Contenzioso

Rassegna della Cassazione 7 - 25 novembre 2014

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Il lavoratore può testimoniare contro il collega che lo ha aggredito

Licenziamento per fatti di rilevanza penale e mancata affissione del codice disciplinare

La subordinazione nel lavoro a domicilio

Nessun risarcimento per il demansionamento se manca la prova del danno e del nesso causale

Legittima l'assemblea sindacale tenuta all'esterno dell'unità produttiva

Il lavoratore può testimoniare contro il collega che lo ha aggredito

Cass., sez. lav., 25 novembre 2014, n. 25015

Pres. Vidiri; Rel. Napoletano; P.M. Matera; Ric. U.V.; Controric. S.E.C. Spa

Lavoro subordinato - Diverbio litigioso tra dipendenti con passaggio alle vie di fatto - Licenziamento per giusta causa - Sussistenza - Capacità a testimoniare del lavoratore aggredito - Condizioni - Sussistenza

L'interesse che determina l'incapacità a testimoniare ai sensi dell'art. 246 c.p.c. è solo quello giuridico, che comporta una legittimazione litisconsortile o principale ovvero secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri controinteressati.

Tale interesse, pertanto, non si identifica con l'interesse di mero fatto che un testimone (come, nella causa relativa alla legittimità del licenziamento, la persona aggredita dal collega licenziato) può avere a che la controversia sia decisa in un certo modo.

Nota - La Corte d'appello di Bologna, riformando la decisione di primo grado, rigettava la domanda di impugnazione del licenziamento per giusta causa, intimato ad un lavoratore, al quale era stato contestato, tra l'altro, di aver scaraventato contro un collega una scrivania ubicata nel magazzino e di non aver prestato assistenza al collega ferito. Il ricorrente aveva ammesso il solo lancio del tavolo, mentre il collega aggredito aveva integralmente confermato l'addebito. Ad avviso della Corte territoriale la condotta tenuta dal ricorrente era d'intrinseca gravità trattandosi di una aggressione alla persona.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva il lavoratore; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo inammissibile e comunque infondato il motivo con cui il lavoratore lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 246 c.p.c., in materia di incapacità a testimoniare, laddove la Corte territoriale aveva ammesso la deposizione resa dal dipendente aggredito dal ricorrente. La Corte di cassazione, sul punto, ha ribadito che la norma secondo cui sono incapaci a testimoniare le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, deve essere interpretata nel senso che, al fine di escludere la capacità a testimoniare, un soggetto deve essere titolare di un interesse giuridico tale da comportare una legittimazione litisconsortile o principale ovvero secondaria ad intervenire nel giudizio, rimanendo invece irrilevante che un testimone abbia un interesse, di mero fatto, riguardo all'esito della controversia. La sentenza ribadisce quindi quanto già affermato nella precedente pronuncia n. 20731 del 3 ottobre 2007, secondo cui addirittura il collega di lavoro del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare per un fatto addebitato ad entrambi i lavoratori può rendere la propria testimonianza, in quanto non è titolare di un interesse che possa legittimare la sua partecipazione al giudizio avente ad oggetto solo la sanzione disciplinare irrogata al collega.

La Corte di cassazione, infine, ha ritenuto infondato anche l'altro motivo con cui il ricorrente lamentava che la Corte d'appello avesse erroneamente valutato l'elemento soggettivo, per non aver considerato le circostanze in cui era avvenuto il litigio. La Corte, sul punto, ha avallato la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui aveva correttamente valorizzato la ridotta capacità di autocontrollo sul posto di lavoro e, soprattutto, l'intenzionalità del comportamento del ricorrente.



Licenziamento per fatti di rilevanza penale e mancata affissione del codice disciplinare

Cass., sez. lav., 21 novembre 2014, n. 24881

Pres. Vidiri; Rel. Amendola; P.M. Celentano; Ric. P.F.; Controric. P.R.A.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Sanzioni disciplinari - Predisposizione ed affissione del codice disciplinare - Sanzioni relative a comportamenti integranti violazioni del cd. minimo etico o illecito penale - Esclusione

L'onere di redazione e affissione del codice disciplinare non si estende a quei fatti il cui divieto risiede nella coscienza sociale, intesa quale cd. minimo etico, o in norme di rilevanza penale.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Palermo che aveva respinto la domanda della lavoratrice volta ad ottenere la declaratoria di invalidità del licenziamento disciplinare irrogatole.

