Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Impugnazione di licenziamento
Licenziamento del dirigente
Licenziamenti collettivi e indennità di preavviso

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 17 luglio 2019, n. 19264

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; Ric. S.Z.; Controric. S.C.

Lavoro subordinato – Licenziamento per giusta causa – Proporzionalità della sanzione - Necessità – Valutazione del giudice di merito sorretta da adeguata motivazione - Insindacabilità in sede di legittimità – Sussiste

La sanzione disciplinare deve essere proporzionale alla gravità dei fatti contestati, sia in sede di irrogazione da parte del datore di lavoro nell'esercizio del suo potere disciplinare, avuto riguardo delle ragioni che lo hanno indotto a ritenere grave il comportamento del dipendente, sia da parte del giudice del merito, il cui apprezzamento di legittimità e congruità della sanzione applicata, se sorretto da adeguata e logica motivazione, si sottrae da censure in sede di legittimità.
NOTA
Nel caso di specie una lavoratrice adiva il Tribunale al fine di fare accertare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatole dalla Società, in quanto ritorsivo. Il Tribunale affermava la sussistenza dell'illecito disciplinare contestato - di accesso non autorizzato della lavoratrice a files contenenti dati riservati - con esclusione della natura ritorsiva del licenziamento, tuttavia, in difetto di adeguata prova da parte del datore di lavoro della stampa e dello scarico dei files, il giudice di primo grado riteneva sproporzionata la sanzione applicata e, pertanto, annullava il licenziamento per giusta causa, condannando la Società, siccome priva del requisito dimensionale ex art. 35 l. 300/70, al pagamento, in favore della lavoratrice, dell'indennità di preavviso e dell'indennità, ai sensi dell'art. 8 l. 604/66. Tale sentenza veniva confermata in sede di appello.
La Società ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione e falsa applicazione delle norme di legge e di contratto collettivo «per esclusione della giusta causa di licenziamento a ragione di una ravvisata sproporzione qualificata per erronea interpretazione delle norme contrattuali collettive, che non prevedono alcuna sanzione conservativa per il fatto specifico contestato alla lavoratrice». Oltre a ciò la Società ha lamentato l'erronea liquidazione dell'indennità in cinque mensilità per non corretta valutazione della gravità della condotta della lavoratrice, delle dimensioni aziendali e del numero di dipendenti occupati.
La Corte di legittimità ha in primo luogo ricordato principi ormai consolidati, ed in particolare, che «la Corte di cassazione può sindacare l'attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e di mera contrapposizione, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale», e che «la sanzione disciplinare deve essere proporzionale alla gravità dei fatti contestati, sia in sede di irrogazione da parte del datore di lavoro nell'esercizio del suo potere disciplinare, avuto riguardo delle ragioni che lo hanno indotto a ritenere grave il comportamento del dipendente, sia da parte del giudice del merito, il cui apprezzamento di legittimità e congruità della sanzione applicata, se sorretto da adeguata e logica motivazione, si sottrae a censure in sede di legittimità».
I Giudici di legittimità hanno quindi rigettato il ricorso concludendo che in realtà «i motivi in esame si risolvono nella contestazione dell'accertamento in fatto del giudice di merito, sulla base delle risultanze istruttorie così come apprezzate, indebitamente sollecitando una rivisitazione del merito: ma essa, come noto, è indeferibile in sede di legittimità».
La Suprema Corte ha, pertanto, rigettato il ricorso ritenendo che la Corte d'Appello avesse compiuto correttamente l'accertamento di non proporzionalità, con argomentazioni adeguate e corretta applicazione dei principi in materia, in specifico riferimento alle ipotesi contrattuali di sanzione conservativa, nell'alveo della propria attività sussuntiva e valutativa quale giudice di merito. Infine, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso anche con riferimento alla asserita erronea liquidazione dell'indennità risarcitoria in cinque mensilità, affermando che «è noto che, in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo per il quale non sia applicabile la disciplina della cosiddetta stabilità reale, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell'indennità risarcitoria prevista dall'art. 8 l. 604/66 è incensurabile in sede di legittimità, siccome spettante al giudice di merito, in quanto sia adeguatamente motivata, come nel caso di specie».

