Recesso e tutele legate al matrimonio
Per esaminare la disciplina sul matrimonio e sulla cessazione del rapporto di lavoro, bisogna partire dall'articolo 18 della legge 300/1970, , così come recentemente modificato dall'art. 1, c. 42, legge n.92/2012 (Riforma Fornero). Al nuovo comma 1 di tale disposizione, nell'ambito di una serie di ipotesi di licenziamenti che hanno natura discriminatoria, viene indicato anche quello intimato in concomitanza col matrimonio, ai sensi dell'art. 35 del D.Lgs. n. 198/2006 (codice delle pari opportunità tra uomo e donna).
La norma del 2006, alla quale rimanda il citato art. 18, si occupa tanto di dimissioni quanto di licenziamento, con esclusione però delle lavoratrici addette ai servizi familiari e domestici. Con specifico riferimento alle dimissioni, il comma 4 del D.Lgs. n. 198/2006 dispone che esse sono nulle se presentate dalla lavoratrice nel periodo che va dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, salvo che siano confermate dalla dipendente entro 1 mese alla Direzione territoriale del lavoro. Considerata la specificità della norma si deve ritenere che non sono quindi da ritenersi valide altre forme di convalida, con particolare riguardo a quelle introdotte con la Riforma Fornero.
Venendo invece alla risoluzione del rapporto a iniziativa del datore di lavoro - e ricordando che il periodo durante il quale opera la tutela è quello intercorrente tra il giorno di richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, e fino a un anno dopo la celebrazione stessa – il licenziamento è possibile solo a condizione che il datore di lavoro dimostri (quindi con onere della prova a proprio esclusivo carico) che sussiste una delle seguenti ipotesi:
a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
b) cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta;
c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta;
d) risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.
Laddove manchi la prova dell'effettiva sussistenza di uno di tali elementi, opera automaticamente la così detta presunzione legale, e cioè quella assoluta e che non ammette prova contraria, tanto che il licenziamento della dipendente è considerato come sia stato disposto per causa di matrimonio, e quindi – così come prevede il comma 2 – esso è nullo.
Nessuna possibilità di deroga in materia è riconosciuta ai contratti collettivi o individuali di lavoro, ciò sia per effetto del comma 1 della norma in esame, sia in base all'espresso divieto posto dall'art. 8, c. 2, lett. e), D.L. n. 138/2011 (legge n. 148/2011).
Tuttavia, operando un raffronto tra le due previsioni normative in esame, e cioè tra l'art. 35 del D.Lgs. n. 198/2006, e il nuovo testo dell'art. 18, legge n. 300/1970, c'è da chiedersi cosa accade ove il recesso sia dichiarato nullo.
L'art. 35, c. 6, D.Lgs. n. 198/2006, prevede che il giudice dispone la reintegra, con la corresponsione, a favore della lavoratrice allontanata dal lavoro, della retribuzione globale di fatto sino al giorno della riammissione in servizio.
A tale disciplina si affianca però il nuovo testo dell'art. 18, legge n. 300/1970 (con le modifiche decorrenti dal 18.7.2012) il quale, in tale ipotesi – configurando specificatamente tale recesso come discriminatorio – e a prescindere tanto dall'inquadramento della lavoratrice (destinatarie della tutela sono, quindi, anche le dirigenti) e dall'organico in forza presso quel datore di lavoro (con conseguente applicazione di tali disposizioni anche alle piccole imprese), stabilisce che il giudice deve agire come segue:
a) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore (anche se dirigente) nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati;
b) condanna il datore al risarcimento del danno subìto dal lavoratore, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino all'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività: in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità (mentre nessuna misura minima è prevista dal T.U.);
c) condanna il datore di lavoro, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Stabilito il diritto alla reintegra, tuttavia, le cose si fanno un po' più complicate. Infatti, mentre l'art. 35, c. 7, D.Lgs. n. 198/2006, dispone che qualora “la lavoratrice che, invitata a riassumere servizio, dichiari di recedere dal contratto - a condizione che eserciti tale diritto entro il termine di 10 giorni dal ricevimento dell'invito - ha diritto al trattamento previsto per le dimissioni per giusta causa, ferma restando la corresponsione della retribuzione fino alla data del recesso”, di ben altro tenore è la previsione contenuta nell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La norma più recente, così come modificata nel 2012, prevede infatti che – in caso di licenziamento discriminatorio, incluso quello per matrimonio, ove il datore non dimostri che sussiste una delle ipotesi previste con elencazione tassativa – la lavoratrice ha facoltà di chiedere, in luogo del provvedimento di reintegra (e fermo il risarcimento del danno nella misura minima di 5 mensilità), l'indennità sostitutiva della reintegrazione, la cui misura è pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; tale importo, come è evidente, è assai superiore ai criteri indicati nel D.Lgs. n.198/2006 che dispone il “diritto al trattamento previsto per le dimissioni per giusta causa”, ossia al riconoscimento in questo caso del semplice periodo di preavviso, nella misura prevista nell'ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro a iniziativa dell'azienda.
