Rassegna della Cassazione
Licenziamento e periodo di comporto/1
Licenziamento e periodo di comporto/2
Nozione di trasferimento d'azienda
Richiesta di inquadramento superiore
Licenziamento e periodo di comporto/1
Cass. Sez. Lav. 15 marzo 2016, n. 5053
Pres. Napoletano; Rel. Ghinoy; P.M. Matera; Ric S.I. S.p.a.; Controric. C.V.
Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Diritto alla conservazione del posto - Infortuni e malattie - Periodo di comporto - Assenze dovute a malattia causata dal datore di lavoro - Computabilità nel periodo di comporto - Non sussiste
La computabilità delle assenze del lavoratore dovute a malattia nel periodo di comporto non si verifica quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata.
Nota
La Corte di Appello di Napoli rigettava il reclamo proposto da una società avverso la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore per superamento del periodo di comporto per malattia, con conseguente applicazione del regime di tutela previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
La Corte di Appello riteneva che la malattia psichica che aveva determinato l'assenza del lavoratore fosse stata causata dalla violazione dell'obbligo di protezione imposto dall'articolo 2087 cod. civ. In particolare, il lavoratore aveva iniziato un periodo di malattia dopo che la società lo aveva, prima, sospeso per parecchi mesi per sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni (senza riammetterlo in servizio a seguito dell'ordine giudiziale) e poi trasferito presso un'altra sede, in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, senza sostanziali mansioni e poi assegnandogli mansioni di livello inferiore. Il comportamento della Società aveva posto il lavoratore in uno stato di permanente angoscia e paura di perdere l'unico reddito familiare certo.
Avverso la sentenza della Corte di Appello ricorreva per Cassazione la società sostenendo che le condotte attuate dalla stessa nei confronti del lavoratore non potessero costituire violazione dell'articolo 2087 cod. civ. non ravvisandosi alcuna violazione della normativa antinfortunistica.
Per la Suprema Corte il ricorso non è fondato.
La Cassazione, dopo aver chiarito che l'articolo 2087 cod. civ. costituisce norma di chiusura del sistema antinfortunistico ed impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure generiche di prudenza e diligenza per tutelare l'integrità fisica e psichica del lavoratore, ha confermato la ricostruzione del Giudice del riesame.
Per la Corte la norma in esame assicura al lavoratore una tutela ampia, con previsione teleologica che prescinde dalla necessità che le cautele da adottarsi siano finalizzate alla prevenzione antinfortunistica. Il rispetto dei diritti primari (diritto alla salute), nascenti dal rapporto obbligatorio ed attinenti alla situazione personale e professionale del lavoratore rientra quindi nell'obbligo di sicurezza posto a carico del datore e nella tutela di cui all'articolo 2087 cod. civ. considerato che la sua protratta violazione può determinare una lesione del diritto alla salute.
Licenziamento e periodo di comporto/2
Cass. Sez. Lav. 6 aprile 2016, n. 6697
Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. U. S.p.A.; Controric. F.C.;
Assenza per malattia - Aspettativa non retribuita - Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Legittimità del recesso - Acquiescenza del datore di lavoro e rinuncia al diritto di recesso - Insussistenza
Nel caso di concessione di un periodo di aspettativa, successivo a quello di malattia, i limiti temporali per poter procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere anche la durata dell'aspettativa.
Nota
Una dipendente deduceva di essere stata vittima di comportamenti vessatori da parte del proprio datore di lavoro, a causa dei quali era stata assente per malattia da aprile 2006 a dicembre 2006. Successivamente allo scadere del periodo di comporto il datore di lavoro accoglieva la sua richiesta di aspettativa al termine della quale, dopo essere stata invitata a riprendere il servizio, veniva licenziata per superamento del periodo di comporto.
Il Tribunale di Cosenza, in accoglimento parziale del ricorso, condannava il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, ritenendo illegittimo il licenziamento, in particolare, perché comminato nove mesi dopo il superamento del periodo di comporto.
La Corte d'Appello di Catanzaro respingeva l'impugnazione della società, ritenendo che la stessa avesse rinunciato, per acquiescenza, al proprio diritto di recesso.
Avverso tale sentenza ricorreva in Cassazione il datore di lavoro; la lavoratrice resisteva con controricorso.
Il datore impugnava la sentenza per insufficiente e contraddittoria motivazione in merito alla pretesa propria rinuncia all'esercizio del diritto di recesso. A tal fine, la società deduceva che nel licenziamento per superamento del periodo di comporto, a differenza di quello disciplinare, non sussiste un principio di immediatezza del recesso e che, in ogni caso, solo dall'effettivo rientro in servizio della lavoratrice poteva valutarsi una effettiva e prolungata inerzia del datore di lavoro, sintomatica della volontà di rinunciare al potere di licenziamento.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, rigettando nel merito la domanda relativa all'illegittimità del licenziamento, in applicazione del principio (già espresso in Cass. 12233/2013) secondo cui i limiti temporali per procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere prorogati per tutta la durata dell'aspettativa concessa al termine della malattia.
