Contenzioso

La proposta del part-time vale ad assolvere l’obbligo di repêchage

di Giulia Bifano e Massimiliano Biolchini

Le norme che disciplinano la modifica dell'orario di lavoro da full-time a part-time, oggi contenute nel Jobs act, sono chiare: il rifiuto del dipendente di trasformare il proprio orario lavorativo da tempo pieno a tempo parziale, o viceversa, non può costituire giustificato motivo di licenziamento. Fermo restando tale divieto, la giurisprudenza negli anni è stata chiamata a interrogarsi sull'operatività di una simile disposizione nei casi in cui la proposta datoriale di modificare l'orario lavorativo del dipendente sia connessa al tentativo di ricollocare il lavoratore a seguito di una riorganizzazione aziendale, al fine di evitare il recesso dal rapporto per motivo oggettivo. In sostanza, dunque, i tribunali italiani hanno frequentemente dovuto interrogarsi sul bilanciamento tra, da una parte, la tutela offerta al dipendente dalla norma che ne impedisce ogni forma di discriminazione o ritorsione connessa al rifiuto di modificare il proprio orario di lavoro e, dall'altra parte, il diritto del datore di lavoro a riorganizzare l'attività aziendale secondo il paradigma della propria libertà imprenditoriale.

Con l'ordinanza 1499/2019 la Cassazione fa chiarezza su tale importante questione, confermando come debba ritenersi dimostrato l'avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro che, in alternativa al licenziamento, proponga al dipendente in esubero di modificare il proprio orario di lavoro. La decisione trae origine dalla vicenda di una lavoratrice, la quale, licenziata nell'ambito della dismissione delle attività del dipartimento aziendale presso cui era impiegata, aveva rifiutato la riduzione dell'orario lavorativo in alternativa al recesso, vedendosi così licenziata per giustificato motivo oggettivo. Nel proporre ricorso, la dipendente adduceva a fondamento della pretesa illegittimità del provvedimento espulsivo il fatto che l'offerta di modificare l'orario di lavoro non potesse costituire un valido tentativo di repêchage, avendo peraltro la società datrice di lavoro assunto una nuova risorsa a tempo pieno a distanza di un anno dal licenziamento, affidando a quest'ultima anche mansioni dapprima espletate dalla ricorrente.

Nel convalidare le conclusioni rese dalla Corte d'appello di Ancona nel senso della legittimità del licenziamento, tuttavia, i giudici di Cassazione hanno ritenuto la proposta di trasformazione del rapporto di lavoro da full-time a part-time sufficiente a comprovare l'avvenuto tentativo di repêchage da parte del datore di lavoro e, a tal proposito, hanno sottolineato come non potesse neppure attribuirsi valore all'assunzione di nuovo personale, poiché avvenuta in conseguenza della cessazione di un altro rapporto di lavoro, risolto in un momento successivo alla risoluzione del rapporto della lavoratrice ricorrente. Ed infatti, fermo restando che per aversi la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere data prova, oltre che della genuinità della riorganizzazione aziendale, dell'assoluzione da parte del datore di lavoro del proprio obbligo di tentare la ricollocazione del dipendente in altre posizioni organizzative prima di procedere al recesso, quest'ultimo obbligo ben può essere assolto con la proposta al lavoratore di ridurre il proprio orario di lavoro, nei casi in cui non vi siano posizioni a tempo pieno in cui ricollocare la risorsa in esubero.

Solo in apparente contrasto con le disposizioni del Jobs Act, dunque, la Corte di legittimità opera così un necessario bilanciamento tra le ragioni datoriali e quelle dei lavoratori dipendenti, delineando i confini della norma posta a tutela di coloro che rifiutino di ridurre il proprio orario lavorativo. In conclusione, dunque, si consolida l'orientamento giurisprudenziale secondo cui le norme atte a prevenire la ritorsione o la discriminazione in sfavore di chi rifiuti una modifica al proprio tempo di lavoro non possono trovare applicazione laddove tale proposta sia volta ad evitare il licenziamento per motivo oggettivo: in tal caso, pertanto, il recesso datoriale può considerarsi legittimo.

L'ordinanza n. 1499/2019 della Corte di cassazione

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