancata adesione di quest'ultima agli accordi sindacali stipulati dalla società, in quanto la richiesta di inserimento nelle graduatorie non garantiva la certezza dell'assunzione a tempo indeterminato. Inoltre, ha precisato la Corte che anche la ricerca medio tempore di un posto di lavoro non poteva essere significativa di un disinteresse alla instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in quanto volto a garantire il reperimento di mezzi di sostentamento.

Tale accertamento di fatto risulta, a detta della Corte, aderente al principio sopra richiamato e resiste alle censure della società ricorrente che si incentrano genericamente su una diversa lettura della inerzia, pur prolungata, della lavoratrice. Sulla base di tali principi la Corte di Cassazione ha pertanto concluso per il rigetto del ricorso.




Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2015, n. 2021

Pres. Macioce; Rel. Amendola; P.M. Fresa; Ric. M.C.; Controric. G.B.S. S.c.p.A.;

Licenziamento individuale - Contestazione disciplinare - Requisiti di immediatezza, specificità e immutabilità - Necessità - Limiti

L'immediatezza della contestazione disciplinare e la tempestività dell'irrogazione della relativa sanzione può in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso.
Il requisito della specificità della previa contestazione dell'addebito, necessario nei licenziamenti disciplinari, non è integrato dalla certezza dei fatti addebitati ma dalla idoneità della contestazione a realizzare il risultato perseguito dalla legge ossia a consentire al lavoratore una puntuale difesa, ed a tal fine si richiede soltanto che la contestazione individui i fatti addebitati con sufficiente precisione, anche se sinteticamente, per modo che non risulti incertezza circa l'ambito delle questioni sulle quali il lavoratore è chiamato a difendersi.
In tema di licenziamento disciplinare, la violazione del principio di immutabilità della contestazione non può essere ravvisata in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, occorrendo verificare se tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore.

Nota

Ad un dipendente di una compagnia assicurativa, addetto ad un centro di liquidazione danni, veniva contestato di aver autorizzato pagamenti di sinistri per importi superiori al proprio limite di competenza, nonché di aver autorizzato il pagamento di sinistri che, presentavano varie incongruenze, senza aver verificato l'interruzione dei termini prescrizionali e senza aver richiesto una visita medica sui pretesi danneggiati. Il lavoratore, in sede di giustificazioni, rilevava la tardività degli addebiti contestati, contestava l'esistenza e la conoscenza di un limite di competenza per i pagamenti e dichiarava che era sua abitudine non richiedere visite mediche, accontentandosi del parere del medico reso sulla base della sola documentazione esibita dal danneggiato, negando infine qualsivoglia negligenza tenuto conto che le somme da lui liquidate erano di molto inferiori rispetto alla richiesta dei danneggiati. Il Datore di lavoro, non accettava tali giustificazioni e procedeva al licenziamento.

Il Tribunale di Matera confermava la legittimità del licenziamento rigettando il ricorso del lavoratore con sentenza poi confermata dalla Corte d'Appello di Potenza. Il dipendente proponeva ricorso in cassazione e la Società resisteva con controricorso e ricorso incidentale condizionato.

I motivi del ricorso principale promosso dal dipendente erano sostanzialmente relativi all'asserita violazione del principio di immediatezza della contestazione, poiché la Società era già a conoscenza dei fatti addebitati, nonché dei principî di specificità e immutabilità della contestazione disciplinare, lamentando, in particolare, che i giudici di merito avevano preso in considerazione anche fatti, dedotti dalla convenuta solamente in sede di costituzione in giudizio, che non gli erano stati previamente contestati.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso principale, dichiarando assorbito il ricorso incidentale condizionato.

