Rassegna della Cassazione
Il mancato versamento dei contributi sindacali integra una condotta antisindacale
In caso di demansionamento il datore deve pagare anche i contributi a carico del lavoratore
Sussiste la responsabilità dell'azienda giornalistica nel caso di demansionamento del redattore
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Licenziamento disciplinare e principio della immediatezza della contestazione
Il mancato versamento dei contributi sindacali integra una condotta antisindacale
Cass. Sez. Lav. 12 ottobre 2015, n. 20439
Pres. Stile; Rel. Napoletano; P.M. Fuzio; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. C.;
Condotta antisindacale - Versamento al sindacato delle quote associative dei lavoratori - Qualificazione - Cessione del credito - Mancato versamento da parte del datore di lavoro - Condotta antisindacale - Sussistenza - Eccessiva gravosità per il datore di lavoro - Rilevanza - Limiti
Il datore di lavoro che in presenza di un atto di cessione del credito relativo alle quote sindacali rifiuti, senza giustificazione, di effettuare il relativo versamento, configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività.
Qualora il datore di lavoro sostenga che la cessione comporti in concreto, a suo carico, una modificazione eccessivamente gravosa dell'obbligazione, implicante un onere insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile, ha l'onere di provare, ai sensi dell'art. 1218 c.c., che la gravosità della prestazione è tale da giustificare il suo inadempimento.
Nota
Il Giudice del lavoro di Velletri, con sentenza confermata dalla Corte d’Appello di Roma, aveva dichiarato antisindacale la condotta di una società consistente nel aver omesso di versare ad un'associazione sindacale le quote associative dei lavoratori che avevano chiesto all'azienda di effettuare detto versamento mediante trattenuta sul loro stipendio.
La società ricorreva in Cassazione; il sindacato resisteva con controricorso.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ribandendo i principî di diritto, già sanciti dalla pronuncia a Sezioni Unite del 21 dicembre 2005, n. 28269, secondo cui il referendum del 1995, abrogativo dell'art. 26 S.L., comma 2, e il susseguente D.P.R. 313/1995 non hanno affatto introdotto un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, avendo solo eliminato il relativo obbligo. Pertanto, i lavoratori possono legittimamente richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato cui aderiscono. Tale richiesta dei lavoratori deve essere qualificata come cessione del credito, con la conseguenza che è irrilevante tanto il consenso del datore di lavoro, quanto l’assenza di un’esplicita previsione da parte della contrattazione collettiva.
La Cassazione ha altresì ribadito il principio secondo cui il mancato versamento dei contributi sindacali può essere giustificato solo quando la cessione del credito disposta dai lavoratori comporti, in concreto, una modificazione eccessivamente gravosa dell'obbligazione, implicante un onere insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile, con onere della prova a carico del datore di lavoro. Sul punto, è stato poi chiarito che (come già affermato da Cass. 20 aprile 2011, n. 9049) tale eccessiva gravosità non può essere sostenuta, esclusivamente, in ragione dell'elevato numero di dipendenti dell’azienda, essendo necessario operare una valutazione di proporzionalità tra la gravosità dell'onere e l'entità della organizzazione aziendale.
In caso di demansionamento il datore deve pagare anche i contributi a carico del lavoratore
Cass. Sez. Lav. 2 novembre 2015, n. 22379
Pres. Curzio; Rel. Marotta; Ric. T. S.p.A.; Controric. P.D.;
Demansionamento - Conseguenze - Inquadramento superiore - Pagamento dei contributi previdenziali sulle differenze retributive - Obbligo di versamento da parte del datore di lavoro anche della quota di contributi a carico del lavoratore - Sussiste - Ragioni - Eccezione
In caso di demansionamento con condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive conseguenti al riconoscimento del superiore inquadramento, il connesso versamento contributivo è interamente dovuto dal datore di lavoro, anche per quanto attiene alla quota di contributi a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 23 della Legge n. 218 del 1952, posto che il ritardo nel versamento dei contributi è addebitabile alla responsabilità del datore di lavoro, a meno che quest’ultimo non dimostri che tale ritardo non sia ad esso in alcun modo imputabile.
