Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Permessi per l'assistenza del familiare ricoverato in strutture di assistenza sanitaria continuativa
Cambio appalto e diritto del lavoratore all'assunzione
Malattia professionale causata dal cd. fumo passivo
Lavoratori c.d. piazzisti e modifica della clientela da visitare
Rifiuto del lavoratore di ottemperare al trasferimento illegittimo

Permessi ex legge 104/1992 per l'assistenza del familiare ricoverato in strutture di assistenza sanitaria continuativa

Cass. Sez. Lav. 14 agosto 2019, n. 21416

Pres. Napoletano; Rel. Tria; Ric. R.G.; Controric. A.S.L.A.

Lavoro - Lavoro subordinato – Diritto ai permessi ex art. 33 l. 104/1992 – Ricovero del familiare in strutture che forniscono assistenza sanitaria continuativa – Insussistenza

Il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perché queste non forniscono assistenza sanitaria
continuativa mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli per giusta causa per avere dichiarato che il soggetto disabile per il quale beneficiava dei permessi ai sensi dell'art. 33, comma 3, della l. 104/1992 non fosse ricoverato stabilmente presso alcuna struttura. Il Tribunale sia all'esito della fase sommaria, sia in opposizione, respingeva la domanda e tale decisione veniva confermata anche in sede d'appello.
In particolare la Corte territoriale rilevava che «il dipendente con una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà aveva affermato che la madre, in relazione alla quale usufruiva dei benefici dell'art. 33 della legge 104 del 1992, non "era ricoverata a tempo pieno presso alcuna struttura", mentre la ASL, a seguito di controlli, aveva appurato che già da due anni la signora soggiornava presso una residenza sostanzialmente alberghiera» e che tale «dichiarazione mendace contestata andava considerata frutto di dolo o, almeno, di grave negligenza» e quindi «da reputarsi di tale gravità da meritare la massima sanzione espulsiva tenendo conto del fatto che la dichiarazione falsa era stata resa nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio da un soggetto legato da un vincolo fiduciario con il datore di lavoro destinatario».
Il dipendente ha proposto ricorso per Cassazione per «violazione e falsa applicazione dell'art. 33, commi 3, 4 e 7-bis, della legge n. 104 del 1992, sostenendo che la Corte d'appello avrebbe confermato il licenziamento del ricorrente sulla base di un fatto inesistente rappresentato dall'illegittima fruizione dei permessi di cui al richiamato art. 33».
La Suprema Corte ha accolto il ricorso ricordando che la ratio legis dell'istituto in esame consiste «nel favorire l'assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare rendendo incompatibile con la fruizione del diritto all'assistenza da parte dell'handicappato, solo una situazione nella quale il livello di assistenza sia garantito in un ambiente ospedaliero o del tutto similare. Solo strutture di tal genere, infatti, possono farsi integralmente carico sul piano terapeutico ed assistenziale delle esigenze del disabile, con ciò rendendo non indispensabile l'intervento, a detti fini, dei familiari. L'interesse primario cui è preposta la norma in questione è, del resto, quello di "assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito". Tanto più che i soggetti tutelati sono portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da "rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione", secondo quanto letteralmente previsto dell'art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992».
Pertanto, secondo la Corte, «il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziale di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perché queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa».
La Corte di Cassazione ha quindi accolto il ricorso affermando che la corte territoriale non ha tenuto conto delle finalità per le quali la dichiarazione del lavoratore doveva essere resa.

