Contenzioso

Niente reintegra per chi insulta l’azienda

di Giulia Bifano e Uberto Percivalle

Indirizzare al proprio datore di lavoro parole ingiuriose non sempre vale a fare scattare il licenziamento. È stato questo il caso di un dipendente di società di vigilanza che, licenziato per avere contattato insistentemente il centralino aziendale per motivi non urgenti ed essersi rivolto al collega dall'altro capo del telefono con “coloriti” apprezzamenti negativi verso la società, ha ottenuto in giudizio che il proprio licenziamento fosse dichiarato illegittimo, poiché sproporzionato.

Il caso, deciso dalla Corte di cassazione con sentenza 12786/2019, ruota attorno alla gravità e al significato dell'espressione «che azienda di m.», pronunciata dal dipendente licenziato, alla presenza di soggetti terzi e durante l'orario di lavoro, nell'ambito di una conversazione telefonica con un proprio collega addetto al centralino.

La Corte di appello di Roma ha ritenuto che una simile condotta, anche tenendo conto delle disposizioni disciplinari contenute nel contratto collettivo applicato, non potesse essere sufficiente a comportare la massima sanzione espulsiva, ben potendo essere punita con una misura conservativa. Secondo i giudici di secondo grado non esiste, in capo al dipendente, alcun «dovere di stima» nei confronti del proprio datore di lavoro: per poter configurare una lesione permanente del vincolo fiduciario sotteso al rapporto lavorativo è necessario che il comportamento del dipendente sia connotato da particolare gravità, come accade nei casi di insubordinazione o, più in generale, di severa violazione dei generali doveri di correttezza e fedeltà.

La Corte d'appello ha dato atto che per potersi compiutamente parlare di insubordinazione non è necessario avere riguardo al solo rifiuto del lavoratore di adempiere alla prestazione, ben potendosi avere insubordinazione in tutte le ipotesi in cui il comportamento del dipendente risulti idoneo a pregiudicare l'organizzazione aziendale. Un'ipotesi di insubordinazione potrebbe sussistere anche laddove la critica rivolta da un dipendente ai superiori gerarchici sia idonea a ripercuotersi negativamente sull'autorevolezza di cui godono questi ultimi, così inficiando il buon andamento dell'organizzazione aziendale.

Tuttavia i giudici di secondo grado hanno sottolineato come la frase pronunciata dal lavoratore licenziato fosse del tutto sprovvista di attribuzioni specifiche o manifestamente disonorevoli. In sostanza l'insulto, per quanto di indubbia volgarità, sarebbe sprovvisto della capacità di arrecare un pregiudizio all'organizzazione dell'impresa e sarebbe assimilabile a uno sfogo inopportuno. Un indebito, questo, di gravità insufficiente a giustificare il recesso immediato dal rapporto da parte del datore di lavoro.

Nel decidere sul ricorso della società, la Corte di cassazione ripercorre e conferma le conclusioni circa il peso e la gravità della condotta del dipendente rese dalla Corte d'appello, confermando l'illegittimità del licenziamento. Tuttavia, la Suprema corte censura nettamente il regime sanzionatorio adottato dalla Corte di merito che, a fronte di un licenziamento ritenuto sproporzionato ma pur sempre fondato su un fatto “materialmente” accaduto, ha disposto la reintegra del lavoratore.

La Cassazione, in continuità con la decisione 12365/2019 del 9 maggio, ha affermato come il provvedimento della reintegra abbia natura residuale e scatti, ad esempio, quando la condotta del dipendente licenziato sia esplicitamente punita, in base al contratto collettivo applicato, con una sanzione conservativa. Secondo la Corte non è tuttavia questo il caso dell'insulto al proprio datore di lavoro: seppure sproporzionata tenuto conto del quadro complessivo del Ccnl, la condotta non è esplicitamente collegata a una sanzione inferiore al licenziamento. Per la Corte il licenziamento dunque, è certamente sproporzionato. Altrettanto certamente, però, il dipendente non deve essere reintegrato in azienda e ha diritto al solo risarcimento.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©