Nota
Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema dell’onere in capo al datore di lavoro di versamento della quota di contributi previdenziali a carico del lavoratore in relazione alle differenze retributive maturate da quest’ultimo in caso di accertato demansionamento.
In particolare, nel caso di specie il Giudice del merito aveva condannato il datore di lavoro a restituire al lavoratore la somma relativa alla quota contributiva a carico di quest’ultimo che il datore di lavoro aveva trattenuto dalle spettanze dovute al lavoratore medesimo a titolo di differenze retributive conseguenti all’inquadramento superiore riconosciuto in relazione ad un periodo di demansionamento accertato a seguito di condanna giudiziale.
La predetta decisione di merito era stata motivata sulla base del fatto che i contributi previdenziali, ivi compresa la quota a carico del lavoratore, non erano stati versati dal datore di lavoro nel termine di legge, per causa e responsabilità del datore di lavoro medesimo (come accertato dalla suddetta condanna giudiziale intervenuta nei suoi confronti), con la conseguente applicazione al caso di specie del principio di cui all’art. 23 della Legge n. 218/1952 in base al quale il datore di lavoro inadempiente è tenuto a versare non solo la quota contributiva a proprio carico, ma anche quella a carico del lavoratore.
Avverso tale decisione il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo in particolare che, posto che le differenze retributive erano state corrisposte a seguito di condanna giudiziale, il connesso obbligo contributivo doveva farsi risalire alla data di tale condanna, con la conseguenza che non si poteva ritenere che si fosse verificata la concentrazione di tale obbligo solo sul datore di lavoro.
La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso del datore di lavoro, con la decisione in esame conferma l’interpretazione della Corte di merito, ricordando che, ai sensi di quanto è previsto dall’art. 23 della Legge n. 218 del 1952, qualora il datore di lavoro sia inadempiente verso il lavoratore per quote di retribuzione, l’inadempimento sorge al momento del mancato pagamento delle quote medesime. In tale ottica, l’intervento del giudice che sancisce tale obbligo ha il valore di accertamento costitutivo e di condanna. Tuttavia, il ritardo nel pagamento di contributi previdenziali trae origine da un’inosservanza del datore di lavoro, che non può procrastinare - a causa della propria inadempienza - il periodo di paga, anche ai fini della trattenuta di cui al citato art. 23; ne consegue che il datore di lavoro, una volta versati i contributi, non ha diritto di rivalersi nei confronti del lavoratore per la quota a carico di quest’ultimo, ancorché il ritardo nel predetto versamento sia dipeso dal fatto che il titolo retributivo a cui tale versamento afferiva sia stato determinato per via giudiziale e, quindi, a seguito di una condanna.
Sul punto la Suprema Corte richiama alcune pronunce precedenti conformi su fattispecie analoghe (cfr. Cass. 12 giugno 1998, n. 5916; Cass. 8 agosto 2000, n. 10437; Cass. 19 marzo 2001, n. 3919) e ribadisce che il citato art. 23 non trova applicazione solo quando il ritardo nel versamento contributivo non sia imputabile al datore di lavoro (si veda Cass. 30 dicembre 1992, n. 13735 e Cass. 11 luglio 2000, n. 9198). Al contrario, nella fattispecie concreta in esame, il datore di lavoro, attraverso l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori (come è poi stato riconosciuto in sede giudiziale), è incorso in un illecito contrattuale, di cui è tenuto a sopportare le conseguenze, non solo in termini di differenze retributive, ma anche di accollo dei connessi versamenti contributivi.
Sussiste la responsabilità dell’azienda giornalistica nel caso di demansionamento del redattore
Cass. Sez. Lav. 6 ottobre 2015, n. 19903
Pres. Stile; Rel. Maisano; P.M. Sanlorenzo; Ric. R. R. I. S.P.A.; Controric. P.M.C.;
Art. 2103 c.c. - Jus variandi - Demansionamento del redattore - Responsabilità del datore - Sussiste
Ogni lavoratore subordinato ha un vero e proprio diritto, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., allo svolgimento della prestazione secondo la tipologia lavorativa propria della qualifica di appartenenza. Responsabile del danno conseguente alla violazione di tale diritto è, in linea di principio, il datore di lavoro. Da ciò consegue che nel caso in cui l’azienda sia articolata in diversi settori ciascuno sottoposto a normative particolari, il datore di lavoro non è esonerato dall’ obbligo suddetto se tali normative impongano ad altri soggetti la responsabilità dell’affidamento di particolari mansioni.