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 22 luglio 2019, n. 19661

Pres. Marchese; Rel. Balestrieri; Ric. G.E.D.; Controric. S.S.R.L.;

Lavoro subordinato – Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Nullità – Tutela applicabile – Art. 8 L. 604/1966 – Esclusione

Secondo la normativa ratione temporis vigente, nei rapporti di lavoro ai quali non si applica l'art. 18 della legge nr. 300 del 1970, gli effetti del licenziamento dichiarato nullo, ai sensi dell'art. 2110, comma 2, cod.civ., perché intimato in mancanza del superamento del periodo cd. di comporto, non sono regolati, in via di estensione analogica, dalla disciplina dettata dall'art. 8 della legge nr. 604 del 1966, bensì, in assenza di una espressa regolamentazione, da quella generale del codice civile
NOTA
Nel caso in esame il Tribunale di Catania dichiarava l'illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto disposto dalla società datrice di lavoro nei confronti della lavoratrice, condannando la predetta società alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento e fino all'effettiva reintegra. Successivamente la Corte d'Appello di Catania, ferma l'illegittimità del licenziamento, riformava parzialmente la sentenza del giudice di prime cure ritenendo applicabile alla fattispecie, in ragione delle dimensioni aziendali al di sotto della soglia prevista per l'applicazione della tutela reale, la tutela di cui all'art. 8 della Legge 604 del 1966, applicabile al licenziamento ratione temporis, con conseguente condanna della società datrice di lavoro alla riassunzione o al risarcimento del danno pari a 4 mensilità di retribuzione.
La Corte territoriale, infatti, ha osservato come: «pure a qualificare nullo il licenziamento intimato senza il superamento del periodo di comporto, restasse diversificata la tutela, in ragione del requisito dimensionale, dovendosi applicare quella prevista dall'art. 8 cit. per il licenziamento senza giustificato motivo».
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la lavoratrice per numerosi motivi tra i quali, per quanto qui interessa, proprio la erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto applicabile la tutela di cui all'art. 8 L.604/1966 al licenziamento per superamento del periodo di comporto dichiarato illegittimo. Lo stesso, secondo parte ricorrente, dovrebbe essere considerato, in quanto nullo, come mai avvenuto determinando così la continuità, in fatto ed in diritto, del rapporto di lavoro a prescindere dalle dimensioni aziendali.
La Corte di Cassazione ha giudicato fondato tale motivo e cassato la sentenza con rinvio.
La Suprema Corte, infatti, dopo aver confermato un suo solido orientamento che afferma che il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie di recesso autonoma rispetto al licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa e che lo stesso, in caso di illegittimità, debba considerarsi nullo, ha rilevato come in effetti la nullità del recesso in tali casi non fosse stata messa in dubbio neppure dalla Corte d'Appello di Catania. Secondo la Cassazione, però, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere applicabile a tale fattispecie, proprio in quanto determinante la nullità e non la annullabilità del recesso, la disciplina di cui all'art. 8 della L. 604 del 1966 (lo si ricorda, applicabile ratione temporis ai casi, come quello in esame, in cui non vi fosse il requisito dimensionale per l'applicazione dell'art. 18 L. 300/1970). A tal proposito la Suprema Corte, infatti, ha individuato il seguente principio di diritto: «Secondo la normativa ratione temporis vigente, nei rapporti di lavoro ai quali non si applica l'art. 18 della legge nr. 300 del 1970, gli effetti del licenziamento dichiarato nullo, ai sensi dell'art. 2110, comma 2, cod.civ., perché intimato in mancanza del superamento del periodo cd. di comporto, non sono regolati, in via di estensione analogica, dalla disciplina dettata dall'art. 8 della legge nr. 604 del 1966, bensì, in assenza di una espressa regolamentazione, da quella generale del codice civile».

Impugnazione di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 4 luglio 2019, n. 17999

Pres. Di Cerbo; Rel. Blasutto; Ric. C.P.P.; Controric. C.N.C.

