Contenzioso

Le tutele del lavoratore in caso di mancato versamento dei contributi

di Silvano Imbriaci

Il tema dei rimedi concessi dall’ordinamento al lavoratore per neutralizzare le conseguenze dannose derivanti dal mancato versamento della contribuzione obbligatoria da parte del datore di lavoro, quando essa sia irrimediabilmente prescritta, è frequentemente oggetto di indagine da parte della giurisprudenza della Cassazione, sotto vari profili di interesse.
Solo pochi giorni fa, ad esempio, la sezione Lavoro si è occupata (13423/2019) dell'estensione della tutela prevista dall'art. 13 della legge n. 1338/1962 anche ad un caso emblematico di scissione tra la titolarità dell'obbligo contributivo e lo svolgimento dell'attività lavorativa, ossia quello dei familiari collaboratori del titolare, iscritti alla Gestione Commercianti; così come è tornata ad occuparsi della questione sempre attuale del diverso regime probatorio che assiste il profilo dell'esistenza del rapporto di lavoro, rispetto a quello della sua effettiva durata, ai fini dell'accesso alla tutela prevista dall'art. 13 cit. (cfr. Cass. n. 13202/2019).

Che si tratti di un tema di forte interesse, anche per l'Inps, è testimoniato dalla recentissima pubblicazione della circolare n. 78 del 29 maggio 2019, nella quale sono indicati, molto utilmente, i profili istruttori e la documentazione necessaria per l'accesso al particolare meccanismo di tutela previsto dall'art. 13 della legge n. 1338/1962.

Tale norma, come è noto, consente di chiedere all'INPS la costituzione di rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell'assicurazione obbligatoria che sarebbe spettata al lavoratore in relazione ai contributi omessi. L'iniziativa può spettare al datore di lavoro, mediante avvio di un procedimento nel quale sarà chiamato ad esibire all'INPS la documentazione avente data certa da cui sia possibile ricavare l'esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione erogata al lavoratore interessato. Oppure può essere lo stesso lavoratore, in caso di inerzia o impossibilità del primo, a sostituirsi ad esso, salvo risarcimento del danno, a condizione che fornisca all'INPS la prova del rapporto di lavoro e delle retribuzioni corrisposte.
Anche la sentenza 27 maggio 2019, n. 14416 si occupa del tema della prova del rapporto di lavoro, come richiesta dalla legge per la costituzione della rendita.
Occorre precisare che per effetto degli interventi della Corte Costituzionale (cfr. n. 568/1989), salva la necessità di provare in via documentale l'esistenza del rapporto di lavoro (al fine di evitare costituzioni di rapporti di lavoro fittizi), la durata del rapporto e l'ammontare della retribuzione possono essere provati anche con altri mezzi. Ebbene, sulla base di questi insegnamenti, la giurisprudenza della Cassazione ha da sempre segnalato l'esigenza di trovare un equilibrio tra la tutela del lavoratore effettivamente danneggiato e la facilità con cui potrebbero crearsi con questo meccanismo posizioni assicurative fittizie. Per questo anche la prova della durata del rapporto di lavoro deve essere circoscritta al caso in cui il documento provi l'avvenuta costituzione del rapporto ad una data certa, dalla quale poter ricostruire, con ogni mezzo, sia la durata che l'onerosità del rapporto stesso (importo della retribuzione)
Per quanto poi riguarda effettivamente la subordinazione, secondo la Cassazione (Cass. Sez. lav. 14 luglio 2017, n. 17533) non è sufficiente, ai fini della costituzione della rendita, la prova dell'esistenza di un rapporto di lavoro qualsiasi; occorre che sia dimostrata l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Nel caso affrontato da Cass. n. 14416 si discute se possa costituire prova scritta della subordinazione l'accertamento giudiziario passato in giudicato, tra lavoratore e datore di lavoro, basato su prove testimoniali, oltre che su contratti di collaborazione, che i giudici di merito avevano ritenuto aver fornito il supporto, invece, contrariamente al dato formale, a rapporti di lavoro subordinato. La sentenza della cassazione in commento adotta fin da subito un'interpretazione rigorosa. La prova scritta deve riguardare non solo l'esistenza del rapporto di lavoro contestuale o successivo al documento, ma anche la sua qualificazione in termini di subordinazione, confinandosi l'eventuale prova testimoniale di supporto al solo aspetto della durata successiva al documento e della retribuzione corrisposta. La prova della subordinazione non può essere affidata ad un ragionamento presuntivo, ma necessita di documentazione di data certa, in quanto se per un certo atto è richiesta la forma scritta, la prova testimoniale o quella per presunzioni che abbiano ad oggetto l'esistenza del contratto sono inammissibili. Con queste premesse diventa agevole la soluzione circa il valore da attribuire all'accertamento giudiziale del rapporto.
Il giudicato intervenuto tra le parti, in un giudizio dove l'INPS non era stato citato o chiamato, non è atto idoneo ad integrare la prova scritta richiesta dall'art. 13, in quanto assume rilevanza il fatto che l'accertamento sia stato raggiunto mediante prove testimoniali; solo se l'accertamento si fonda su documentazione scritta avente data certa, lo stesso può essere preso alla base della costituzione della rendita: in altre parole è irrilevante la sede (perfino quella giudiziale) in cui sia avvenuto l'accertamento, se comunque non è fondato su prova scritta o documentazione avente data certa

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