Nello specifico, la Corte territoriale aveva ritenuto fondato l'addebito contestato alla lavoratrice, integrante l'ipotesi di reato di abuso d'ufficio, ritenendo che la procedura disciplinare non potesse, nella fattispecie, essere inficiata dalla mancata affissione del codice disciplinare.

Con uno dei motivi di ricorso la lavoratrice ha dedotto che la Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere irrilevante il vizio formale della mancata affissione del codice disciplinare, che essa riteneva necessaria per il fatto che l'atto di licenziamento faceva riferimento ad una precisa disposizione del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.

Sul punto, la Corte di cassazione ha affermato che, per consolidato orientamento, si deve ritenere che in tutti i casi in cui il comportamento sanzionato sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al cd. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere all'affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni previste dal codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (cfr. tra le varie Cass. n. 1926/2011, e con riferimento ai dipendenti pubblici Cass. n. 25099/2006).

Nella specie la Corte territoriale ha dunque legittimamente ritenuto non necessaria la pubblicità del codice disciplinare per i fatti contestati che, appunto, consistevano nella commissione di un reato (abuso d'ufficio).

Inoltre, la circostanza che nell'atto di licenziamento si facesse riferimento ad una disposizione della contrattazione collettiva non escludeva che il lavoratore, a prescindere dalla conoscenza di essa, ben potesse rendersi conto della illiceità della propria condotta.

Sulla base di tali principi la Corte di cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso della lavoratrice.



La subordinazione nel lavoro a domicilio

Cass., sez. lav., 13 novembre 2014, n. 24223

Pres. Coletti De Cesare; Rel. D'Antonio; P.M. Ceroni; Ric. D. Snc; Controric. Inps

Lavoro a domicilio - Subordinazione - Caratteristiche - Fattispecie

Il lavoro a domicilio è qualificabile di natura subordinata allorquando il lavoratore utilizzi le macchine fornite dall'imprenditore, venga istruito da quest'ultimo e percepisca una retribuzione oraria, essendo irrilevante, in tal caso, lo svolgimento di attività lavorativa per altri committenti.

Nota - La Corte di appello di Venezia confermava la sentenza del giudice di primo grado, emessa in un giudizio nel quale era parte l'Inps, con cui era stata affermata la sussistenza di due rapporti di lavoro subordinato a domicilio di due lavoratrici, ritenendo che le dichiarazioni rese agli ispettori dalle stesse consentissero di concludere per la natura subordinata dei rapporti.

Inoltre, in parziale accoglimento dell'appello incidentale dell'Istituto previdenziale, la Corte territoriale quantificava la somma dovuta dalla società per contributi, utilizzando i dati acquisiti dal Ctu con riferimento alla determinazione delle giornate soggette a contribuzione e, quindi, tenendo conto del numero delle giornate intercorse tra la data di affidamento del lavoro da svolgere e quella corretta di presumibile riconsegna dello stesso, così come determinato dal consulente, in tal modo superando i profili di erroneità dei tempi di riconsegna indicati sui libretti di lavoro, dal datore di lavoro, in misura inferiore. Avverso tal pronuncia proponeva ricorso la società. Innanzitutto, la società contestava la sentenza nella parte in cui, ai fini della determinazione della base retributiva su cui calcolare i contributi, si era basata sulle risultanze della Ctu per accertare la correttezza o meno dei tempi di riconsegna stimati dalla società ed indicati sui libretti dei lavoratori.

In secondo luogo, la ricorrente denunciava violazione degli artt. 2222 e 2697 c.c., ribadendo l'insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con le lavoratrici.

La Corte di cassazione rigettava il ricorso e confermava la sentenza impugnata, rilevando che la Corte di appello aveva seguito un percorso logico-giuridico corretto e, perciò, insindacabile in sede di legittimità, laddove, dopo aver richiamato i principi applicabili alla fattispecie del lavoro a domicilio, aveva desunto la concreta ricorrenza del lavoro subordinato sulla base di un positivo e completo accertamento di tutte le circostanze di fatto emerse dall'istruttoria.

In particolare, con riferimento ad una delle due lavoratrici, correttamente la Corte di appello aveva dato rilevanza alle circostanze che la stessa era stata addestrata dalla società, che la società le aveva fornito i macchinari (almeno due su tre) e che la lavoratrice aveva prestato la sua attività per la società come unica committente.