Per quanto riguarda la pretesa violazione del principio di immediatezza, la Corte di Cassazione ha chiarito come tale principio risponda a svariate esigenze: quella di tutelare l'affidamento che il lavoratore deve poter riporre sulla rinuncia del datore di lavoro a punire una mancanza disciplinare, nel caso in cui questa rinuncia si manifesti nel comportamento concludente del datore stesso, il quale, pur essendo a conoscenza della mancanza, mostri inequivocabilmente con la propria inerzia la volontà di non sanzionarla; quella di impedire l'"indugio malizioso" da parte del datore di lavoro nell'esercizio del potere disciplinare, volto ad indurre il lavoratore a ripetere il comportamento scorretto, per aggravarne la posizione; e, soprattutto, quella di assicurare al lavoratore l'agevole esercizio del diritto di difesa, che potrebbe essere compromesso dal trascorrere di un considerevole lasso di tempo tra l'adozione della condotta addebitata e l'inizio del procedimento disciplinare. Ciò posto, la Suprema Corte ha richiamato il proprio consolidato orientamento secondo cui il requisito dell'immediatezza debba essere interpretato in senso relativo, essendo necessario verificare, secondo le circostanze del caso concreto (e quindi tenendo conto anche dell'eventuale complessità della struttura organizzativa dell'impresa), il tempo necessario al datore di lavoro per acquisire la conoscenza del fatto, nelle sue essenziali, e la relativa imputabilità al lavoratore. Deve peraltro escludersi una violazione di tale requisito ogni qual volta il lasso temporale intercorso tra fatto e relativa contestazione non sia stato tale da determinare una violazione del diritto di difesa del lavoratore.

Con riguardo al requisito di specificità della contestazione, la Corte di Cassazione ha ribadito che tale principio deve considerarsi rispettato quando, nella contestazione disciplinare, sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari, consentendogli così il pieno esercizio del proprio diritto di difesa.

Infine, in relazione alla lamentata violazione del principio di immutabilità della contestazione, la Suprema Corte ha riaffermato il principio secondo cui tale violazione non possa essere ravvisata in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, ma solo quando tale divergenza abbia comportato, in concreto, una violazione del diritto di difesa del lavoratore. Richiamando il consolidato orientamento in materia, la Corte ha concluso che non integra una violazione di tale requisito la deduzione, da parte del datore di lavoro, di circostanze nuove che siano solamente confermative degli addebiti già contestati, in relazioni alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero di modificazioni degli addebiti che non integrino una diversa fattispecie di illecito disciplinare.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 21 gennaio 2015, n. 1026

Pres. Macioce; Rel. Berrino; P.M. Matera; Ric. S.C.; Controric. E.S. s.p.a.;

Licenziamento per giusta causa - Comunicazione del recesso - Motivi - Riferimento sintetico al contenuto della lettera di contestazione - Sufficienza

Nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore l'essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell'addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l'indicazione dei motivi, ad una motivazione "penetrante", analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, nè in particolare è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza, e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle.

Nota

La Corte di appello di Lecce confermava la sentenza impugnata che aveva rigettato il ricorso del lavoratore diretto alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento inflittogli dalla società datrice ed alla conseguente richiesta di reintegra.

In particolare, riteneva la Corte che l'addebito disciplinare posto a base del licenziamento, consistito nella mancata contabilizzazione ad opera del lavoratore di parte degli importi versati dai contribuenti con relativa appropriazione dei contributi versati, risultava essere stato chiaramente comunicato al dipendente e che il relativo procedimento disciplinare si era correttamente svolto.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso il lavoratore fondato su tre motivi.

In primo luogo, il ricorrente censurava la sentenza impugnata ritenendo che erroneamente il giudice di appello avesse fondato la propria decisione in via esclusiva sulle dichiarazioni rese dal lavoratore in sede di audizione personale, nel corso del procedimento disciplinare - dichiarazioni che lo stesso lavoratore aveva successivamente contestato -, non consentendogli di esperire i mezzi istruttori, ritualmente richiesti, ai fini della verifica della insussistenza della intenzionalità degli addebiti disciplinari.