La Suprema Corte ha altresì negato che, durante il periodo di aspettativa, possa configurarsi una rinuncia tacita al recesso per superamento del periodo di comporto, essendo a tal fine necessario valutare il comportamento del datore di lavoro dal momento della ripresa del servizio, che si traduca in una inerzia prolungata, sintomatica della volontà di rinuncia al licenziamento e tale da ingenerare un incolpevole affidamento da parte del dipendente (gravando peraltro su quest'ultimo l'onere di provare tale circostanza, così Cass. 19400/2014; 24899/2011).
Licenziamento orale
Cass. Sez. Lav. 15 marzo 2016, n. 5061
Pres. Amoroso; Rel. Riverso; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.I.S.A.F. s.p.a..; Controric. M.P.;
Licenziamento orale - Onere della prova - Dimostrazione dell'estromissione dal rapporto - Onere incombente sul lavoratore - Sussistenza requisiti di forma ed efficacia del licenziamento - Onere incombente sul datore
Qualora sia pacifico tra le parti che il rapporto di lavoro si sia risolto per effetto di un licenziamento, a fronte della deduzione del lavoratore che sostiene di essere stato licenziato oralmente, spetta, ex art. 2097 c.c., al datore di lavoro, che eccepisca che il rapporto si sia estinto a seguito di un atto formale regolarmente comunicato, dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti di forma ed efficacia del recesso che sostiene di avere ritualmente intimato.
Nota
La Corte d'Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del Tribunale dichiarativa dell'inefficacia di un licenziamento ritenendo corretta la statuizione del giudice di prime cure che ha ritenuto non raggiunta la prova della comunicazione per iscritto del recesso. In particolare, in un primo momento, la società ha sostenuto di avere consegnato la lettera di licenziamento personalmente al lavoratore, che l'avrebbe sottoscritta per ricevuta. A seguito dell'avvenuto disconoscimento della firma da parte del dipendente la società ha rinunziato all'istanza di verificazione della scrittura ed ha chiesto l'introduzione di nuovi capitoli di prova per dimostrare che la lettera di licenziamento era stata consegnata al fratello del lavoratore interessato, che l'avrebbe poi restituita con una firma in calce che dichiarava essere del destinatario del provvedimento. Il Tribunale non ha, però, ammesso le prove richieste, ritenendole vertenti su fatti nuovi e la Corte d'Appello ha condiviso tale valutazione, per cui secondo entrambi i giudici del merito non risultava la prova del licenziamento scritto né la sua comunicazione al lavoratore.
Avverso la decisione di secondo grado la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a sei motivi ed il lavoratore ha resistito con controricorso.
La Suprema Corte, premesso che il lavoratore ha sostenuto di essere stato licenziato oralmente mentre la società ha dedotto di avere intimato un recesso formale per motivi disciplinari, ha rigettato tutti i motivi di ricorso. In particolare, nell'affermare il principio di cui alla massima, la Cassazione evidenzia che, nei casi come quello in esame in cui non si controverta sull'estromissione del lavoratore, ma solo in ordine alle modalità di tale estromissione ad opera del datore, in base alla distribuzione degli oneri probatori delineata dall'art. 2097 c.c., a fronte dell'affermazione del lavoratore di essere stato licenziato oralmente, incombe sul datore di lavoro che eccepisca la ritualità del recesso intimato la prova del fatto costitutivo della sua eccezione, ovvero di aver posto in essere un formale atto di recesso regolarmente comunicato. Secondo la Suprema Corte alla fattispecie in esame vanno adattati i principi affermati con orientamento consolidato nelle ipotesi in cui si controverte dell'alternativa dimissioni/licenziamento orale, secondo cui l'onere del lavoratore riguarda solo la prova dell'essere stato estromesso dal rapporto: "Nell'ipotesi di controversia in ordine al "quomodo" della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni) si impone una indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all'esigenza di rispettare non solo il primo comma dell'art. 2697 cod. civ., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall'attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell'eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. Sicché, in mancanza di prova delle dimissioni, l'onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta "ex lege" a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro - avente valore di una eccezione - ricade sull'eccipiente - datore di lavoro ex art. 2697 cod. civ." (Cass. 27 agosto 2007, n. 18087; Cass. ordinanza del 19 ottobre 2011, n. 21684; Cass. 15 gennaio 2015, n.610).
