Per il repechage vincoli più forti
La recente sentenza della Cassazione in tema di obbligo di repechage e relativo onere probatorio (n. 5592/16) impone un ripensamento di tale nozione anche alla luce delle novità normative del Jobs Act.
Com’è noto, l’obbligo di repechage costituisce da sempre una delle due “gambe” su cui la giurisprudenza ha costruito la nozione di giustificato motivo oggettivo, genericamente definito dalla legge, con una tipica clausola generale, in termini di «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (articolo 3, legge 604/66).
La prima gamba su cui si regge il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è il venir meno della possibilità di utilizzo del lavoratore, a seguito della soppressione della posizione lavorativa (è l’ipotesi più frequente), ovvero del venir meno di requisiti soggettivi per lo svolgimento della prestazione (inidoneità sopravvenuta, perdita di necessarie autorizzazioni amministrative). La seconda gamba è appunto l’impossibilità di un diverso utilizzo del lavoratore nell’ambito aziendale. Entrambe le circostanze vanno accertate dal giudice, al quale è però inibito il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che spettano al datore di lavoro.
L’onere della prova della sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento incombe, per espressa disposizione legislativa, sul datore di lavoro (articolo 5, legge 604/66). Ed è proprio qui che sorge la questione su cui è intervenuta la Cassazione. Mentre non è mai stato in discussione l’onere del datore di lavoro di allegare e provare l’effettività del provvedimento organizzativo di soppressione del posto di lavoro, qualche problema è sorto sulla prova dell’impossibilità di repechage. Ci si è infatti resi conto che non si può pretendere dal datore di lavoro la prova di un fatto negativo, che diventerebbe una vera e propria probatio diabolica (cioè impossibile). Di qui un consistente (e sinora abbastanza assestato) filone giurisprudenziale che attenuava l’onere probatorio del datore assegnando al lavoratore l’onere di indicare nel ricorso al giudice le mansioni nelle quali riteneva di poter essere (ri)utilizzato. A questo punto l’onere del datore era circoscritto alla prova dell’inutilizzabilita del lavoratore nelle mansioni da quest’ultimo indicate. Veniva così affermata l’esistenza di un dovere, in capo al lavoratore, di cooperazione processuale nell’accertamento di un possibile repechage, che rendesse concretamente praticabile l’onere probatorio del datore di lavoro.
La nuova recente sentenza della Cassazione si pone in contrasto con tale consolidato orientamento, proponendo un ritorno ad una rigida identificazione dell’onere probatorio, che esclude qualsiasi dovere od obbligo in capo al lavoratore che ne circoscriva l’esercizio. È al datore di lavoro che spetta provare tutti gli elementi costitutivi del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, inclusa l’impossibilità di un diverso utilizzo del lavoratore, senza che a quest’ultimo possa chiedersi in alcun modo di collaborare nel relativo accertamento.
Una posizione piuttosto rigida, che pone l’interrogativo su cosa debba o possa fare il datore di lavoro per fornire la prova richiesta. Escluso che si possa pervenire per via giudiziale alla identificazione di una “nuova” posizione lavorativa, non resta che fornire la prova del fatto (questo sì, entro certi limiti, positivo) che le assunzioni effettuate in concomitanza con il licenziamento o in epoca di poco successiva (sei mesi, secondo l’orientamento prevalente) attengono a mansioni e profili professionali diversi da quelli del lavoratore licenziato.
In altre parole, il datore dovrà fornire in giudizio l’elenco delle assunzioni fatte nel semestre successivo al licenziamento, e dimostrare per ciascuna di esse che i relativi compiti non potevano essere assegnati al lavoratore licenziato. Il che solleva un altro problema, in relazione alle recenti modifiche legislative. Il nuovo testo dell’articolo 2103 del codice civile ha ampliato i confini del potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore (cosiddetto ius variandi), estendendolo a tutte le mansioni corrispondenti al livello di inquadramento, e anche, in determinati casi, al livello inferiore. Questo amplia corrispondentemente i confini dell’obbligo di repechage e quindi della relativa prova in giudizio?
L’automatismo sembrerebbe ragionevolmente da escludere: nella decisione di adibire eventualmente il lavoratore a mansioni completamente diverse (anche se inquadrate nello stesso livello del contratto collettivo) c’è una componente di discrezionalità organizzativa che compete solo al datore di lavoro, a cui il giudice non può sostituirsi. La valutazione giudiziale di utilizzabilità del lavoratore licenziato nelle mansioni assegnate al lavoratore successivamente assunto dovrebbe porsi unicamente in termini di piena fungibilità tra i due. Sul punto (particolarmente delicato) non tarderanno comunque le prime indicazioni giurisprudenziali.
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