Il ricorrente censurava, inoltre, il giudizio di proporzionalità della sanzione espresso dalla Corte di appello, rilevando che la Corte territoriale non aveva considerato i motivi che avevano determinato i comportamenti addebitatigli (enorme mole di lavoro; sottrazione, da parte di ignoti, della busta contenente gli importi che avrebbero dovuto essere contabilizzati; mancata tempestiva denunzia alla datrice di lavoro per timore di provvedimenti disciplinari), che egli aveva chiesto di provare coi summenzionati mezzi istruttori.

Ed infine, il ricorrente ha contestato la sentenza impugnata ritenendo che erroneamente la Corte di merito avesse rigettato la censura avente ad oggetto la carenza di motivazione del provvedimento di recesso, tenuto conto che tale provvedimento si limitava a richiamare il contenuto della lettera di contestazione degli addebiti, senza ulteriori spiegazioni.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso. Osservava la Corte che i giudici di appello, con argomentazioni logiche e del tutto immuni da vizi giuridici, avevano attentamente valutato il materiale istruttorio raccolto ritenendolo di per sé sufficiente ai fini del decidere, tenuto conto sia delle evidenze documentali emerse a carico del lavoratore nel corso del procedimento disciplinare, sia della successiva ammissione dei fatti contestati da parte del medesimo, il quale, in sede di audizione personale e con l'assistenza di un rappresentante sindacale, aveva ricollegato gli episodi contestati ad una serie di contingenti difficoltà finanziarie dovute alla necessità di restituire prestiti personali di vario genere. Inoltre, ha osservato la Cassazione, che la Corte di appello, attraverso una corretta analisi complessiva della fattispecie, aveva adeguatamente formulato il giudizio di proporzionalità della sanzione, tenendo conto di diversi fattori, quali la incontestata sussistenza degli episodi oggetto di addebito disciplinare, il notevole disvalore insito nelle condotte illecite contestate - consistite nella ricezione di somme di denaro dei contribuenti senza la registrazione degli incassi, con relativa appropriazione dei contributi versati -, la idoneità delle stesse condotte a porre in dubbio la futura correttezza degli adempimenti di lavoro, la delicatezza della funzione di riscossione dei tributi assolta dal dipendente:

fattori tutti che avevano inevitabilmente comportato la conseguente frattura del vincolo fiduciario. Infine, ribadendo un proprio orientamento consolidato, la Suprema Corte ha escluso che la lettera di licenziamento potesse considerarsi affetta dai vizi contestati (carenza di motivazione), rilevando che la comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro ad una motivazione "penetrante", analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, nè a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza, e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle (in senso conforme Cass. 09 febbraio 2006, n. 2851).




Risarcimento del danno per licenziamento illegittimo

Cass. Sez. Lav. 13 gennaio 2015, n. 345

Pres. Macioce; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. G.B.; Controric. U. S.p.A.;

Danno esistenziale - Voce del danno non patrimoniale - Liquidazione equitativa - Indici della liquidazione

Il danno esistenziale non integra una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientra nel c.d. danno non patrimoniale, la cui liquidazione è il risultato di una valutazione equitativa del giudice del merito, basata su tutte le circostanze del caso concreto, quali, in particolare, l'attività espletata dal lavoratore, le condizioni sociali e familiari del danneggiato e la gravità delle lesioni e degli eventuali postumi permanenti.

Nota

Nel caso di specie, a seguito dell'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore, il giudice di primo grado ne ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro. Successivamente, il lavoratore accettava la proposta conciliativa economica formulatagli dal datore di lavoro e, pertanto, rinunciava alla predetta reintegrazione. Veniva dunque promosso dal lavoratore un giudizio avente ad oggetto una domanda di accertamento della sussistenza del danno esistenziale e una di accertamento della sussistenza del danno biologico in capo allo stesso, dipendenti dall'illegittimità del predetto licenziamento, che si concludeva in primo grado con l'accoglimento della prima domanda e il rigetto della seconda.