Nella sentenza in commento si precisa, inoltre, che, quando si discuta sia dell'intimazione per iscritto del licenziamento che della sua comunicazione, essendo il licenziamento un atto formale ad substantiam e recettizio, il datore di lavoro deve dimostrare in primis che un certo atto scritto sia stato predisposto per il licenziamento in questione e, poi, che sia stato regolarmente comunicato al suo indirizzo. Partendo da tale premessa la Suprema Corte ha ritenuto corretta la conclusione cui è pervenuto il giudice del merito, secondo cui in mancanza della prova che il licenziamento sia stato comunicato per iscritto esso è inefficace, tuttavia ha ritenuto necessario procedere alla parziale correzione della motivazione laddove i giudici del merito avevano censurato che la società "non era riuscita a dimostrare la ricezione della missiva" nonché nella parte in cui sembravano richiedere la sussistenza della forma scritta ad substantiam per la comunicazione piuttosto che per la manifestazione della volontà di recedere.
Se è vero, precisa, infatti, la Cassazione, che va distinta la forma dell'atto da quella della sua comunicazione, è parimenti vero che, nel caso in esame, mancava la prova dell'avvenuta rituale comunicazione dell'atto di licenziamento, sia perché il provvedimento non era stato spedito all'indirizzo del lavoratore sia perché le prove tardivamente addotte in merito alla circostanza dell'essere la comunicazione altrimenti avvenuta non sono state ammesse. Pertanto la Suprema Corte ha ritenuto sufficiente emendare la motivazione della sentenza di appello affermando che, ai fini della legittimità del licenziamento, non si richiede la prova scritta della comunicazione, desumibile da altre circostanze, nonché che è sufficiente che il licenziamento venga comunicato all'indirizzo del lavoratore, dopo di che si presume conosciuto, non occorrendo prova della sua ricezione.
Nozione di trasferimento d'azienda
Cass. Sez. Lav. 6 aprile 2016, n. 6693
Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Celentano; Ric. S.A.S. S.C.p.A.; Controric. D.L.;
Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda - Art. 2112 c.c. - Ambito di applicazione - Assunzione della quasi totalità della forza lavoro da parte dell'impresa subentrante nell'appalto - Configurabilità del trasferimento di azienda - Condizioni
Il trasferimento d'azienda è configurabile, in ipotesi di successione di società nell'appalto di un servizio, anche laddove la cessione riguardi solo l'acquisizione di un complesso stabile organizzato di lavoratori, quando non occorrono altri mezzi patrimoniali per l'esercizio dell'attività economica. In questo caso, l'attività economica si configura come il complesso organizzato di lavoratori subordinati specificamente e stabilmente addetti all'espletamento di un compito comune.
Nota
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Palermo che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva condannato la società subentrata nell'appalto alla reintegrazione di un lavoratore licenziato dalla società che precedentemente gestiva il medesimo appalto, ritenendo sussistente nella fattispecie un trasferimento d'azienda, con conseguente applicabilità dell'art. 2112 c.c. In particolare, la Corte d'Appello aveva ritenuto sussistente il trasferimento d'azienda in considerazione del fatto che quasi tutti i lavoratori in precedenza addetti all'appalto erano stati poi assunti dalla società subentrante nell'appalto medesimo. Inoltre, non erano state riscontrate nella fattispecie le condizioni individuate dall'art. 29, comma 3, del D. Lgs. 276/2003 al fine di escludere un trasferimento d'azienda, in mancanza di un obbligo legale o contrattuale di assunzione dei lavoratori addetti all'appalto. Contro la sentenza ricorre per Cassazione il lavoratore deducendo la violazione dell'art. 2112 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto sufficiente, ai fini dell'accertamento della successione tra le due società in un'attività economica organizzata, la riassunzione di una quota rilevante del personale già dipendente della società che precedentemente gestiva l'appalto, senza verificare se la specifica attività svolta da tali soggetti fosse tale da escludere la necessità del passaggio di beni strumentali alla società subentrante. La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, rilevando innanzitutto che si configura un trasferimento di azienda in tutti i casi in cui, ferma restando l'organizzazione del complesso dei beni destinati all'esercizio dell'attività economica, ne muta il titolare in virtù di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio, dovendosi così prescindere da un rapporto contrattuale diretto tra l'imprenditore uscente e quello subentrante nella gestione. La disciplina del trasferimento d'azienda di cui all'art. 2112 c.c. è quindi espressione del principio dell'inerenza del rapporto di lavoro al complesso aziendale, al quale rimane legato in tutti i casi in cui questo - pur cambiando la titolarità - resti immutato nella sua struttura organizzativa e nell'attitudine all'esercizio dell'impresa. Ciò premesso, la Corte ha aggiunto che, come è stato a più riprese affermato dalla Corte Europea di Giustizia, deve considerarsi trasferimento d'azienda anche l'acquisizione di un complesso stabile organizzato di persone, quando non occorrono mezzi patrimoniali per l'esercizio dell'attività economica. Sul punto, la Corte territoriale aveva correttamente richiamato la giurisprudenza comunitaria che, in settori di attività come quella oggetto di causa, ha configurato l'attività economica organizzata come il complesso organizzato di lavoratori subordinati specificamente e stabilmente addetti all'espletamento di un compito comune. La Corte territoriale ha quindi fatto corretta applicazione degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati quando ha ritenuto configurabile nella fattispecie un trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c. per avere la società subentrante adoperato la quasi totalità della forza lavoro in precedenza addetta al medesimo appalto, rilevando espressamente che a ciò non osta la circostanza che il fenomeno traslativo abbia riguardato soltanto il personale. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.