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Impugnazione per difetto di rappresentanza dell'organo della società datrice di lavoro intimante il licenziamento - Ratifica in sede di costituzione in giudizio per resistere all'impegnativa - Sussiste - Retroattività - Sussiste

La disciplina dettata dall'art. 1399 cod. civ. - che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso dal soggetto privo del potere di rappresentanza - è applicabile, in virtù dell'art. 1324 cod. civ., anche a negozi unilaterali come il licenziamento. Pertanto la dichiarazione di recesso proveniente da un organo della società datrice di lavoro sfornito del potere di rappresentanza della medesima può essere efficacemente ratificata dall'organo rappresentativo della società anche in sede di costituzione in giudizio per resistere all'impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore che deduca il detto difetto di rappresentanza, senza che la retroattività della ratifica così intervenuta incontri limite nell'anteriorità della suddetta impugnativa, non potendo il lavoratore essere compreso fra quei terzi di cui il secondo comma dell'art. 1399 fa salvi i diritti.
NOTA
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha chiarito che, nell'ipotesi di licenziamento emesso da un organo appartenente alla struttura organizzativa dell'ente datoriale ma privo del potere di rappresentanza, l'atto di costituzione in giudizio con cui il datore resiste all'impugnativa del recesso integra manifestazione della volontà di far proprio quell'atto, valendo come ratifica implicita dello stesso, avente forma scritta.
In concretu, un lavoratore – dopo aver subîto il recesso datoriale e aver ottenuto la reintegrazione giudiziale – veniva nuovamente licenziato mediante comunicazione scritta firmata dal segretario generale dell'ente, privo del relativo potere.
A fronte dell'impugnazione giudiziale del secondo licenziamento, il Giudice di prime cure la respingeva. La Corte territoriale, pur confutando «l'assunto del primo giudice secondo cui l'atto era formalmente valido», non disponeva alcuna tutela «ripristinatoria» a favore del dipendente.
Il lavoratore proponeva, dunque, ricorso per Cassazione, lamentando che i Giudici d'appello, pur avendo accertato che il recesso era stato intimato da soggetto non legittimato, avevano erroneamente escluso l'applicazione dell'art. 18 St. Lav.
La Cassazione respinge la censura, rammentando, anzitutto, che l'ente datoriale apparteneva al genus delle organizzazioni di tendenza, con riferimento alle quali la carenza di potere dell'organo da cui promana il licenziamento non consente l'applicazione della tutela reintegratoria.
In vero – prosegue la Suprema Corte – la fattispecie in esame comporta la sola inefficacia del recesso sino alla sua ratifica, non già la sua invalidità. Precisamente, la disciplina dettata dall'art. 1399 cod. civ. - che prevede la possibilità di ratifica con effetto retroattivo, ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso dal soggetto privo del potere di rappresentanza - è applicabile, in virtù dell'art. 1324 cod. civ., anche ai negozi unilaterali, qual è il recesso. Sicché – soggiunge la Cassazione – la dichiarazione di licenziamento proveniente da un organo dell'ente datore di lavoro sfornito del potere di rappresentanza può, come nel caso de quo, essere efficacemente ratificata, con effetto retroattivo ex tunc, dall'organo rappresentativo del predetto ente anche in sede di costituzione in giudizio per resistere all'impugnativa di licenziamento proposta dal lavoratore che abbia dedotto il difetto di rappresentanza.
Né – concludono i Giudici di legittimità – varrebbe in contrario opporre che tale efficacia retroattiva non possa operare nei confronti del dipendente licenziato: invero, «il lavoratore non può considerarsi terzo, del quale, rispetto all'effetto retroattivo della ratifica, sono fatti salvi i diritti a norma dell'art. 1399 cit., giacché egli non è un avente causa del dominus di diritti incompatibili con quello su cui è destinata ad incidere la dichiarazione unilaterale datoriale, siccome titolare di una posizione soggettiva costituita con il dominus proprio in virtù del rapporto di lavoro subordinato».