Cambio appalto e diritto del lavoratore all'assunzione

Cass. Sez. Lav. 22 agosto 2019, n. 21615

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Fresa; Ric. S. S.p.A.; Controric. R.L.M.;

Cambio appalto - Diritto dei lavoratori all'assunzione presso l'appaltatore subentrante - Verifica - Presupposti ex art. 2112 c.c. - Necessità

In caso di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi, non esiste un diritto dei lavoratori licenziati dall'appaltatore cessato al trasferimento automatico all'impresa subentrante, ma occorre accertare in concreto che vi sia stato un trasferimento di azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c., mediante il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all'attività di impresa, o almeno del "know how" o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti.
NOTA
Il caso di specie trae origine dalla domanda, presentata da un lavoratore, volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proseguire il rapporto di lavoro ex art. 2112 c.c. alle dipendenze della società subentrante nell'appalto precedentemente affidato alla società sua ex datrice di lavoro, concernente il servizio regionale di emergenza "118". La domanda del lavoratore veniva accolta sia in primo che in secondo grado.
Ricorre per Cassazione la società, in particolare deducendo, con il primo motivo di ricorso, la violazione dell'art. 2112 c.c. per avere la sentenza impugnata «confuso due concetti distinti quali quelli del passaggio del servizio e quello del trasferimento di azienda». Secondo parte ricorrente, nel caso di specie non sarebbe applicabile l'art. 2112 c.c., avendo l'organizzazione aziendale della società subentrante nell'appalto natura «assolutamente innovativa ed originaria», in quanto nessun elemento dell'organizzazione del precedente appaltatore era stato trasferito al nuovo.
La Corte di Cassazione ha accolto il predetto motivo di ricorso.
La Suprema Corte ha sottolineato, anzitutto, che in materia di trasferimento di azienda si applica la disciplina dell'art. 2112 c.c. nel caso in cui, pur rimanendo immutata l'organizzazione aziendale, si verifichi la sostituzione della persona del titolare del rapporto di lavoro e il suo subentro nella gestione del complesso dei beni ai fini dell'esercizio dell'impresa, senza che rilevi lo strumento tecnico giuridico adottato e la sussistenza di un vincolo contrattuale diretto tra cedente e cessionario (in questo senso, Cass. n. 26808 del 23/10/2018).
La Corte ha inoltre richiamato la giurisprudenza prevalente in tema di trasferimento di azienda, ricordando che «in caso di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi, non esiste un diritto dei lavoratori licenziati dall'appaltatore cessato al trasferimento automatico all'impresa subentrante, ma occorre accertare in concreto che vi sia stato un trasferimento di azienda, ai sensi dell'art. 2112 c.c., mediante il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale dell'attività di impresa, o almeno del "know how" o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti, altrimenti ostandovi il disposto dell'art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, non in contrasto, sul punto, con la giurisprudenza eurounitaria che consente, ma non impone, di estendere l'ambito di protezione dei lavoratori di cui alla direttiva n. 2001/23/CE ad ipotesi ulteriori rispetto a quella del trasferimento di azienda» (ex pluribus, Cass. n. 26808 del 23/10/2018, Cass. n. 24972 del 6/12/2016).
Ad avviso della Suprema Corte, il giudice dell'appello aveva errato nel ricondurre la fattispecie accertata all'ipotesi di cui all'art. 2112 c.c., posto che l'azienda subentrata nell'appalto del servizio "118" era stata autorizzata a rivolgersi al mercato per il reperimento delle ambulanze ed aveva a tal fine stipulato apposito contratto di leasing con terze parti per l'approvvigionamento di tale fondamentale strumento di espletamento del servizio.
Tale metodo di approvvigionamento è stato ritenuto dalla Suprema Corte quale «elemento che di per sé solo vale a spezzare ogni continuità con il complesso organizzato» del precedente appaltatore.
La Corte ha quindi concluso per l'accoglimento del predetto motivo di ricorso, cassando la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.

Malattia professionale causata dal cd. fumo passivo

Cass. Sez. Lav. 9 agosto 2019, n. 21287

Pres. Bronzini; Rel. Arienzo; P.M. Cimmino; Ric. A.U.; Contr. C.D. e altri;

Malattia professionale causata dal cd. fumo passivo – Risarcimento danno biologico – Responsabilità a carico del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. – Sussistenza – Mancanza all'epoca dei fatti di norme specifiche in tema di divieto di fumo passivo – Irrilevanza.