Per quanto riguarda la seconda lavoratrice, invece, il giudice di merito aveva ritenuto irrilevante l'elemento dello svolgimento di lavoro per altri committenti tenuto conto che, anche in tal caso, essa utilizzava macchine fornite dalla società, dalla quale era stata istruita (e trattandosi di un lavoro ripetitivo non erano necessari ulteriori istruzioni o direttive) e percepiva una retribuzione oraria.



Nessun risarcimento per il demansionamento se manca la prova del danno e del nesso causale

Cass., sez. lav., 7 novembre 2014, n. 23798

Pres. Vidiri; Rel. Patti; P.M. Matera; Ric. D.S. Spa; Controric. P.I. Spa

Mansioni - Demansionamento - Danno per perdita di guadagni e alla professionalità - Danno non patrimoniale - Onere di allegazione e prova del danno e del nesso causale in capo al lavoratore - Mancata prova - Risarcimento del danno - Non spetta

Al lavoratore vittima di demansionamento non spetta il risarcimento del danno per perdita di guadagni e sviluppo professionale, oltre che per danno biologico, psichico e morale, qualora non abbia fornito idonea allegazione e prova del danno subito e del nesso causale tra il danno e l'inadempimento datoriale.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione conferma la decisione del giudice territoriale adito, che, pur accertando l'illegittimo demansionamento di un dipendente, aveva respinto la conseguente domanda di risarcimento del danno per perdita di guadagni e sviluppo professionale, oltre che per danno biologico, psichico e morale, in difetto di idonea allegazione e di prova; infatti, tali danni, secondo la Corte d'appello adita, non possono considerarsi un'automatica conseguenza del demansionamento, necessitando, al contrario, di adeguata allegazione e prova, nonché della prova del nesso causale con l'inadempimento datoriale.

La Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso promosso dal lavoratore, ribadisce il principio secondo cui il danno professionale conseguente ad un demansionamento (quale possibile componente sia di un danno patrimoniale, anche in termini di perdita di chances, sia di un danno non patrimoniale) deve essere provato da chi lo deduce per chiederne il risarcimento; tale prova può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche e soprattutto quando trattasi di danno non patrimoniale, attraverso l'allegazione, quali presunzioni aventi i caratteri della gravità, precisione e concordanza, di elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr. Cass. 27 marzo 2013, n. 7667).

Ciò precisato, la Suprema Corte ricorda che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale (si veda in tal senso Cass. 17 settembre 2010, n. 19785; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832).

Precisato quanto precede, con riferimento al caso di specie la Corte di cassazione osserva come il lavoratore si sia limitato nel giudizio di merito a lamentare la sottrazione di compiti di ampia autonomia decisionale, sostituiti con altri meramente esecutivi in condizione di subalternità di quadri prima diretti, da cui sono derivati: la commiserazione di altri addetti nello stesso ambiente di lavoro, il malore avuto sul posto di lavoro, con trasporto in Pronto Soccorso ove gli veniva diagnosticata una crisi d'ansia, una patologia depressiva manifestatasi pochi mesi dopo.

Tuttavia, secondo la Suprema Corte, come era stato peraltro affermato anche dalla Corte territoriale adita, tali circostanze attengono al demansionamento e non forniscono precisi elementi di individuazione sia del nesso causale sia dei concreti riflessi delle predette circostanze sulla vita professionale del lavoratore; il lavoratore si è, infatti, limitato a dedurre una perdita di qualificazione lavorativa e di immagine, senza specificarne e qualificarne i contenuti e senza neppure offrire la prova in concreto del danno lamentato, non avendo indicato quali sue aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate.

Pertanto, non avendo il lavoratore assolto al proprio onere probatorio circa l'effettiva sussistenza dei danni lamentati in conseguenza del demansionamento subito e neppure riguardo al nesso causale tra tali presunti danni e il predetto demansionamento, non spetta al lavoratore medesimo alcun risarcimento.