Nota
La Corte di Appello di Roma in parziale riforma della sentenza di primo grado condannava la società datrice di lavoro a risarcire alla lavoratrice il danno professionale conseguente all’illegittima dequalificazione, quantificato nella misura dell’80% della retribuzione (anziché nella minore misura pari al 30% della retribuzione netta percepita, così come liquidato dal giudice di primo grado), confermando per il resto l’ impugnata sentenza.
La Corte territoriale motivava tale decisione rilevando che è comunque obbligo del datore di lavoro il rispetto delle previsioni di cui all’art. 2103 c.c. a tutela del redattore così come di ogni altro lavoratore subordinato, anche nel caso in cui, in virtù delle specifiche regole che disciplinano l’affidamento delle mansioni nel settore giornalistico, le mansioni del redattore vengano decise dal direttore responsabile della testata giornalistica. La Corte di appello accertava inoltre, sulla base dell’istruttoria svolta, che la lavoratrice (nella specie una redattrice) era rimasta inoperosa per circa due anni dal luglio 2002.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società datrice di lavoro affidato a tre motivi.
In particolare, lamentando la violazione e falsa applicazione, tra gli altri, degli artt. 2103, 1362 e ss. cc. in relazione all’art. 6 del C.N.L.G., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, la società ha ribadito che, atteso che il contratto di categoria riservava al direttore responsabile della testata l’affidamento delle mansioni ai redattori, nessuna responsabilità poteva addebitarsi alla datrice di lavoro per un eventuale demansionamento subito da un redattore.
Inoltre, con particolare riferimento alla condanna al risarcimento del danno, disposto dalla sentenza impugnata, la società ha osservato che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto sussistente il danno nonostante la lavoratrice non avesse fornito prova dell’esistenza dello stesso, non essendo all’uopo sufficiente la dedotta inattività, peraltro risarcita con la prevista corresponsione della retribuzione.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.
Nello specifico la Suprema Corte ha osservato che ogni lavoratore subordinato ha un vero e proprio diritto, ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., allo svolgimento della prestazione secondo la tipologia lavorativa propria della qualifica di appartenenza. Responsabile del danno conseguente alla violazione di tale diritto è, in linea di principio, il datore di lavoro.
La Suprema Corte ha altresì osservato che l’obbligo di cui all’art. 2087 c.c., in virtù del quale l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, ha carattere generale. Ne consegue, pertanto, che il datore di lavoro, nel caso in cui la propria azienda sia articolata in diversi settori, ciascuno sottoposto a normative particolari, non è esonerato dal suddetto obbligo se tale normativa imponga ad altri soggetti la responsabilità dell’affidamento di particolari mansioni.
Applicando tali principi al caso concreto, la Suprema Corte ha ritenuto che l’azienda giornalistica dovesse ritenersi responsabile del danno da demansionamento subito da una redattrice, pure a fronte delle specifiche regole che disciplinano l’affidamento delle mansioni nel particolare settore giornalistico, in quanto nessun esonero di responsabilità può discendere in capo al datore di lavoro da tale tipo di rapporto.
Con specifico riferimento al capo di sentenza avente ad oggetto la condanna al risarcimento del danno, la Suprema Corte ha infine rilevato che in tema di dequalificazione professionale, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione, se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, di natura patrimoniale, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (da ultimo Cass.19 settembre 2014, n.19778).
Facendo applicazione di tali principi al caso in oggetto la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale avesse logicamente motivato la liquidazione del danno nella misura dell’80% della retribuzione netta percepita facendo riferimento alla quasi totale privazione delle mansioni subita dalla lavoratrice.