L'art. 2087 c.c., quale norma di chiusura del sistema antinfortunistico impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore. Tale responsabilità non è riscontrabile solo nell'ipotesi in cui il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, sicché non poteva essere adottata l'adozione di adeguate misure precauzionali.
NOTA
La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di risarcimento del danno iure hereditatis avanzata dalla moglie e dai figli di un ex dipendente di una ASL deceduto - nel 2002 dopo due anni dall'insorgenza della patologia - in conseguenza dell'esposizione al fumo passivo. A parere della Corte di appello, non solo l'art. 65 del d.lgs. n. 626/1994, all'epoca vigente, prevedeva il divieto di fumo nei luoghi esposti ad agenti cancerogeni come la segreteria ove aveva lavorato il de cuius, contigua al centro di radiologia, ma, più in generale, l'art. 2087 c.c. obbligava il datore di lavoro ad attuare tutte le misure di sicurezza idonee a tutelare la salute dei lavoratori, indipendentemente dall'esistenza di norme esplicite in tal senso. Conseguentemente la ASL avrebbe dovuto porre in essere misure atte ad impedire o ridurre il danno, quali l'utilizzo di areatori e di locali idonei.
Avverso tale sentenza la ASL propone ricorso per cassazione. Con il primo motivo denuncia la erroneità della sentenza nella parte in cui non ha considerato che le conoscenze scientifiche, al tempo dei fatti di causa, non erano tali da mettere in guardia i fumatori sui danni alla salute connessi al cd. fumo passivo; che, dal canto suo, il datore di lavoro aveva adottato tutte le misure previste secondo le norme tecniche e di esperienza vigenti all'epoca; che il d. lgs. n. 626/1994, prevedeva che le lavorazioni rischiose dovessero svolgersi in luoghi isolati, come era avvenuto nel caso di specie, con la radiologia; che, solo con la l. n. 3 del 2003, era stato sancito il divieto assoluto di fumo nei locali chiusi.
La Suprema Corte ritiene infondato il motivo evidenziando come l'art. 2087 c.c., quale norma di chiusura del sistema antinfortunistico, imponga al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato. Tale responsabilità non è riscontrabile solo nell'ipotesi in cui il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, sicché non poteva essere adottata l'adozione di adeguate misure precauzionali (Cass. 5 marzo 2018, n. 5066). Nel caso in esame, la Cassazione ritiene corretta la valutazione compiuta dai giudici di merito che hanno accertato una condizione di rischio per la salute a causa del fumo passivo, al di là della introduzione di specifiche norme contenenti divieti di fumo, posto che doveva ritenersi pacifica, specie da parte di una struttura sanitaria, la conoscenza dei rischi del fumo e dei raggi degli apparecchi esistenti nel locale attiguo adibito ad esami radiologici.
Con successivo motivo, la ASL denuncia la sentenza nella parte in cui ha riconosciuto, a titolo di danno biologico, una percentuale di invalidità pari al 100%, pur in assenza di specifica prova da parte degli eredi. La Cassazione rigetta anche tale motivo e conferma il proprio orientamento affermando che, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato per quel periodo di tempo, ed il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi (Cass. 31 ottobre 2014, n. 23183). In tal caso l'ammontare del danno biologico terminale sarà commisurato soltanto all'inabilità temporanea ma la sua liquidazione - come ha correttamente fatto la Corte di appello - dovrà tenere conto che tale danno seppure temporaneo, è massimo nella sua entità, in quanto la lesione alla salute è talmente elevata da non essere suscettibile di recupero.