Legittima l'assemblea sindacale tenuta all'esterno dell'unità produttiva

Cass., sez. lav., 19 novembre 2014, n. 24670

Pres. Macioce; Rel. Ghinoy; P.M. Ceroni; Ric. P.B.; P.I. Spa; Res. C. PT

Lavoro subordinato - Attività sindacale - Diritto di assemblea - Obbligo di svolgimento all'interno dell'azienda - Insussistenza - Comportamento antisindacale - Presupposti - Elemento intenzionale - Esclusione

Il datore di lavoro non ha alcun interesse proprio allo svolgimento dell'assemblea ed alle sue modalità, una volta fatta salva la sicurezza dell'azienda nel senso più ampio. Il diritto di riunione previsto dall'art. 20 dello Statuto dei lavoratori può essere esercitato in piena libertà di luogo, sia all'interno che all'esterno del luogo di lavoro, con i soli limiti prescritti dalla legge e dalla eventuale contrattazione collettiva (e con l'ulteriore, implicito, limite del divieto di atti emulativi).

Per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori è sufficiente che il comportamento contestato leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, potendo sorgere l'esigenza di una tutela della libertà sindacale anche in relazione ad un'errata valutazione del datore di lavoro circa la portata della sua condotta, così come l'intento lesivo del datore di lavoro non può di per sé far considerare antisindacale una condotta che non abbia rilievo obiettivamente tale da limitare la libertà sindacale.

Nota - La Corte d'appello di Milano ha rigettato il ricorso avverso la sentenza del Tribunale confermativa del decreto emesso ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori con cui era stata dichiarata l'antisindacalità del comportamento della società che aveva: a) affisso una nota con cui comunicava di mettere a disposizione per l'assemblea del giorno seguente un locale presso la sala mensa, precisando che non era autorizzata la partecipazione all'assemblea tenuta in luogo diverso; b) trattenuto la retribuzione ai partecipanti l'assemblea svoltasi nella zona antistante la cancellata d'ingresso invece che nella sala mensa indicata nella nota del giorno precedente.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi. Il sindacato ha resistito con controricorso.

Nel respingere il terzo motivo ove si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 28 dello Statuto dei lavoratori in relazione all'art. 20 della medesima legge la Suprema Corte ribadisce il principio di cui alla prima massima, già affermato in altri precedenti (Cass. 17 maggio 1985, n. 3038; Cass. 17 maggio 2000, n. 6442), chiarendo che i lavoratori hanno solo il diritto, ma non anche il dovere di riunirsi all'interno del luogo di lavoro e che il datore ha esclusivamente l'interesse a salvaguardare la sicurezza degli impianti e la possibilità di prosecuzione dell'attività produttiva da parte di coloro che non partecipano all'assemblea. Interesse che precisa la Cassazione non può considerarsi per definizione messo in pericolo in caso di assemblea esterna ai locali aziendali, ma è necessario che sul punto il datore fornisca specifica prova, nel caso di specie insussistente.

Con il principio di cui alla seconda massima la Suprema Corte respinge il secondo motivo di ricorso aderendo al consolidato orientamento che ritiene irrilevante l'elemento intenzionale nella concretizzazione di una condotta antisindacale (Cass., S.U., 13 febbraio 1997, n. 5295; Cass. 17 giugno 2014, n. 13726; Cass. 5 febbraio 2003, n. 1684; Cass. 22 febbraio 2003, n. 2770; Cass. 22 aprile 2004, n. 7706; Cass. 18 aprile 2007, n. 9250).

Parimenti respinto il primo motivo di ricorso con cui la società ha censurato la violazione dell'art. 28 dello Statuto per aver rigettato l'eccezione di carenza di legittimazione attiva del sindacato a suo dire mal valutando il carattere di nazionalità del sindacato. Anche su tale aspetto la Cassazione ribadisce principi già consolidati precisando che la legittimazione ad agire ex art. 28, St. lav. va riconosciuta agli organismi locali di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale se il sindacato sia diffuso sul territorio nazionale, dovendosi ritenere sufficiente, a tal fine, lo svolgimento di effettiva azione sindacale, non su tutto, ma su gran parte del territorio nazionale. Da ciò, precisa la Suprema Corte, consegue che la stipula di un contratto collettivo nazionale, nonostante l'indubbia rilevanza sintomatica della rappresentatività che ne discende, non costituisce l'unico elemento significativo né lo svolgimento di effettiva attività sindacale può essere ravvisato solo nella stipulazione di un contratto collettivo esteso all'intero ambito nazionale. (Cass. 22 luglio 2014, n. 16637; Cass. 9 giugno 2009, n. 13240).

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