Le due normative in raffronto divergono quindi anche per quanto riguarda il termine riservato alla lavoratrice per esercitare il proprio diritto potestativo di non riprendere servizio dopo la sentenza di reintegrazione; infatti, come già indicato, l'art. 35, c. 8, D.Lgs. n. 198/2006, le consente di esercitare l'opzione del recesso entro 10 gg. dall'invito alla ripresa del servizio formulata dal datore, mentre nell'ipotesi dell'art. 18 dello Stat. Lav. la richiesta di pagamento dell'indennità – che determina la risoluzione del rapporto di lavoro e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale – deve essere inoltrata al datore di lavoro entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dal suo invito a riprendere servizio, se anteriore a tale comunicazione.
Se invece, entro 30 gg., la dipendente non chiede l'indennità sostitutiva ovvero non riprende servizio, il rapporto di lavoro si intende risolto. Anche per questo profilo, quindi, vi è una sostanziale differenza, in quanto qualora venisse formulata la richiesta sulla base dell'altra normativa – il D.Lgs. n.198/2006 - non vi sarebbe per la lavoratrice l'ulteriore beneficio delle 15 mensilità previste dall'art. 18 Sta. Lav.
Da un raffronto delle due citate procedure giudiziarie, entrambe di natura speciale in quanto riguardanti uno specifico identico profilo, e cioè la tutela contro la discriminazione in materia di dimissioni o licenziamento della lavoratrice a causa di matrimonio, emerge tuttavia, ai fini sostanziali, una netta differenza dei benefici riconosciuti alla lavoratrice dall'applicazione delle tutele previste dall'art. 18 della legge n. 300/1970, come ora modificato dalla Riforma Fornero, rispetto a quelle approntate dall'art. 35 del D.Lgs. n. 198/2006.
In questo caso ci si trova in presenza di una tipica situazione di difficoltà applicativa, in quanto non è chiaro con quale criterio raccordare la nuova norma con quelle preesistente, non essendovi stata un'esplicita abrogazione, ed essendovi anzi nella nuova un espresso richiamo ai fini applicativi di quella precedente (infatti, il nuovo art. 18 della legge n. 300/1970 fa espresso riferimento all'art. 35 del D.Lgs. n. 198/2006 per individuare la discriminazione) e l'unico aspetto che potrebbe dirimere la scelta tra le due normative è il richiamo al più generale principio del favor lavoratoris, che in questo caso è motivatamente in linea con il dettato costituzionale e con tutta la normativa sul rapporto di lavoro.
Per altro verso, però, contro l'abrogazione della più anziana normativa, contenuta nel citato codice delle Pari Opportunità, vi è un profilo di carattere processuale rappresentato dall'applicazione del nuovo rito derivante dalla Riforma Fornero, riservato solo all'impugnativa dei licenziamenti e che, nel semplificare e velocizzare al massimo tale procedura, impone in via esclusiva la trattazione solo di tale fattispecie, negando l'esame di altri eventuali profili di illegittimità presenti nel risolto rapporto e demandando per competenza la loro disamina non al rito sommario, bensì a un ordinario giudizio in materia di controversie individuali di lavoro, con i criteri di cui all'art. 409 del codice di procedura civile.
Viceversa nella normativa sul divieto di risoluzione del rapporto di lavoro per causa di matrimonio, di cui all'art. 35 del D.Lgs. n. 198/2006, non sussistono le preclusioni poste dal processo conseguente alla Riforma Fornero e anzi, ai sensi del citato codice delle Pari opportunità, la tutela giudiziaria della lavoratrice si può estendere contestualmente anche a tutta una serie di eventuali discriminazioni realizzate nei suoi confronti durante il rapporto di lavoro (es. contributive, retributive, progressione di carriera, prestazioni previdenziali e pensionistiche, ecc.), e peraltro con il coinvolgimento e l'assistenza nello svolgimento del processo della consigliera o del consigliere delle pari opportunità territorialmente competente.
In autonomia peraltro, rispetto all'impugnativa del licenziamento come da nuovo art. 18 della legge n. 300/1970, si possono legittimamente sviluppare altri riti processuali speciali, quale quello che si può promuovere, sussistendone i requisiti (periculum in mora e fumus boni iuris), con la procedura d'urgenza ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura civile, ovvero quello previsto ai sensi dell'art. 28 della stessa legge n. 300/1970, la cui titolarità è riservata in via esclusiva al sindacato, quando si è in presenza della così detta plurioffensività del comportamento datoriale.
Considerata quindi anche l'accertata compatibilità della coesistenza di una pluralità di autonomi iter processuali su fattispecie analoghe, si deve ritenere legittima la necessità che continui a operare questa ulteriore normativa contenuta nel D.Lgs. n. 198/2006, come via alternativa rispetto a quella che può apparire a un primo esame come l'applicazione più favorevole derivante dal nuovo art. 18, in quanto deve essere inquadrata e riconosciuta dall'esigenza di garantire anche una più ampia tutela, avverso tutte le ipotesi di discriminazione che si dovessero verificare nei confronti della lavoratrice in materia di rapporto di lavoro; non solo quindi nella sua fase rescissoria, sia per licenziamento che per dimissioni presi ora in esame, ma pure nella fase genetica e nel suo successivo svolgimento, in quanto l'ordinamento impone che debba svilupparsi in via ordinaria e generale con un assoluto rispetto dei principi sulla parità di genere.