La Corte territoriale adita confermava la predetta decisione del giudice di prime cure, affermando che la prova della sussistenza del suddetto danno esistenziale, così come la congruità della sua liquidazione equitativa, compiuta nel primo grado di giudizio, era stata correttamente valutata dal giudice di prime cure in considerazione delle ripercussioni negative che il licenziamento intimato al lavoratore aveva avuto sulle sue abitudini di vita (sia sotto il profilo del conseguente stato di disoccupazione, sia dal punto di vista degli effetti sulle relazioni interpersonali) e sulla sua situazione reddituale; in particolare, secondo la Corte d'Appello adita in assenza di elementi attestanti l'impossibilità del lavoratore, riconducibile al licenziamento intimatogli, di soddisfare le sue ordinarie esigenze quotidiane di vita, doveva ritenersi corretta la liquidazione equitativa del danno esistenziale individuata dal giudice di primo grado nella misura del 10% delle somme corrisposte al lavoratore medesimo in occasione della predetta conciliazione, dividendo l'importo convenuto per il numero di mensilità di retribuzione cui il lavoratore aveva rinunciato. Ciò in quanto, come rilevato dalla Corte territoriale adita, erano da escludersi nel caso di specie ripercussioni di natura patrimoniale, stante l'accertata situazione patrimoniale del lavoratore, con valutazione positiva del criterio adottato dal Giudice di primo grado, giudicato plausibile a fronte di una liquidazione equitativa, in riferimento alla sfera della personalità del lavoratore licenziato e dei riflessi della perdita del posto di lavoro sulla sua condizione di vita quotidiana e dello stato delle sue relazioni personali.

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato dal lavoratore avverso la predetta decisione di merito e, in particolare, in relazione al parametro equitativo utilizzato dal Giudice adito per la liquidazione del danno, afferma con la sentenza in commento che l'unica possibile forma di liquidazione di ogni danno privo delle caratteristiche della patrimonialità, come è il caso del danno esistenziale, è quella equitativa, essendo il ricorso a questo criterio insito nella natura di tale danno e nella funzione del risarcimento mediante la dazione di una somma di denaro; tale somma non è, infatti, reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, bensì compensativa di un pregiudizio non economico. Pertanto, secondo la Suprema Corte, il giudice del merito non può farsi carico di indicare quali ragioni hanno determinato il fatto che il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, circostanza questa che costituisce la condizione per il ricorso alla valutazione equitativa prevista dall'art. 1226 c.c. Una precisa quantificazione pecuniaria è possibile, infatti, solo qualora esistano parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare. Tuttavia, rimane fermo il dovere del giudice del merito di dar conto delle circostanze di fatto considerate nel compimento della valutazione equitativa e del percorso logico che ha determinato il risultato finale della liquidazione; a tale ultimo fine il giudice deve considerare tutte le circostanze del caso concreto e, specificamente, l'attività espletata dal lavoratore, le condizioni sociali e familiari del danneggiato, la gravità delle lesioni e degli eventuali postumi permanenti (cfr. in tal senso Cass. 12 maggio 2006, n. 11039 e Cass. 20 ottobre 2005, n. 20320).

In ragione di quanto precede, la Corte di Cassazione con la pronuncia in esame afferma che correttamente ha operato il Giudice del merito ove, nella determinazione della somma da liquidare al lavoratore a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale di cui è stato riconosciuto vittima, ha tenuto conto della mancanza di una specifica allegazione dei fatti comprovanti così come dell'esistenza stessa e dell'entità del predetto danno esistenziale, che, peraltro, non integra una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientra nel danno non patrimoniale. Pertanto, conclude la Suprema Corte, il danno esistenziale non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato, richiedendosi, nei casi in cui sia risarcibile come danno non patrimoniale, che sussista da parte del lavoratore richiedente l'allegazione degli elementi di fatto dai quali sia possibile desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio (si veda Cass. S.U. 16 febbraio 2009, n. 3677).