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Cass. Sez. Lav. 13 ottobre 2015, n. 20533
Pres. Macioce; Rel. D’Antonio; P.M. Fresa; Ric. R.M. + altri; Controric. S.H.P. s.p.a.;
Infortunio sul lavoro - Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Onere probatorio - Distribuzione - Rischio Elettivo - Caratteristiche - Comportamento anomalo, abnorme ed imprevedibile - Obbligo del datore di vigilare sul rispetto da parte dei dipendenti delle misure di sicurezza - Obbligo di proteggere l’incolumità dei dipendenti anche in presenza di comportamenti negligenti ed imprudenti
Ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio subito dal dipendente o per la tecnopatia contratta, grava su quest'ultimo l'onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, dell'infortunio o della malattia ed il nesso causale tra l'utilizzazione del macchinario o la nocività dell'ambiente di lavoro e l’evento dannoso, e grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all'attività svolta nonché di aver adottato, ex art. 2087 c.c., tutte le misure che - in considerazione della peculiarità dell'attività e tenuto conto dello stato della tecnica - siano necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, mentre il comportamento del lavoratore è idoneo ad escludere il rapporto causale tra inadempimento del datore di lavoro ed evento, esclusivamente quando esso sia autosufficiente nella determinazione dell’evento, cioè se abbia il carattere dell'abnormità per essere assolutamente anomalo ed imprevedibile.
Nota
La Corte d’Appello di Trento ha confermato la sentenza del Tribunale di Rovereto di rigetto della richiesta risarcitoria formulata dagli eredi di un lavoratore deceduto a seguito di un infortunio sul lavoro. In particolare la Corte territoriale, valorizzando una serie di elementi emersi nel corso dell’istruttoria, ha ritenuto che fosse da escludersi la responsabilità del datore di lavoro in quanto, a suo dire, il lavoratore aveva tenuto al momento dell’incidente un comportamento eccezionale ed abnorme in palese violazione delle norme di sicurezza.
Avverso tale decisione gli eredi del defunto hanno proposto ricorso per Cassazione articolato su cinque motivi, la società ha resistito con controricorso.
Per quanto qui rileva la sentenza viene censurata: a) per non avere la Corte di merito adeguatamente motivato in ordine all’accertamento delle dinamica dell’evento ed all’abnormità del comportamento del lavoratore, trascurando, in particolare, che dalle prove testimoniali era emerso che altri dipendenti avevano più volte tenuto la medesima condotta posta in essere dal de cuius in occasione dell’infortunio mortale; b) per violazione dell’art. 2087 c.c. per non avere la Corte di merito adeguatamente valutato e motivato se il datore di lavoro aveva adottato tutti gli accorgimenti possibili ad escludere l’evento mortale.
La Suprema Corte accoglie entrambi i motivi (oltre ad un terzo ad essi correlato) effettuando in apertura di motivazione un’ampia disamina della materia, nell’ambito della quale afferma il principio di cui alla massima in tema di distribuzione degli oneri probatori e di rischio elettivo, conformandosi a specifici precedenti in termini (Cass. 28 luglio 2004, n.14270; Cass. 13 agosto 2008, n. 21590; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3788; Cass. 26 giugno 2009, n. 15078).
A valle di tale affermazione, ed entrando nel merito della fattispecie specifica, la Cassazione ritiene che la Corte territoriale non abbia fornito un’adeguata motivazione sia in relazione alla qualificazione del comportamento del lavoratore con riferimento alla sua prevedibilità, sia in ordine all’avvenuta adozione da parte del datore di tutte le misure di sicurezza atte ad evitare il verificarsi di incidenti del genere di quello oggetto di causa.