Licenziamento del dirigente

Cass. Sez. Lav. 17 luglio 2019, n. 19260

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; P.M. Cimmino; Ric. Z.G.; Controric. R.F.I. S.p.A.;

Licenziamento disciplinare del dirigente - Fatto avente rilevanza penale – Rapporto tra procedimento penale e disciplinare - Autonomia dei due giudizi

Licenziamento disciplinare - Contestazione dell'addebito - Tempestività -Condizioni - Carattere relativo del principio di immediatezza

Nell'ambito del licenziamento disciplinare del dipendente, considerato il venir meno della cd. "pregiudiziale penale", sussiste completa autonomia e separazione delle valutazioni espresse nell'ambito dei giudizi penale e disciplinare, potendo la contestazione dell'addebito e il successivo licenziamento essere fondati su fatti disciplinarmente rilevanti, che prescindono dal giudizio penale in corso.
Il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito e della tempestività del recesso datoriale deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore, ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma, confermando la pronuncia di primo grado, dichiarava la legittimità del licenziamento disciplinare intimato a un dirigente per grave inadempimento ai doveri conseguenti al proprio rapporto di lavoro consistito, da un lato, nell'omesso controllo e intervento nei confronti di una società appaltatrice alla quale, pur in assenza dei requisiti di legge, erano stati affidati dei lavori di armamento ferroviario, dall'altro, nell'approvazione di SAL e riconoscimento di compensi a tale ditta appaltatrice, a fronte di lavorazioni in realtà mai eseguite.
Per i medesimi fatti oggetto di contestazione disciplinare era stato avviato nei confronti del dirigente anche un procedimento penale, ancora pendente al momento dell'irrogazione del provvedimento espulsivo.
La Corte territoriale, nel ritenere legittima la sanzione espulsiva, aveva altresì ritenuto non applicabile alla fattispecie l'art. 15 del CCNL Dirigenti Industria (ai sensi del quale il dirigente, nei cui confronti si sia aperto un procedimento civile o penale per fatti direttamente connessi all'esercizio delle funzioni attribuitegli, può essere licenziato solo nei casi di dolo o colpa grave accertati con sentenza passata in giudicato), essendo la contestazione ed il licenziamento fondati su fatti disciplinarmente rilevanti, che prescindevano dal giudizio penale in corso.
Parimenti, la Corte aveva ritenuto non tardiva la contestazione disciplinare rispetto all'accertamento compiuto degli addebiti, alla contestazione degli stessi e alla irrogazione della sanzione.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, con vari motivi di ricorso.
In particolare, per quanto di interesse, con il primo motivo di ricorso il dirigente censurava la sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 15 del CCNL applicato al rapporto di lavoro, «per essersi i giudici di merito limitati ad una analisi estremamente superficiale della vicenda, rigettando l'eccezione di nullità del procedimento, perché i fatti contestati, che erano oggetto anche di indagini penali, non erano stati ancora accertati con sentenza passata in giudicato».
Con il secondo motivo di ricorso, il lavoratore censurava la sentenza nella parte in cui era stata ritenuta tempestiva la contestazione disciplinare.
La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi tali motivi.
Con riferimento al primo motivo di ricorso, la Cassazione ha ritenuto corretto l'assunto della Corte territoriale, da un lato, osservando che gli addebiti contestati al lavoratore nella fattispecie in esame attenevano ad inadempimenti contrattuali, per la sussistenza dei quali era sufficiente il carattere della «grave negligenza» e non anche la sussistenza dell'elemento psicologico del dolo, dall'altro, richiamando il principio di piena autonomia tra il procedimento disciplinare e quello penale.
La Suprema Corte ha infatti ricordato che tanto la contestazione dell'addebito, quanto il licenziamento «sono stati ritenuti fondati su fatti disciplinarmente rilevanti che prescindevano dal giudizio penale in corso». Tale assunto è conforme all'orientamento di legittimità secondo cui sussiste «completa autonomia e separazione delle valutazioni espresse nell'ambito dei due giudizi (penale e disciplinare) non più legati dall'istituto della "pregiudizialità penale" a seguito della mancata riproduzione dell'art. 3 dell'abrogato codice di procedura penale» (Cass. 14 settembre 2000, n. 12141; Cass. 9 aprile 2003, n. 5530).
Conseguentemente, la sentenza gravata è risultata conforme a diritto e non in contrasto con l'art. 15 del CCNL applicato, attenendo gli addebiti contestati ad inadempimenti contrattuali, quindi per fatti che prescindevano dal giudizio penale in corso.
Quanto al secondo motivo di ricorso, la Suprema Corte ha ricordato che il criterio di immediatezza della contestazione disciplinare va inteso in senso relativo, dovendosi tenere conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione tra cui, ad esempio, il tempo necessario per l'espletamento delle indagini dirette all'accertamento dei fatti e la complessità dell'organizzazione aziendale (in questo senso, tra le altre, Cass. n. 281 del 12 gennaio 2016).
Rispetto alla fattispecie in esame, la Corte di Cassazione, condividendo quanto statuito nella sentenza impugnata, ha dunque ritenuto che il lasso di tempo trascorso tra l'accertamento compiuto sugli addebiti, la contestazione degli stessi e l'irrogazione della sanzione fosse congruo, anche tenuto conto della complessa organizzazione della società.
Il ricorso del lavoratore è stato dunque rigettato.