Lavoratori c.d. piazzisti e modifica della clientela da visitare

Cass. Sez. Lav. 30 luglio 2019, n. 20520

Pres. Nobile; Rel. Garri; Ric. R.B.S.R.L.; Controric. M.S.;

Lavoro subordinato – Viaggiatori o piazzisti – Trasferimento – Nozione - Modifica della clientela all'interno della medesima zona geografica – Insussistenza – Modifica sostanziale della prestazione richiesta – Necessità

Con riguardo all'attività dei lavoratori c.d. piazzisti deve ritenersi che l'unità produttiva o il luogo di lavoro, rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 2103 cod. civ. e ai sensi dell'art. 35 della legge 20 maggio 1970 n. 300, deve essere individuata in qualsiasi articolazione autonoma dell'impresa, avente sotto il profilo funzionale idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione di beni o servizi dell'impresa stessa, della quale quindi costituisce elemento organizzativo. Si ritiene perciò che tale debba intendersi la zona da visitare o l'itinerario da compiere per eseguire la prestazione lavorativa e più in generale l'ambito territoriale entro il quale la prestazione dedotta in contratto deve essere effettuata
NOTA
Nel caso in esame il Tribunale di Agrigento dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro al lavoratore, condannando la stessa società alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento e fino all'effettiva reintegra.
Il licenziamento era stato motivato, in sintesi, dal fatto che il lavoratore si era rifiutato di svolgere la propria prestazione lavorativa all'esito della modifica dell'ambito territoriale nel quale lo stesso, che svolgeva mansioni di piazzista, era tenuto a promuovere la vendita di prodotti o servizi per conto della società.
Successivamente la Corte d'Appello di Palermo confermava l'illegittimità del licenziamento sostenendo che, correttamente, il giudice di prime cure aveva qualificato come trasferimento la modificazione dell'ambito territoriale di cui sopra e che, altrettanto correttamente, aveva ritenuto giustificato il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione, in considerazione del fatto che il trasferimento non era sorretto da alcuna ragione tecnica o produttiva.
La legittimità del rifiuto del lavoratore rendeva il recesso esercitato su tale base, secondo la Corte territoriale, illegittimo.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro per numerosi motivi tra i quali, per quanto qui interessa, proprio la erroneità della sentenza nella parte in cui aveva qualificato come trasferimento quella che in realtà era una mera modifica di punti vendita assegnati al piazzista nell'ambito della medesima zona territoriale precedentemente assegnata (province di Agrigento, Enna e Caltanissetta) senza, peraltro, l'indicazione di un preciso itinerario da seguire.
La Corte di Cassazione ha giudicato fondato tale motivo e cassato la sentenza con rinvio.
La Suprema Corte, infatti, ha confermato un suo solido orientamento che afferma che «con riguardo all'attività dei lavoratori c.d. piazzisti deve ritenersi che l'unità produttiva o il luogo di lavoro, rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 2103 cod. civ. e ai sensi dell'art. 35 della legge 20 maggio 1970 n. 300, deve essere individuata in qualsiasi articolazione autonoma dell'impresa, avente sotto il profilo funzionale idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività di produzione di beni o servizi dell'impresa stessa, della quale quindi costituisce elemento organizzativo. Si ritiene perciò che tale debba intendersi la zona da visitare o l'itinerario da compiere per eseguire la prestazione lavorativa e più in generale l'ambito territoriale entro il quale la prestazione dedotta in contratto deve essere effettuata». Secondo la Cassazione, dunque, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere, in via automatica, la modifica dei punti vendita da visitare come un trasferimento, senza tenere in considerazione il fatto che i nuovi clienti si trovavano nella medesima zona geografica ed omettendo di verificare se la modifica in esame «comportasse una sostanziale alterazione delle modalità con le quali la prestazione doveva essere resa». In tali ipotesi, infatti, sempre secondo la Corte, il giudice di merito dovrebbe verificare se – pur all'interno della medesima zona – vi sia stata una sostanziale modifica della prestazione, come nel caso di assegnazione di itinerari più faticosi o di clienti posti in località più difficili da raggiungere, tale da comportare l'applicazione della disciplina propria del trasferimento seppure in assenza di una modifica della zona geografica assegnata.

Rifiuto del lavoratore di ottemperare al trasferimento illegittimo

Cass. Sez. Lav. 13 agosto 2019, n. 21391

Pres. Nobile; Rel. Blasutto; Ric. E. S.p.A.; Controric. M.G.