Richiesta di inquadramento superiore
Cass. Sez. Lav. 30 marzo 2016, n. 6174
Pres. Macioce; Rel. D'Antonio; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. D'A. V.;
Art. 2013 c.c. - Inquadramento superiore - Procedimento logico giuridico - Esame delle attività lavorative svolte - Individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal CCNL - Raffronto dei risultati della prima indagine e dei testi della normativa contrattuale - Necessità
Il procedimento logico - giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative svolte, nell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda.
Nota
La Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza del Tribunale di Benevento, riconosceva il diritto del dipendente al riconoscimento dell'inquadramento nella categoria di quadro di secondo livello, con condanna della società resistente al pagamento delle differenze retributive. La Corte territoriale rigettava, invece, l'ulteriore domanda formulata in ricorso in via principale dal lavoratore, tendente ad ottenere l'inquadramento nell'area quadri di primo livello, non ritenendone sussistenti i presupposti. La società proponeva ricorso avverso tale pronuncia sulla base di un unico articolato motivo. Resisteva il dipendente. In particolare, la società denunciava la violazione degli artt. 2103 e 1362 c.c. in riferimento alle previsioni contrattuali di cui all'accordo integrativo del 23 maggio 1995, deducendo che la Corte territoriale non aveva seguito, nella specie, il procedimento logico giuridico richiesto dal costante orientamento della Cassazione al fine di stabilire il corretto inquadramento spettante al lavoratore subordinato, non avendo raffrontato le specifiche mansioni svolte in concreto dal dipendente con le declaratorie professionali relative all'inquadramento di appartenenza del medesimo (area operativa), ed avendo considerato esclusivamente le declaratorie contrattuali relative all'inquadramento rivendicato. La Suprema Corte accoglieva il ricorso. La Corte di Cassazione rilevava, preliminarmente, che secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive consistenti, nell'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda (cfr. Cass. 28 aprile 2015, n. 8589; Cass. 27 settembre 2010, n. 20272; Cass. 25 luglio 1998, n. 7313). Con specifico riferimento al caso concreto, il Giudice di legittimità osservava che la Corte di appello di Napoli non aveva tenuto in adeguata considerazione il suddetto principio, avendo omesso di individuare gli elementi che differenziavano il superiore livello di quadro, rivendicato dal dipendente, rispetto all'inquadramento nell'area operativa posseduto dal medesimo, sotto il profilo delle responsabilità, del grado di autonomia e della discrezionalità implicate da ciascuno dei due inquadramenti considerati. La Suprema Corte osservava, altresì, che ai sensi delle declaratorie contrattuali applicabili, entrambi gli inquadramenti prevedevano un certo grado di responsabilità operativa ma, mentre il quadro ha facoltà di iniziativa nell'ambito delle direttive gestionali, l'area operativa possiede "capacità di autonomia operativa nei limiti dei regolamenti di esecuzione". Ne discendeva che, poiché la Corte territoriale aveva esposto, con riferimento alle mansioni del dipendente, che l'attività di progettazione ed esecuzione dei lavori veniva svolta "in relativa autonomia... in quanto vi era sempre un controllo del superiore gerarchico", si rendeva necessario un nuovo esame della domanda del lavoratore, applicando i principi in materia di inquadramento più volte affermati dalla Suprema Corte, con un adeguato approfondimento delle declaratorie contrattuali rilevanti, al fine di stabilire se il livello di discrezionalità di cui usufruiva il dipendente gli desse diritto ad ottenere il superiore inquadramento rivendicato. Per tali ragioni, la Suprema Corte cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.
Il Collegato lavoro in attesa dell’approvazione in Senato
di Andrea Musti, Jacopomaria Nannini