Licenziamenti collettivi e indennità di preavviso

Cass. Sez. Lav. 22 luglio 2019, n. 19660

Pres. Di Cerbo; Rel. Garri; P.M. Fresa; Ric. S.F.; Controric. U. s.p.a.;

Licenziamento collettivo - Accordo sindacale che richiama un precedente accordo di prossimità in cui si esclude la corresponsione dell'indennità di preavviso - Legittimità

L'esercizio della facoltà di recedere con effetto immediato determina l'insorgere dell'unico obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva del preavviso, obbligazione pecuniaria che ben può costituire oggetto di accordo e di rinuncia ed è pertanto suscettibile di essere oggetto di accordo tra le parti sociali chiamate, nel contesto di una crisi aziendale, a mediare per assicurare la prosecuzione dell'attività di impresa e la conservazione dei livelli di occupazione.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma, decidendo in sede di rinvio a seguito di cassazione di una sentenza della medesima Corte, ha ritenuto infondato il reclamo proposto da un lavoratore avverso la decisione di primo grado dichiarativa della legittimità del licenziamento intimatogli in esito ad una procedura di licenziamento collettivo. Nella medesima sentenza viene anche confermata la parte in cui si esclude il diritto del lavoratore alla percezione dell'indennità sostitutiva del preavviso, ritenendosi la medesima legittimamente esclusa in forza degli accordi sindacali sottoscritti dalle parti.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione censurandola sotto svariati aspetti, tra cui, per quanto qui rileva, la violazione dell'art. 8 L. 148/2011 in tema di accordi di prossimità, doglianza, al pari delle altre, respinta dalla Suprema Corte.
Con il principio di cui alla massima, in parte già affermato in recenti precedenti (Cass. 18 giugno 2015, n. 12636; Cass. 28 settembre 2010, n. 20358), la Cassazione ribadisce, infatti, la legittimità un accordo di prossimità in cui le parti, al fine di ridurre le conseguenze negative della crisi aziendale impattante sui livelli occupazionali, hanno deliberato la rinuncia al pagamento, in favore dei lavoratori licenziati, della indennità di mancato preavviso, che, in quanto obbligazione di natura pecuniaria, secondo la Corte può senz'altro essere negoziata e costituire oggetto di rinuncia. Tale accordo può, poi, legittimamente essere recepito nell'accordo sindacale sottoscritto nell'ambito di una procedura di riduzione di personale. In presenza, infatti, di una comprovata situazione di crisi aziendale, tale da incidere sui livelli occupazionali, l'accordo di prossimità che deroga alle previsioni normative e contrattuali in tema di preavviso ed il successivo accordo sindacale che lo recepisce e richiama non contrastano con i principi della Costituzione, nè con la normativa comunitaria e con le convenzioni internazionali. Precisa in proposito la Corte che l'inderogabilità del diritto dei lavoratori licenziati ad un congruo periodo di preavviso non implica nè comprende il riconoscimento di un diritto inderogabile alla percezione dell'indennità sostitutiva del preavviso, che in quanto obbligazione pecuniaria, può costituire oggetto di rinunzia. In definitiva, secondo la Suprema Corte, l'accordo siglato nell'ambito del licenziamento collettivo con cui si recepisce la clausola di un precedente accordo di prossimità che esclude il diritto all'indennità di preavviso per i lavoratori licenziati si colloca nella prospettiva di maggior tutela dei lavoratori al fine di assicurare un minor costo sociale dell'operazione e di salvaguardare la prosecuzione dell'attività d'impresa e la relativa occupazione secondo, quindi, le specifiche finalità perseguite dalla L. 223/91 (Cass. 3 novembre 2016, n. 22789).
Il ricorso viene, pertanto, respinto.

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