Contratti in genere - Scioglimento del contratto - Risoluzione del contratto -Contratti con prestazioni corrispettive - Inadempimenti reciproci - Eccezione di inadempimento - Esame comparativo - Necessità - Accertamento del giudice del merito - Sindacabilità in sede di legittimità - Limiti - Fattispecie in tema di lavoro.

Nei contratti con prestazioni corrispettive, ove venga proposta dalla parte l'eccezione «inadimplenti non est adimplendum», il giudice deve procedere ad una valutazione comparativa del comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma. Tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.
NOTA
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Napoli, pronunciata in sede di rinvio, che aveva accolto l'appello proposto da un lavoratore e, per l'effetto, aveva dichiarato l'illegittimità del trasferimento disposto dal datore in pretesa esecuzione di una precedente sentenza di condanna di reintegrazione.
Segnatamente, il lavoratore, già dipendente in Agnano (NA) dal 1991 di una società comodataria di E. S.p.A., aveva ottenuto una sentenza con cui era stata accertata una interposizione illecita di manodopera ed era stata dichiarata l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il lavoratore medesimo e la società interponente E. S.p.A. a decorrere dal luglio 1998. Con tale sentenza era stata, altresì, dichiarata l'inefficacia del licenziamento intimato nel giugno 1999 dalla società interposta, con conseguente condanna della società interponente al pagamento delle retribuzioni non percepite dalla data del licenziamento. Dopo di che, in sede di esecuzione dell'ordine di ripristino del rapporto di lavoro presso la società interponente, il lavoratore era stato invitato entro pochi giorni a prendere servizio presso lo stabilimento di Livorno Collesalvetti. Senonché, il dipendente aveva rifiutato di presentarsi presso la sede assegnatagli, contestando giudizialmente il conseguente provvedimento espulsivo, sul presupposto che lo stesso originasse da una fattispecie di trasferimento illegittimo.
All'esito del processo, in sede di legittimità, la Suprema Corte aveva accolto il ricorso promosso dal lavoratore, accettando l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. del lavoratore e cassando con rinvio la precedente decisione della Corte d'Appello di Napoli.
Di qui, la pronuncia oggetto di commento - resa in sede rescissoria dalla Corte di cassazione - la quale, confermando la decisione in fase di rinvio della Corte d'Appello di Napoli, ha rigettato il ricorso proposto dalla società datrice, così argomentando.
La Suprema Corte risolve la questione dei limiti di applicabilità dell'eccezione di inadempimento, applicando al caso di specie il principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il giudice, ove venga invocata l'esimente inademplenti non est adimplendum - alla quale è riconducibile, nel caso in esame, il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione, fondata sull'allegazione dell'inadempimento, anche parziale, del datore di lavoro, concretato da un ordine di trasferimento illegittimo - «deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse. È dunque necessario, in caso di inadempienze reciproche, far luogo ad un giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambedue le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma, e tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra tra i poteri del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria».
Nel dettaglio, il Supremo Collegio, al pari della Corte di merito, ha ritenuto «giustificato e proporzionato» il comportamento del lavoratore di rifiuto del trasferimento, avuto riguardo alle concrete circostanze del caso: la destinazione ad una sede lavorativa particolarmente distante dal luogo di residenza (oltre 600 chilometri); la ristrettezza del termine concesso per prendere servizio, anche in ragione delle specifiche esigenze organizzative e familiari; l'assenza di mezzi economici adeguati a sopportare il trasferimento, tenuto conto che all'epoca E. S.p.A. non aveva ancora corrisposto le somme dovute al lavoratore in esecuzione del precedente giudicato né altri emolumenti che pure sarebbero spettati in caso di trasferimento. Tali circostanze, - conclude la cassazione - complessivamente considerate, integrano una lesione preponderante degli interessi del lavoratore in raffronto a quelli di parte datoriale, solo genericamente riferibili ad esigenze organizzative, peraltro non meglio esplicitate.

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