Sotto il primo profilo viene fatto riferimento alle dichiarazioni di un testimone da cui emerge che anche altri lavoratori tenevano comportamenti analoghi a quelli posti in essere dal deceduto in occasione dell’incidente, pertanto secondo la Cassazione, la Corte non esclude in modo sufficientemente attendibile che la società non fosse a conoscenza che a volte si operava con la macchina in movimento e che dunque le misure di sicurezza, pure esistenti, non erano sufficienti ad evitare incidenti del genere di quello occorso al lavoratore in questione. Secondo la Cassazione non risulta, pertanto, adeguatamente accertato che la condotta dell’infortunato sia stata abnorme, imprevedibile e assolutamente inopinabile, integrando un’ipotesi di rischio elettivo generato da attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso, poiché il lavoratore stava eseguendo le ordinarie mansioni assegnategli e la necessità di intervento sulla macchina per effettuare riparazioni era una evenienza più che probabile, essendosi numerose volte verificata. Secondo la Corte, pertanto, la Corte territoriale non ha considerato che il datore non deve solo predisporre le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti, ma deve anche accertarsi e vigilare che le misure di protezione siano effettivamente rispettate posto che è tenuto a proteggere l'incolumità del lavoratore nonostante l’imprudenza e negligenza dello stesso.
Quanto al secondo aspetto la Suprema Corte parimenti ritiene la motivazione della Corte territoriale sull’adeguatezza delle misure di sicurezza adottate del tutto insufficiente, considerato che, quanto accaduto dimostra che l’accesso alla macchina in movimento non era sicuramente del tutto impedito, nonostante, peraltro, specifiche prescrizioni dell’Ispettorato del lavoro.
Per tali motivi la sentenza viene cassata con rinvio affinchè la Corte di merito riesamini le sue conclusioni circa l’imprevedibilità del comportamento del lavoratore e la sua abnormità, circa la sussistenza di responsabilità riconducibili al datore di lavoro anche con riferimento all’omessa vigilanza, nonché in ordine all’adozione di idonei dispositivi di protezione impeditivi in modo assoluto del verificarsi di incidenti.
Licenziamento disciplinare e principio della immediatezza della contestazione
Cass. Sez. Lav. 12 ottobre 2015, n. 20438
Pres. Stile; Rel. Napoletano; P.M. Fuzio; Ric. M.N.; Controric. T. I. S.p.A.;
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Disciplinare - Principio della immediatezza della contestazione - Carattere relativo - Fattispecie
L'intervallo temporale fra l'intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore assume rilievo in quanto rivelatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio della facoltà di recesso; con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, la ritenuta incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché tali misure dimostrano la permanente volontà datoriale di irrogare la sanzione del licenziamento.
Nota
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Genova che, confermando a sua volta la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda della lavoratrice d’impugnazione del licenziamento intimatole per giusta causa.
In particolare, il licenziamento era motivato dall’intestazione ed attivazione abusiva di 99 sim card da parte della dipendente, condotta accertata anche nel corso di indagini penali, durante le quali la lavoratrice era stata sospesa dal servizio.
La Corte territoriale aveva ritenuto legittimo il licenziamento ed escluso la tardività dello stesso, in considerazione del fatto che il recesso era stato intimato a ridosso dell’avviso di conclusione delle indagini penali.
La lavoratrice ha presentato ricorso per cassazione contestando la decisione impugnata per non aver ritenuto tardivo il recesso, considerato che la società già all’epoca della denuncia querela era a conoscenza dei fatti addebitati.
Tale motivo secondo la Corte di Cassazione è infondato.
Ed infatti, la Corte di legittimità ha già ribadito in più occasioni che l'intervallo temporale fra l’intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore assume rilievo in quanto rivelatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio della facoltà di recesso, con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, l’incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché tali misure - specialmente se l'adozione di esse sia prevista dalla disciplina collettiva applicata al rapporto di lavoro - dimostrano la permanente volontà datoriale di irrogare (eventualmente) la sanzione del licenziamento. Inoltre, la Corte ha più volte precisato che il requisito dell’immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso (cfr. in tal senso, Cass. n. 13955/2014).
Ebbene, la Corte del merito si è attenuta pienamente a tale regula iuris, sottolineando come, dopo la sospensione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro aveva correttamente atteso l'esito delle indagini penali che avrebbero potuto presentare profili anche favorevoli alla lavoratrice, la quale, tra l'altro, in quanto sospesa non poteva certo confidare nella prosecuzione del rapporto di lavoro.
Tale valutazione è stata adeguatamente motivata e pertanto, a detta della Corte di Cassazione, non è sindacabile in sede di legittimità. Per tali motivi, il ricorso della lavoratrice è stato rigettato.