Licenziamento e tentativo obbligatorio di conciliazione

Cass. Sez. Lav. 23 gennaio 2015, n. 1244

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Ceroni; Ric. A. s.p.a.; Controric. D.C.;

Licenziamento - Impugnazione - Decadenza - Richiesta alla DTL del tentativo obbligatorio di conciliazione - Idoneità a sospendere il decorso del termine di decadenza - Sussistenza - Erronea indicazione della parte datoriale - Conseguenze - Irrilevanza se la richiesta alla DTL raggiunge il suo scopo

Alla luce di una lettura costituzionalmente orientata (Corte cost. n. 276 del 2000 e n. 477 del 2002) delle norme applicabili in materia di decadenza dal potere di impugnare il licenziamento, non è necessario che l'atto di impugnazione del licenziamento giunga a conoscenza del destinatario - ovvero, in particolare, che esso pervenga all'indirizzo del datore di lavoro - nel termine di sessanta giorni previsto dall' art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, per evitare la decadenza dalla facoltà di impugnare, in quanto, ai sensi dell'art. 410, secondo comma, c.p.c, il predetto termine (processuale con riflessi di natura sostanziale) si sospende a partire dal deposito dell'istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l'impugnativa scritta del licenziamento, presso la commissione di conciliazione, divenendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l'ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione.

Nota

La Corte d'Appello di Ancona ha confermato la sentenza di primo grado dichiarativa dell'illegittimità di un licenziamento per giusta causa, ritenendo tempestiva l'impugnazione del recesso effettuata dal lavoratore sul presupposto che la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione era stata inviata alla DTL entro il termine di 60 giorni di cui all'art. 6 L. 604/66, seppur l'impugnazione del licenziamento era pervenuta al datore di lavoro - per mezzo della lettera di convocazione spedita dalla DTL - solo in un momento successivo.

La Corte territoriale sottolineava, inoltre, l'irrilevanza dell'essere la richiesta alla DTL rivolta a soggetto formalmente diverso dal datore di lavoro (società capogruppo in luogo della controllata titolare del rapporto) dato che, in seguito alla correzione dell'errore da parte della DTL, l'atto aveva comunque raggiunto lo scopo, avendo consentito al vero datore di partecipare al tentativo di conciliazione.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi ed il lavoratore ha resistito con controricorso.

Mediante entrambi i motivi la sentenza viene censurata per avere la Corte territoriale trascurato che la richiesta alla DTL era stata proposta verso un soggetto formalmente diverso dal datore di lavoro nonché che la convocazione effettuata dalla DTL e la partecipazione del reale datore al tentativo di conciliazione erano successive al decorso dei 60 giorni prescritto a pena di decadenza.

La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi sottolineando, anzitutto, che, affinché la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione sia validamente effettuata, non è necessaria l'esatta indicazione della parte datoriale, che non è prescritta a pena di nullità, essendo nel caso in esame l'errore rimasto privo di conseguenze, dato che l'atto ha raggiunto il suo scopo mediante la partecipazione del reale datore al tentativo di conciliazione.

Chiarita la validità della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, la Suprema Corte ha esposto il principio di cui alla massima, aderendo ad un suo consolidato orientamento sul punto (Cass. 9 Giugno 2014, n. 12890; Cass. 22 luglio 2010 n. 17231; Cass. 19 giugno 2006, n. 14087), ed evidenziando che, anche con riferimento all'impugnativa di licenziamento proposta contestualmente alla richiesta di TOC, opera il principio della scissione tra il momento di invio dell'atto e quello della ricezione da parte del datore, dovendosi aver riguardo solo al primo momento al fine di valutare la tempestività dell'atto, sempre che poi lo stesso sia pervenuto al datore, sebbene oltre il termine.

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