Rapporti di lavoro

Per il Mef l’iscrizione all’Albo rende obbligatoria la partita Iva

di Matteo Ferraris

Da tempo la dottrina sostiene che la partita Iva sia un privilegio. Da molto più tempo le misure legislative messe in campo dai vari legislatori tendono a evidenziare regimi semplificati a favore degli operatori marginali e azioni tese a eliminare le partite Iva inattive e, quindi, inutili.

La competenza tematica su tali azioni è del ministero dell'Economia e delle Finanze (Mef). Ecco, allora, che appare una sorta di cortocircuito ciò che emerge dalla nota 4594 del 25 febbraio scorso con cui lo stesso Mef (dipartimento delle Finanze) considera che i soggetti iscritti a ordini professionali siano ipso facto obbligati all'adozione di una partita Iva anche quando svolgono attività professionali benché non abituali.

La questione è esplosa a seguito di un quesito sottoposto all'attenzione del dipartimento delle Finanze da parte di Inarcassa il 22 gennaio 2015 (si veda la nota 13/Pres/2015) con cui sono state richieste spiegazioni al dipartimento in merito al dossier 448/2014 elaborato dal Centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri. Il dossier 448/2014, effettua una forzatura interpretativa in tema di “collaborazioni occasionali”, concludendo che per gli iscritti agli albi professionali la normativa prevede un'eccezione in merito ai limiti imposti nei rapporti di prestazioni occasionali. In particolare, secondo il Centro studi, gli iscritti a un albo professionale che svolgono un lavoro dipendente avrebbero potuto svolgere anche prestazioni occasionali senza limiti di tempo, compenso e senza l'obbligo di partita Iva.

L'interpretazione del Centro studi pare abbia innescato una reazione tra gli autonomi “puri” nei confronti dei liberi professionisti “ibridi” (vale a dire con reddito prevalente derivante da attività eterogenee, non solo di lavoro autonomo). La questione pare essere di volgare concorrenza: secondo il dipartimento, le attività per le quali è richiesta l'iscrizione a un albo professionale «nel caso in cui un professionista, che svolge attività professionale a latere di un rapporto di lavoro dipendente, sia messo in grado di avanzare un'offerta economica sulla quale non gravi né l'Iva né il contributo integrativo si produrrebbe un effetto dumping», come evidenziato da Inarcassa.

Appare, dunque, evidente che la questione ha attivato particolari reazioni in un contesto specifico (in cui l'Iva è un costo per il committente) coincidente con la pubblica amministrazione e, in particolare, le Ctu in ambito giudiziario, tanto che la questione è divenuta un elemento di alterazione dell'ordinato andamento del mercato evocando la parola “dumping”.

A valle dell'istruttoria, il dipartimento ha chiarito che l'esercizio di un'attività professionale per la quale è necessaria l'iscrizione all'albo comporta gli stessi obblighi previdenziali e fiscali a prescindere se si tratti di una prestazione occasionale o continuativa. Una evidente forzatura dei criteri sanciti con l'articolo 5 della legge Iva e una evidente contraddizione con quanto statuito dalla circolare 207/E/2000 in cui la sfera del reddito di lavoro dipendente (sia pura assimilato) poteva, addirittura, assorbire l'assoggettamento all'Iva dell'operazione. Interpretazione (forzata allora) errata come l'interpretazione (anch'essa forzata) più recente.

La nota del dipartimento ha, infatti, destrutturato la ricostruzione normativa operata dal Centro studi rilevando che la somma di due elementi (la presenza di un reddito di lavoro dipendente e la produzione di redditi marginali) ove l'attività di lavoro autonomo sia svolta da un soggetto iscritto in albo professionale in relazione ad attività tipiche della professione (per cui il soggetto è iscritto al predetto albo) comporta che i relativi compensi siano considerati redditi da lavoro autonomo, con conseguente integrale soggezione degli stessi alla relativa disciplina.

La ricostruzione appare corretta nel criticare l'interpretazione meccanica proposta dal Consiglio degli ingegneri che alimentava una sorta di franchigia per le collaborazioni sino a 30 giorni di durata e 5mila euro di valore. Dove il dipartimento risulta a nostro avviso fallace è nelle conclusioni in cui sembra imporre l'obbligo della partita Iva in presenza di mero obbligo di iscrizione ad albo professionale.

Tale specifico requisito non è, infatti, imposto dalla norma tributaria nell'articolo 5 della legge Iva, così come nell'articolo 53 del testo unico delle imposte sui redditi. L'iscrizione ad albo professionale risulta, infatti, una qualificazione delle competenze individuali (eventualmente necessarie per qualificare un atto) che nulla hanno a che fare con i requisiti richiesti dalle norme richiamate e, in particolare, con l'abitualità di una prestazione professionale.

In realtà, si è persa un'occasione per fare chiarezza e, contemporaneamente, ridurre il numero delle posizioni Iva, evocando, però, concetti assolutamente corretti:
-ai fini Iva, infatti, l'abitualità dello svolgimento dell'attività professionale prescinde dalla sua dimensione economica e, perciò, non rileva se il reddito da lavoro autonomo sia o meno prevalente rispetto al reddito di lavoro dipendente;
-l'abitualità deve essere accertata esaminando la natura e le caratteristiche dell'attività e l'iscrizione a un albo può essere indicativa dello svolgimento di un'attività professionale ma non la sua abitualità.

Appare corretto considerare che non sia la durata o il valore della singola prestazione a qualificare la collaborazione sotto il profilo civilistico, giuslavoristico e, da ultimo, fiscale e previdenziale. I concetti appaiono eterogenei ai fini dell'Iva e delle imposte dirette come evidenziato dalla circolare 207/E/2000 che, con analoga e dirigistica interpretazione, ebbe ad assorbire nell'ambito del lavoro dipendente talune prestazioni di lavoro autonomo, superando la vis attractiva prevista dall'articolo 5 della legge Iva.

Appare, dunque, evidente come a colpi di interpretazione si addomestichi la prassi mentre dovrebbe essere la legislazione a fissare criteri identici per ciò che impatta sui tributi e contributi tipici delle attività di lavoro autonomo. Ci pare, dunque, che sia stata un'occasione sprecata per fare chiarezza sui prerequisiti per la qualificazione della soggettività passiva Iva alimentando il numero delle posizioni Iva, non tanto inattive quanto piuttosto inutili.

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